martedì 14 febbraio 2012

Cirillo e Metodio

Di seguito il Vangelo di oggi, 14 febbraio, memoria liturgica dei santi Cirillo e Metodio,
Patroni d'Europa, con un commento e qualche testo per la meditazione.




"Eviti il pastore la tentazione di desiderare di essere amato dai fedeli anziché da Dio
o di essere troppo debole per timore di perdere l'affetto degli uomini;
non si esponga al rimprovero divino:
«Guai a quelli, che applicano cuscini a tutti i gomiti...
Il pastore deve bensì cercare di farsi amare,
ma allo scopo di farsi ascoltare,
non di cercare quest'affetto per utile proprio"

S. Gregorio Magno


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 10,1-9.

Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe.
Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi;
non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi.
Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi,
curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.


IL COMMENTO

Andare e annunciare. La Chiesa è tutta in questi due verbi. "Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio" (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 14). E un amore infinito a muovere gambe e cuore, l'amore più grande, annunciare l'amore, che ha un nome, perchè è una persona, Cristo Gesù. Ed è Verità, l'unica Verità che rende liberi, perchè "Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione... Più che mai ora, in questa generazione che sembra aver smarrito i sentieri del vero, è urgente un annuncio capace di ridestare in ogni uomo il seme di Verità deposto in Lui. Per questo non c'è amore più grande che annunciare la Verità a tutti, perchè «la Verità interroga il cuore» (J. Ratzinger).

Andare ed annunciare la Verità: nella Chiesa la nostra vita è così immersa in un cammino d'amore verso ogni uomo, come lo è stato per Cirillo e Metodio. Ovunque siamo inviati, per amare come Lui ci ha amati, senza risparmiare nulla, sino alla fine. Andare indifesi, semplici e liberi, poveri. L'annuncio del Vangelo, così come appare nel brano odierno, è sempre un'apparizione di Cristo risorto, la Buona Notizia fatta carne qui ed ora. L'essenziale missione della Chiesa è Cristo stesso che appare laddove giungano i suoi messaggeri, come è apparso la sera di Pasqua: "Pace a voi!". Non a caso san Paolo scrive che "Egli è venuto ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini". Egli nei suoi apostoli, Egli nella sua Chiesa.

Egli è venuto, è venuto da oltre la morte ed ha annunciato la Pace, che è autentica solo al di là della barriera su cui si infrangono le speranze e gli sforzi dell'uomo. Gesù annuncia la Pace passando attraverso la porta sprangata dietro la quale si nasconde l'uomo di ogni tempo, alienato in un cinismo che nega ogni possibilità all'autentico e all'eterno facendo delle proprie vuote parole l'assoluto su cui fondare l'esistenza. E' quello che canta John Lennon in una famosissima canzone - Imagine, Immagina - che ha sedotto milioni di giovani e meno giovani. Una immagine di questa generazioneche scaturisce da un'improbabile immaginare disancorato dalla realtà e dalla verità; una generazione perduta in sogni e utopie che evaporano tra cocaina e pasticche, depressioni e anoressie, corpi e dignità gettate nei rifiuti, speranze defraudate e pervertite in una teoria interminabile di "carpe diem", "Cogli l'attimo", che acutizzano i morsi della fame senza saziare:

Immagina che non esiste paradiso,
è facile se provi.
Nessun inferno sotto di noi,
nient’altro che il cielo su di noi.
Immagina tutta la gente vivere per l’oggi,
immagina non ci sono patrie.
Non è difficile, vedrai.
Nulla per cui uccidere o morire
e nessuna religione più.
Immagina tutta la gente vivere la vita in pace.
Ti sembro un sognatore?
Non sono il solo.
Spero che un giorno ti unirai a noi
e il mondo sarà una cosa sola.


Cristo è venuto ad annunciare la Pace sgretolando questo immaginare falso e distruttivo, e lo ha fatto portando proprio la Pace quale pegno, testimonianza, caparra di quel Paradiso che Lennon invitava a immaginare come non esistente. Gesù, come gli esploratori inviati da Mosè nella Terra di Canaan tornano con le primizie ivi raccolte, torna dal Paradiso recandone il frutto squisito, la Pace che fa dei due, di ogni Adamo ed Eva inesorabilmente separati dal veleno del peccato, una sola creazione nuova. E' venuto Lui, la Primizia, l'Uomo Nuovo, è venuto dal Cielo, dove vi è entrato con la nostra stessa carne, trasfigurandola, purificandola, liberandola. Viene dal Cielo annunciando la Pace, che è Lui stesso, il suo corpo vittorioso.

Ma Gesù, interrogato da Pilato, ha detto anche: "Io sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla Verità". E molto di più, perchè ha affermato di essere egli stesso la Verità. E questo gli ha costato la vita. Sant’Agostino, commentando il colloquio con Pilato, scrisse: "Quid est veritas? Vir qui adest". Cos’é la Verità? Era quell'uomo di fronte a Pilato, quell'Uomo apparso ai discepoli dopo aver trionfato sulla morte e sul loro tradimento. Pilato si girò e uscì, scappando da quel fascio di luce che lo aveva raggiunto. Gli Apostoli, stupiti, gioirono; erano figli della Pace, e la Pace discese su di loro. Così la Verità è Cristo che giunge, negli Apostoli, ad ogni angolo della Terra, e la Verità coincide con la Pace. Annunciata da Cristo risorto si rivela al cuore degli Apostoli come la Verità: quell'Uomo che avevano visto crocifisso era Dio, la morte ed il peccato erano stati vinti, ogni desiderio e speranza dell'uomo avevano in Lui trovato pace, compimento.

