sabato 11 febbraio 2012

Venne a Gesù un lebbroso...


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"Come hai purificato il lebbroso dalla sua 
infermità, o Onnipotente, così guarisci il 
male delle nostre anime, tu che sei 
misericordioso, per intercessione della
Madre di Dio, o medico delle nostre anime, 
Amico degli uomini e salvatore immune da
peccato".
Romano il Melode, Inni, 23, Proemio


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Oggi 12 febbraio la Chiesa celebra la
VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno B


Di seguito:  la seconda lettura dell'Ufficio, i testi del Messale, qualche commento e un testo di Giovanni della Croce.

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La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita
Dai «Commenti dal Diatessaron» di sant'Efrem, diacono (1, 18-19; SC 121, 52-53)
Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? E' molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l'Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).
Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. E' meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l'impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un pò alla volta.


MESSALE

Antifona d'Ingresso   Sal 30,3-4
Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva,
perché tu sei mio baluardo e mio rifugio;
guidami per amore del tuo nome.
 






Colletta
O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora. Per il nostro Signore ...
 

Oppure:
Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide, e dalle discriminazioni che ci avviliscono; aiutaci a scorgere anche nel volto del lebbroso l'immagine del Cristo sanguinante sulla croce, per collaborare all'opera della redenzione e narrare ai fratelli la tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura
  Lv 13,1-2.45-46
Il lebbroso se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento. 


Dal libro del Levìtico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: "Impuro! Impuro!". Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento».

    

Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 31
La tua salvezza, Signore, mi colma di gioia.
Beato