Per questo gli Apostoli, il suo corpo visibile in questa terra, sono inviati senza nulla, come figli del Regno, essi stessi Pace annunciata e offerta al mondo. Nulla per il viaggio, nessuna sicurezza, nessun sostegno di quelli in uso al di là del muro che separa il Cielo dalla terra, nel mondo soggiogato e soggetto al demonio e al peccato. Gli Apostoli sono la fragranza del Paradiso, con loro giunge Cristo, la Pace di ogni uomo, la Verità che schiude il Cielo, che libera dai sogni avvelenati cantati da Lennon. In ebraico ed in greco la parola Verità rimanda a ciò che non passa; nella Verità, in ultima analisi, risuona l'incorruttibilità. Per Pavel Florenskij il senso etimologico di Verità in greco (aletheia), è ciò che non si dimentica, che resiste saldo nel fluire del tempo. La Verità, quella che fonda l'esistenza, la sostanza della Vita, ciò che la orienta, la guida e la realizza, è dunque il Cielo e l'eternità che lo dilata in uno spazio e in un tempo che non hanno fine; la Pace annunciata dal Signore risorto ne è l'esperienza offerta agli Apostoli. Per questo la loro vita è un anticipo del Cielo, un segno compiuto della vocazione di ogni uomoIl loro annuncio è uno squillo nella notte, la sua credibilità risiede nell'autenticità della loro vita.Nulla possiedono, nulla che passi con il tempo è per loro sostegno e sostanza, la loro esistenza è un segno tangibile della Pace che realizza la Verità, la memoria eterna di Colui che ha introdotto l'eterno nel tempo.

Peccatori, fragili, eppure rivestiti della Gloria celeste, come pecore in mezzo ai lupi, percossi, rifiutati, perseguitati, uccisi eppure sempre lieti, rispondendo a tutto con amore, perchè la morte che pone fine a tutto in loro è stata vinta. I loro occhi brillano come quelli Stefano sotto la tempesta di sassi, lo sguardo di un angelo che fissa la sua Patria, un messaggero cui niente e nessuno può strappare la Pace che sgorga dal sentirsi amato di un amore più forte della morte e del peccato. Un amore per cui dare anche tutti i beni della terra sarebbe ancora irriderlo, non considerarlo per quello che è; un amore che seduce e fa suo l'amato, completamente. Un amore che si fa annuncio, grido, misericordia per ogni uomo. Perchè «la speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra», che Nietzsche reclamava, ma «è speranza anche per la terra» (J. Ratzinger, Elogio della coscienza).

Così è stata la vita di Cirillo e Metodio che hanno saputo, seguendo fedelmente l'ispirazione del Vangelo, incarnarlo nelle terre loro affidate. Senza compromessi, ma con un amore infinito. Si parla tanto oggi di inculturazione del Vangelo. Spesso con grande confusione. E si dimentica, probabilmente, ciò che muove l'evangelizzazione. Ci si dimentica dell'amore. Si ingabbia il Vangelo nelle trame delle diverse culture sino a gettarlo prono dinanzi alla dittatura del relativismo etico e morale dei tempi e delle mode; si pensa di renderlo più fruibile, commestibile, appetibile. Stretti dalla paura del rifiuto e del fallimento spesso limiamo la verità più profonda sino a farla coincidere con quanto la cultura dei vari luoghi sottolinea e presenta come peculiare. E' l'esperienza del compromesso, che tutti facciamo nella nostra vita.

La paura governa le nostre relazioni e le rende sempre più precarie. L'amore che "proviamo" non trascende il perimetro della nostra carne, dei sentimenti, del tangibile. Non è amore, è passione. E', in definitiva, un narcisistico amore per noi stessi fatto salire sul treno di atti e parole che colpiscano il cuore dell'altro, che lo aggancino, lo leghino, lo facciano partorire sentimenti di gratitudine e di affetto. E' un amore che cerca di irretire l'amore dell'altro. Così anche in molti tentativi di inculturizzare il Vangelo. Ciò che realmente preme è non fallire, è l'essere compresi, accettati. Lo scandalo della Croce fa paura, perchè si è dimenticato il Cielo che essa dischiude. E si camuffa la verità, si fa di Cristo un manichino su cui indossare gli abiti più consoni ai nostri schemi ormai privi di fede, carità e speranza. Si diluisce il cuore del Vangelo credendo che aiutare l'altro a situarsi nella realtà - denunciare i peccati e chiamare a conversione - sia giudicare la cultura o le tradizioni o la stessa persona. L'annuncio sine glossa del vangelo è, per molti in Asia, in Africa e purtroppo anche in Europa, sinonimo di fondementalismo intollerante.

E' la nostra esperienza nelle relazioni quotidiane, come l'esperienza di tanti tentativi missionari. L'amore, e la missione che ne è mossa, quella a cui siamo chiamati ogni giorno, e quella della Chiesa nel suo complesso, sono ben altra cosa. E' l'amore, è la libertà che ha sperimentato San Paolo e che gli ha permesso davvero di farsi tutto a tutti. La libertà del Figlio che nulla difende, che scende al fondo della vita di ciascuno per amore, per annunciarvi la Verità che genera la Pace. E' l'esperienza della misericordia, del perdono, la Luce pasquale nelle tenebre dei giorni, che illumina ciò che abita nel cuore di ogni uomo. «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito» (R. Guardini,L’essenza del cristianesimo, 1981, p. 12). La Verità del Vangelo è l'esperienza di un grande amore, il più grande. Annunciarlo, con valentia, parresia, coraggio,adeguandone le forme di comunicazione seguendo le tracce delle Spirito Santo senza annacquarlo nei pruriti pseudo culturali, orgoglio mascherato che lascia Cristo fuori della porta, senza dimenticare che "Dio ha voluto salvare il mondo con la stoltezza della predicazione".

Un cuore grato, come quello dei Santi Cirillo e Metodio, ricolmo d'amore, un cuore liberato dalla schiavitù del peccato, è il cuore che trabocca, e che è bruciato da uno zelo indomabile. Il cuore del missionario è un cuore ricreato ad immagine di quello di Cristo, spinto dall'urgenza dell'annuncio di ciò che ha sperimentato. Un cuore che sache «l’uomo non può esistere senza inchinarsi (...) Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o d’oro, o del pensiero... o di dèi senza Dio» (F. Dostoevskij. L'Adolescente). Ed ogni cultura resa assoluta e come tale idolatrata, come ogni idea trasformata in ideologia, esigono ginocchia pronte a piegarsi per rapire dall'anima la Verità, e con essa la vita: fare della terra il Cielo, come cantava Lennon, come cantano tutti i falsi profeti. Il cuore del missionario è un cuore come quello di Cirillo e Metodio, capace di scrivere con caratteri nuovi la Verità, senza diluire, ammorbidire, adeguare, ma con passione, perchè giunga ad ogni cuore, nella lingua con la quale è capace di accogliere, l'annuncio del Vangelo, della Verità che è Vita e Pace. Un cuore geloso, come quello di Dio, che vede in ogni uomo l'inganno di cui è preda, ed offre la propria vita, la vita stessa di Cristo, per liberarlo e ricondurlo alla vera Pace. Un cuore gonfio d'amore, che, per amore, accetta il rifiuto, lo carica su di sé, sino a consegnarsi, martire-testimone della Verità come il suo Signore, anche per chi, del suo annuncio, non sa che farsene. L'amore di Cristo che scorre in una vita donata, nemica dei compromessi, testimone della Verità sino all'effusione del sangue. Un cuore mite, compassionevole, sincero, che brucia di zelo per la salvezza, vera, di ogni uomo.


Giovanni Paolo II, papa dal 1978 al 2005
Ut unum sint, 19 - © Libreria Editrice Vaticana
  
Santi Cirillo e Metodio, apostoli degli slavi



La dottrina deve essere presentata in un modo che la renda comprensibile a coloro ai quali Dio stesso la destina. Nell'Epistola enciclica Slavorum apostoli, ricordavo come Cirillo e Metodio, per questo stesso motivo, si adoperassero a tradurre le nozioni della Bibbia e i concetti della teologia greca in un contesto di esperienze storiche e di pensiero molto diversi.


Essi volevano che l'unica parola di Dio fosse « resa così accessibile secondo le forme espressive, proprie di ciascuna civiltà ». Compresero di non poter dunque « imporre ai popoli assegnati alla loro predicazione neppure l'indiscutibile superiorità della lingua greca e della cultura bizantina, o gli usi e i comportamenti della società più progredita, in cui essi erano cresciuti ». Essi mettevano così in atto quella « perfetta comunione nell'amore [che] preserva la Chiesa da qualsiasi forma di particolarismo o di esclusivismo etnico o di pregiudizio razziale, come da ogni alterigia nazionalistica ».


Cirillo, in punto di morte, pregava così : « Signore Dio, fa' crescere la tua Chiesa, e raduna tutti gli uomini nell'unità ; stabilisci i tuoi eletti nella concordia della vera fede e della retta confessione di fede : fa' penetrare le tue parole nel loro cuore affinché si consacrino a ciò che è buono e ti è gradito. »

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Benedetto XVI. Santi Cirillo e Metodio


UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 giugno 2009
Santi Cirillo e Metodio
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare dei Santi Cirillo e Metodio, fratelli nel sangue e nella fede, detti apostoli degli slavi. Cirillo nacque a Tessalonica dal magistrato imperiale Leone nell’826/827: era il più giovane di sette figli. Da ragazzo imparò la lingua slava. All’età di quattordici anni fu mandato a Costantinopoli per esservi educato e fu compagno del giovane imperatore Michele III. In quegli anni fu introdotto nelle diverse materie universitarie, fra le quali la dialettica, avendo come maestro Fozio. Dopo aver rifiutato un brillante matrimonio, decise di ricevere gli ordini sacri e divenne “bibliotecario” presso il Patriarcato. Poco dopo, desiderando ritirarsi in solitudine, andò a nascondersi in un monastero, ma fu presto scoperto e gli fu affidato l’insegnamento delle scienze sacre e profane, mansione che svolse così bene da guadagnarsi l’appellativo di “Filosofo”. Nel frattempo, il fratello Michele (nato nell’815 ca.), dopo una carriera amministrativa in Macedonia, verso l’anno 850 abbandonò il mondo per ritirarsi a vita monastica sul monte Olimpo in Bitinia, dove ricevette il nome di Metodio (il nome monastico doveva cominciare con la stessa lettera di quello di battesimo) e divenne igumeno del monastero di Polychron.
Attratto dall’esempio del fratello, anche Cirillo decise di lasciare l’insegnamento per recarsi sul monte Olimpo a meditare e a pregare. Alcuni anni più tardi però, (861 ca.), il governo imperiale lo incaricò di una missione presso i khazari del Mare di Azov, i quali chiedevano che fosse loro inviato un letterato che sapesse discutere con gli ebrei e i saraceni. Cirillo, accompagnato dal fratello Metodio, sostò a lungo in Crimea, dove imparò l’ebraico. Qui ricercò pure il corpo del Papa Clemente I, che vi era stato esiliato. Ne trovò la tomba e, quando col fratello riprese la via del ritorno, portò con sé le preziose reliquie. Giunti a Costantinopoli, i due fratelli furono inviati in Moravia dall’imperatore Michele III, al quale il principe moravo Ratislao aveva rivolto una precisa richiesta: “Il nostro popolo – gli aveva detto – da quando ha respinto il paganesimo, osserva la legge cristiana; però non abbiamo un maestro che sia in grado di spiegarci la vera fede nella nostra lingua”. La missione ebbe ben presto un successo insolito. Traducendo la liturgia nella lingua slava, i due fratelli guadagnarono una grande simpatia presso il popolo.
Questo, però, suscitò nei loro confronti l’ostilità del clero franco, che era arrivato in precedenza in Moravia e considerava il territorio come appartenente alla propria giurisdizione ecclesiale. Per giustificarsi, nell’867 i due fratelli si recarono a Roma. Durante il viaggio si fermarono a Venezia, dove ebbe luogo un’animata discussione con i sostenitori della cosiddetta “eresia trilingue”: costoro ritenevano che vi fossero solo tre lingue in cui si poteva lecitamente lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina. Ovviamente, a ciò i due fratelli si opposero con forza. A Roma Cirillo e Metodio furono ricevuti dal Papa Adriano II, che andò loro incontro in processione per accogliere degnamente le reliquie di san Clemente. Il Papa aveva anche compreso la grande importanza della loro eccezionale missione. Dalla metà del primo millennio, infatti, gli slavi si erano installati numerosissimi in quei territori posti tra le due parti dell’Impero Romano, l’orientale e l’occidentale, che erano già in tensione tra loro. Il Papa intuì che i popoli slavi avrebbero potuto giocare il ruolo di ponte, contribuendo così a conservare l’unione tra i cristiani dell’una e dell’altra parte dell’Impero. Egli quindi non esitò ad approvare la missione dei due Fratelli nella Grande Moravia, accogliendo e approvando l’uso della lingua slava nella liturgia. I libri slavi furono deposti sull’altare di Santa Maria di Phatmé (Santa Maria Maggiore) e la liturgia in lingua slava fu celebrata nelle Basiliche di San Pietro, Sant’Andrea, San Paolo.
Purtroppo a Roma Cirillo s’ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, volle consacrarsi totalmente a Dio come monaco in uno dei monasteri greci della Città (probabilmente presso Santa Prassede) ed assunse il nome monastico di Cirillo (il suo nome di battesimo era Costantino). Poi pregò con insistenza il fratello Metodio, che nel frattempo era stato consacrato Vescovo, di non abbandonare la missione in Moravia e di tornare tra quelle popolazioni. A Dio si rivolse con questa invocazione: “Signore, mio Dio…, esaudisci la mia preghiera e custodisci a te fedele il gregge a cui avevi preposto me… Liberali dall’eresia delle tre lingue, raccogli tutti nell’unità, e rendi il popolo che hai scelto concorde nella vera fede e nella retta confessione”. Morì il 14 febbraio 869.
Fedele all’impegno assunto col fratello, nell’anno seguente, 870, Metodio ritornò in Moravia e in Pannonia (oggi Ungheria), ove incontrò di nuovo la violenta avversione dei missionari franchi che lo imprigionarono. Non si perse d’animo e quando nell’anno 873 fu liberato si adoperò attivamente nella organizzazione della Chiesa, curando la formazione di un gruppo di discepoli. Fu merito di questi discepoli se poté essere superata la crisi che si scatenò dopo la morte di Metodio, avvenuta il 6 aprile 885: perseguitati e messi in prigione, alcuni di questi discepoli vennero venduti come schiavi e portati a Venezia, dove furono riscattati da un funzionario costantinopolitano, che concesse loro di tornare nei Paesi degli slavi balcanici. Accolti in Bulgaria, poterono continuare nella missione avviata da Metodio, diffondendo il Vangelo nella «terra della Rus’». Dio nella sua misteriosa provvidenza si avvaleva così della persecuzione per salvare l’opera dei santi Fratelli. Di essa resta anche la documentazione letteraria. Basti pensare ad opere quali l’Evangeliario (pericopi liturgiche del Nuovo Testamento), il Salterio, vari testi liturgiciin lingua slava, a cui lavorarono ambedue i Fratelli. Dopo la morte di Cirillo, a Metodio e ai suoi discepoli si deve, tra l’altro, la traduzione dell’intera Sacra Scrittura, ilNomocanone e il Libro dei Padri.
Volendo ora riassumere in breve il profilo spirituale dei due Fratelli, si deve innanzitutto registrare la passione con cui Cirillo si avvicinò agli scritti di san Gregorio Nazianzeno, apprendendo da lui il valore della lingua nella trasmissione della Rivelazione. San Gregorio aveva espresso il desiderio che Cristo parlasse per mezzo di lui: “Sono servo del Verbo, perciò mi metto al servizio della Parola”. Volendo imitare Gregorio in questo servizio, Cirillo chiese a Cristo di voler parlare in slavo per mezzo suo. Egli introduce la sua opera di traduzione con l’invocazione solenne: “Ascoltate, o voi tutte genti slave, ascoltate la Parola che venne da Dio, la Parola che nutre le anime, la Parola che conduce alla conoscenza di Dio”. In realtà, già alcuni anni prima che il principe di Moravia venisse a chiedere all’imperatore Michele III l’invio di missionari nella sua terra, sembra che Cirillo e il fratello Metodio, attorniati da un gruppo di discepoli, stessero lavorando al progetto di raccogliere i dogmi cristiani in libri scritti in lingua slava. Apparve allora chiaramente l’esigenza di nuovi segni grafici, più aderenti alla lingua parlata: nacque così l’alfabeto glagolitico che, successivamente modificato, fu poi designato col nome di “cirillico” in onore del suo ispiratore. Fu quello un evento decisivo per lo sviluppo della civiltà slava in generale. Cirillo e Metodio erano convinti che i singoli popoli non potessero ritenere di aver ricevuto pienamente la Rivelazione finché non l’avessero udita nella propria lingua e letta nei caratteri propri del loro alfabeto.
A Metodio spetta il merito di aver fatto sì che l’opera intrapresa col fratello non fosse bruscamente interrotta. Mentre Cirillo, il “Filosofo”, era propenso alla contemplazione, egli era piuttosto portato alla vita attiva. Grazie a ciò poté porre i presupposti della successiva affermazione di quella che potremmo chiamare l’«idea cirillo-metodiana»: essa accompagnò nei diversi periodi storici i popoli slavi, favorendone lo sviluppo culturale, nazionale e religioso. E’ quanto riconosceva già Papa Pio XI con la Lettera apostolicaQuod Sanctum Cyrillum, nella quale qualificava i due Fratelli: “figli dell’Oriente, di patria bizantini, d’origine greci, per missione romani, per i frutti apostolici slavi” (AAS 19 [1927] 93-96). Il ruolo storico da essi svolto è stato poi ufficialmente proclamato dal PapaGiovanni Paolo II che, con la Lettera apostolica Egregiae virtutis viri, li ha dichiarati compatroni d’Europa insieme con san Benedetto (AAS 73 [1981] 258-262). In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine “inculturazione”: ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di “traduzione” molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento.

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Giovanni Paolo II. SS. Cirillo e Metodio




LETTERA APOSTOLICA
EGREGIAE VIRTUTIS
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
(v. post dal titolo "Celesti compatroni d'Europa", del 14 febbraio 2011)

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Fede, verità, tolleranza. Un’intervista a Ratzinger


Fede, verità, tolleranza. Un’intervista a Ratzinger
Intervista a cura di Antonio Socci. Il libro: Joseph Ratzinger, “Fede, verità tolleranza. Il cristianesimo e le religioni nel mondo”, Cantagalli, Siena, 2003, pagine 298, euro 17,50
Eminenza, c’è un’idea che si è affermata nella cultura alta e nel pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo stesso Dio, quindi l’una vale l’altra. Cosa ne pensa, dal punto di vista teologico?

Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione molto comoda per il pensiero di oggi. È un riflesso del relativismo diffuso, ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico una accanto all’altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l’una per l’altra. Alla fine la Verità è una, Dio è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti storici, non sono equivalenti, ma sono un cammino nel quale si pone la domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla necessità dell’uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi domande.

In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c’è bisogno della Chiesa?

Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che Lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che Lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c’è una impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: “è un profeta”. Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un’altra realtà, è Dio presente in un uomo.

Non è confrontabile con le altre grandi personalità delle religioni?

Sono molto diverse l’una dall’altra. Buddha in sostanza dice: “Dimenticatemi, andate solo sulla strada che ho mostrato”. Maometto afferma: “Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano”. E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista.

Perché?

È una realtà del tutto diversa. Appartiene ad una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell’istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali.

Per la mentalità comune questa “pretesa” della Chiesa - che proclama “Cristo, unica salvezza” - è arroganza dottrinale.

Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all’unicità di Cristo e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali “noi non possiamo dire che abbiamo una cosa migliore che gli altri”. Inoltre c’è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono impedirci di vedere l’essenziale. Perché l’abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell’unicità di Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un’invenzione nostra europea, non è un prodotto nostro. È sempre una sfida che viene da fuori dell’Europa: all’origine venne dall’Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l’Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della Parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea.

Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c’è in Europa?

Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la Sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l’Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una Parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda.

Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere, credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. È percepito come assurdo.

Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po’ assurda e facilmente si attribuisce ad un pensiero mitologico di un tempo passato che non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso presente, per me, e sia la risposta alle mie domande. Mi sembra importante allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in Cristo la luce per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d’Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa, Massimiliano Kolbe... È un’ininterrotta strada di luce che si fa cammino della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo fatto - che Cristo non è rimasto nel passato ma è stato sempre contemporaneo con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo, fa capire che non si tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra, che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in un contesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una realtà presente.

Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?

E’ facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l’uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell’infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell’infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa addirittura un uomo come me, è la risposta. È certo un paradosso che Dio, l’immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, “finendosi” in una persona umana che tuttavia è l’infinito. È la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesse…

C’è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?

Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e stato, divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice: “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato.

Quindi non c’è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l’assoluto, la definitività, la perfezione…

Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l’assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso… In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo stato. I padri hanno pregato per lo stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva. Ma questo è uno straordinario punto d’incontro tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa.

I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme nei prossimi tempi.

È una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce realmente neanche un perché della vita umana, anche della vita politica, non è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza, resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto ed un senso morale del suo agire.

I sommovimenti noglobal di questi anni sono di nuovo una trasposizione della sete d’assoluto in un obiettivo politico?

Direi di sì. È sempre questa sete, perché l’uomo ha bisogno dell’assoluto e se non lo trova in Dio lo crea nella storia.

Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le civiltà debbono comunque essere sempre rispettate a priori oppure c’è un canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti?

Ecco, questo è l’ altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato che la politica è il mondo dell’opinabile, del perfettibile, dove si devono cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio, uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur riconoscendo totalmente l’autonomia politica.

Dunque non tutto è permesso…

Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l’ultima istanza, la legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un giorno decidere, per esempio, che vi sia una “razza” da escludere per il progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni valori etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono quindi obbligatori anche per le maggioranze.

Qualche esempio?

Sostanzialmente il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti.

Torno a un altro aspetto del “relativismo culturale”. Anche fra i cattolici c’è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei confronti di popoli che hanno un’altra civiltà.

Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il suo proprio mondo tradizionale evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede. Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l’Amore, se abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri. Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà, perché la verità non s’impone con altri mezzi che con la propria evidenza e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato, che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene il cristianesimo, sapendo che suppone l’altissimo rispetto della libertà dell’altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione interiore - “ho trovato quanto desideravo” - non sarebbe una vera conversione.

Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la conversione di tanti immigrati che provengono dall’islam, e che - oltre a trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non accompagnati dalla comunità cristiana.

Sì, ho letto e mi addolora molto. È sempre lo stesso sintomo, il dramma della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sé. Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.

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COMUNICAZIONE E CULTURA: NUOVI PERCORSI PER L’EVANGELIZZAZIONE NEL TERZO MILLENNIO



9 novembre 2002
Riporto di seguito l’intervento del Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, al convegno “Comuncazione e cultura, nuovi percorsi di evangelizzazione nel Terzo Millennio”, pubblicato da "Avvenire" del 24 aprile 2005

Il tema, che mi è stato proposto, comprende tre concetti principali: comunicazione - cultura - evangelizzazione. Innanzitutto occorre dire che i due concetti di comunicazione e di evangelizzazione sono chiaramente collegati: evangelizzazione è comunicazione di una parola, che è qualcosa di più che una parola - è un modo di vivere, anzi la vita stessa. Così l'impostazione del problema è innanzitutto: come il vangelo può superare la soglia fra me e l'altro? Come si può giungere ad una comunione nel vangelo, così che esso non solo mi unisca all'altro, ma unisca entrambi con la parola di Dio e così ne nasca un'unità che vada veramente in profondità?
Fra le due parole comunicazione ed evangelizzazione nel nostro tema si trova la parola cultura. Evidentemente si intende così designare il mezzo di comunicazione, l'ambiente, nel quale la comunicazione si può verificare. Di fatto il vangelo non viene portato ad uomini, il cui spirito sarebbe una "tabula rasa", come secondo Aristotele e Tomaso d'Aquino è lo spirito umano nel primo momento del risvegliarsi alla vita. No, la tavola dello spirito, alla quale giunge la nostra predicazione, è riempita di molteplici scritte e viene continuamente in contatto con innumerevoli comunicazioni, così che sembra quasi impossibile collocarvi ancora qualche altra cosa. Nell'odierna sovrabbondanza di informazioni vi è ancora posto sulla tavola delle nostre anime, ovvero il vangelo, come sembra accadere spesso, può essere scritto ormai solo sul suo margine più esterno? O forse il vangelo non è un'informazione fra le altre, una riga sulla tavola accanto ad altre, ma la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte informazioni, che ci sommergono giorno dopo giorno? Dalla questione della caratteristica di questo messaggio dipende anzi anche la questione della forma giusta della sua comunicazione. Se il vangelo appare solo come una notizia fra molte, può forse essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la comunicazione, che noi chiamiamo vangelo, a far capire che essa è appunto una forma totalmente altra di informazione - nel nostro uso linguistico, piuttosto una "performazione", un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell'esistenza può trovare il suo giusto tono?
Non è facile dare una risposta. Avevo affermato che la tavola dello spirito non è priva di scritte. Dobbiamo aggiungere: la persona umana non è mai sola, essa viene plasmata da una comunità, che le offre le forme del pensare, del sentire, dell'agire. Questo insieme di forme di pensare e di rappresentare, che plasma in antecedenza l'essere umano, la chiamiamo cultura. Della cultura fanno parte innanzitutto la lingua comune, poi la costituzione della comunità, quindi lo stato con le sue articolazioni, il diritto, le consuetudini, le concezioni morali, l'arte, le forme del culto, ecc.. La parola del vangelo si inserisce in questo insieme vitale della "cultura". Si deve rendere comprensibile in essa, e deve divenire efficace in essa, plasmare tutta questa forma di vita, essere in essa per così dire lievito, che penetra tutta la massa. Il vangelo in una certa misura presuppone la cultura, non la sostituisce, ma la plasma. Nel mondo greco al nostro concetto di cultura corrisponde quale termine più adeguato la parola paideia - educazione nel senso più alto, in quanto conduce l'uomo alla vera umanità; i latini hanno espresso la stessa cosa con la parola eruditio: l'uomo viene di-rozzato, viene formato quale vero essere umano. In questo senso il vangelo è per sua naturapaideia - cultura, ma in questa educazione dell'uomo si unisce a tutte le forze, che si propongono di configurare l'essere umano come essere comunitario.
Il tema a me proposto tuttavia aggiunge alla questione generale della comunicazione del vangelo tramite lo strumento della cultura ancora una determinazione temporale: il terzo millennio. Non si tratta quindi in astratto del rapporto fra vangelo e cultura, ma di come si possa rendere comunicabile il vangelo nell'ambito della cultura di oggi. Così occorre almeno in modo molto breve domandarci: cosa è dunque la nostra cultura, che scrive oggi sulla tavola delle nostre anime? La precisazione temporale è inoltre accompagnata a motivo della cornice del nostro convegno anche da una determinazione locale: si tratta della Chiesa in Italia. Ora, l'Italia con le sue caratteristiche del tutto specifiche fa parte del mondo occidentale e della sua cultura. Questa cultura da una parte è stata edificata dal cristianesimo, ed in Italia questa conformazione attraverso la fede cattolica è senza dubbio ancora sostanzialmente più fortemente operante che in molti altri paesi occidentali. In questo senso il vangelo parla qui non semplicemente in una cornice totalmente estranea. Questi elementi perduranti di una cultura cristiana non possiamo sottovalutarli e non vogliamo nello zelo del rinnovamento metterli da parte quale ciarpame invecchiato, come è accaduto qui e là nel primo entusiasmo del tempo postconciliare, in cui tutta la cultura cristiana esistente con una singolare frattura temporale fu improvvisamente bollata come preconciliare e così etichettata come superata. No, dovremmo essere lieti di queste forme cristiane che danno configurazione alla nostra vita comunitaria, spolverarle e purificarle - laddove è necessario - , ma comunque rafforzarle ed incoraggiarle. Tuttavia già sempre, anche nel medioevo, questa cultura cristiana era insidiata da elementi non cristiani e anticristiani. A partire dall'illuminismo la cultura dell'occidente si allontana con velocità crescente dai suoi fondamenti cristiani. La dissoluzione della famiglia e del matrimonio, i crescenti attacchi alla vita umana ed alla sua dignità, la riduzione della fede a realtà soggettiva e la conseguente secolarizzazione della coscienza pubblica così come la frammentazione e la relativizzazione dell'ethos ci mostrano questo in modo oltremodo chiaro. In questo senso la cultura di oggi in Italia ed in forme diverse in tutto il mondo occidentale è anche una cultura lacerata da contraddizioni interne. Esistono modalità di cultura cristiana che si affermano o che nuovamente emergono, esistono in contrasto a queste con crescente forza di diffusione forme che si contrappongono allapaideia cristiana. L'evangelizzazione, che parla a questa cultura, non ha dunque a che fare con un destinatario unitario. Deve esercitare l'arte del discernimento in una realtà contraddittoria e deve trovare anche nelle zone secolarizzate di questa cultura vie, che si lascino aprire alla fede.
Prima che io cerchi di concretizzare ancora ulteriormente queste riflessioni in un paio di tesi, vorrei proporre per questo itinerario di incontro e di confronto culturale un'immagine, che ho trovato in Basilio il Grande (+ 379), il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo si vide posto davanti ad un compito assai simile a quello che è posto a noi. Basilio si riallaccia all'autopresentazione del profeta Amos, il quale diceva di sé: "Pastore sono e coltivatore di sicomori" (7,14). La traduzione greca del libro del profeta, la LXX, rende in modo più chiaro nel seguente modo l'ultima espressione: "Io ero uno, che taglia i sicomori". La traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni. Basilio presuppone nel suo commentario ad Is. 9, 10 questa prassi, infatti egli scrive: "Il sicomoro è un albero, che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo, (il sicomoro) è un simbolo per l'insieme dei popoli pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile". Christian Gnilka commenta così questo passo: "In questo simbolo si trovano l'ampiezza, la ricchezza, la fastosità del paganesimo... ma anche si trova qui il suo limite: così come è, è insipido, inutilizzabile. Necessita di un cambiamento totale, ma questo cambiamento non distrugge la sostanza, ma le dà la qualità che le manca... I frutti restano frutti; la loro abbondanza non viene diminuita, ma riconosciuta come pregio... D'altra parte la trasformazione necessaria non potrebbe essere sottolineata in modo più forte dal punto di vista dell'immagine se non proprio dicendo che si rende commestibile, ciò che prima non era fruibile. Nella 'fuoriuscita' del succo inoltre sembra alludersi al processo di purificazione". Ancora una cosa si deve notare: la trasformazione necessaria non può derivare da una proprietà dell'albero e del suo frutto - è necessario un intervento del coltivatore, un intervento dall'esterno. Applicando questo al paganesimo, a ciò che è proprio della cultura umana, ciò significa: il Logosstesso deve incidere le nostre culture ed i suoi frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non divenga soltanto fruibile, ma buono. Osservando attentamente il testo e le sue affermazioni, possiamo aggiungere un'ulteriore considerazione: si, ultimamente è solo il Logos stesso, che può condurre le nostre culture alla loro autentica purezza e maturità, ma il Logos ha bisogno dei suoi servitori, dei "coltivatori di sicomori": l'intervento necessario presuppone competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza e pazienza. Poiché Basilio parla qui dell'insieme dei pagani e delle loro abitudini, è evidente che in questa immagine non si tratta semplicemente della guida individuale delle anime, ma della purificazione e della maturazione delle culture, tanto più che la parola "abitudini" (mores) è una delle parole, che corrispondono presso i padri più o meno al nostro concetto di cultura. Così in questo testo è rappresentato esattamente ciò, su cui ci stiamo interrogando: il percorso dell'evangelizzazione nell'ambito della cultura, il rapporto del vangelo con la cultura. Il vangelo non sta accanto alla cultura. Non è rivolto semplicemente all'individuo, ma alla cultura, che plasma la crescita ed il divenire spirituale del singolo, la sua fecondità o infecondità per Dio e per il mondo. L'evangelizzazione non è neppure un semplice adattarsi alla cultura, ovvero un rivestirsi con elementi della cultura nel senso di un concetto superficiale di inculturazione, che ritiene siano sufficienti un paio di innovazioni nella liturgia e espressioni linguistiche cambiate. No, il vangelo è un taglio - una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. È un taglio, che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità, comprensione della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle sue possibilità nascoste o anche palesi. Così è evidente che questo taglio "non è affare di un momento, al quale dovrebbe poi semplicemente seguire una ovvia maturazione", ma è necessario un continuo paziente incontro fra ilLogos e la cultura, mediato dal servizio dei credenti.
A me sembra che in tal modo veramente sia stato detto l'essenziale di ciò, che esige l'incontro oggi necessario fra fede e cultura. Così è anche corretta la concezione unilaterale, che oggi spesso associamo con il concetto di inculturazione. Forse è però pur sempre utile illustrare ancora brevemente in tre tesi ciò che si è voluto dire.
1. La fede cristiana è aperta a tutto ciò che di grande, vero e puro vi è nella cultura del mondo, come Paolo ha ben espresso nella lettera ai Filippesi: "Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri" (4,8). Paolo si riferisce qui certamente innanzitutto agli elementi essenziali della concezione morale stoica, che egli riteneva si avvicinasse al cristianesimo, ma in generale a tutto quello che di grande vi era nella cultura greco-romana. Ciò che egli ha detto in quell'ambiente, vale universalmente. Chi oggi evangelizza, innanzitutto ricercherà nella nostra cultura, ciò che in essa si apre al vangelo e si preoccuperà per così dire di sviluppare ulteriormente questi "semi del Verbo". Prenderà in considerazione naturalmente anche i contesti sociologici e psicologici, che oggi si oppongono alla fede o viceversa possono divenire punti di incontro. Il cristianesimo in passato aveva avuto inizio in una cultura cittadina ed era riuscito solo lentamente ad interessare la campagna: gli abitanti della campagna rimanevano "pagani". Si è poi associato alla cultura agraria ed oggi deve ritrovare nelle culture cittadine gli spazi, in cui poter porre la sua dimora. I 'movimenti', le nuove forme di itinerari alla fede nei pellegrinaggi, ecc., gli incontri nei santuari, le giornate della gioventù indicano dei modelli; su di ciò dovranno riflettere le Conferenze episcopali con i loro esperti.
2. La fede conosce e ricerca i punti di contatto, recupera ciò che vi è di buono, ma è anche opposizione a ciò, che nelle culture sbarra le porte al vangelo. È un "taglio", come abbiamo sentito. È quindi stata anche sempre critica delle culture e deve essere proprio anche oggi impavida e coraggiosa. Gli irenismi non aiutano nessuno. Hugo Rahner ha mostrato questo efficacemente nel suo lavoro sulla "pompa diaboli": del rito battesimale fa parte infatti la rinuncia alla "pompa del demonio". Che cosa è? da che cosa qui il cristiano si separava? Di fatto la parola si riferiva innanzitutto al teatro pagano, ai giochi del circo, nei quali lo scannamento di uomini era divenuto uno spettacolo ricercato, crudeltà, violenza, disprezzo dell'uomo era il culmine dell'intrattenimento. Ma con questa rinuncia al teatro si intendeva naturalmente tutto un tipo di cultura o detto meglio: la degenerazione di una cultura, dalla quale innanzitutto doveva separarsi colui che voleva diventare cristiano e che si impegnava a vedere nell'uomo un'immagine di Dio e a vivere come tale. Così questa rinuncia battesimale è espressione sintetica del carattere critico nei confronti della cultura che è tipico del cristianesimo ed un contrassegno per il "taglio", che qui si rende necessario. Chi non potrebbe vedere le analogie con il presente e le sue degenerazioni culturali?
3. Nessuno vive solo. Il richiamo al rapporto fra vangelo e cultura vuole mettere in luce questo. Divenire cristiano necessita un rapporto vitale, nel quale si possano realizzare risanamento e trasformazione della cultura. L'evangelizzazione non è mai soltanto una comunicazione intellettuale, essa è un processo vitale, una purificazione ed una trasformazione della nostra esistenza, e per questo è necessario un cammino comune. Perciò la catechesi deve necessariamente assumere la forma del catecumenato, nel quale si possano compiere i necessari risanamenti, nel quale soprattutto viene stabilito il rapporto fra pensiero e vita. Eloquente è al riguardo il racconto, che Cipriano di Cartagine (+ 258) ha dato della sua conversione alla fede cristiana. Egli ci racconta che prima della sua conversione e battesimo non poteva affatto immaginarsi, come si potesse mai vivere da cristiano e superare le abitudini del suo tempo. Egli fornisce in proposito una cruda descrizione di quelle abitudini, che ricorda proprio le Satire di Giovenale, ma anche fa pensare al contesto vitale, nel quale oggi devono vivere i giovani: si può qui essere cristiani? non è questa una forma di vita superata? Quanti si chiedono questo, a ragione in realtà parlando da un punto di vista puramente umano. Ma l'impossibile, così narra Cipriano, fu reso possibile per la grazia di Dio ed il sacramento della rinascita, che naturalmente è considerato nel luogo concreto, nel quale esso può divenire efficace: nel cammino comune dei credenti, che aprono una via alternativa da vivere e la mostrano come possibile. Qui siamo ora di nuovo al tema della cultura, al tema del "taglio". Infatti Cipriano parla proprio della violenza delle "abitudini", cioè di una cultura, che fa apparire la fede come impossibile. Più di cento anni dopo Gregorio di Nazianzo (+ 390) esalta la conversione di Cipriano con le seguenti parole: "Per le sue conoscenze... rendono testimonianza anche le opere, di cui egli compose molte e notevoli per il nostro argomento, dopo che, grazie alla bontà di Dio, 'che tutto crea' e 'volge al meglio' (Amos 5,8 LXX) egli aveva messo in salvo la sua formazione precedente portandola da questa parte e aveva sottomesso l'irragionevolezza alla ragione". Proprio perché egli sul cammino della conversione, mediante il taglio del Logos, ha trasformato la cultura del suo mondo, egli ha "messo in salvo" ciò che di essenziale e di vero essa conteneva. Mediante l'incisione nel sicomoro della cultura antica i Padri l'hanno nel complesso "messa in salvo" per noi e trasformata da strumento marcio in un frutto grandioso. Questo è il compito, che oggi è a noi proposto nei confronti della cultura secolarizzata del nostro tempo - questo è evangelizzazione della cultura.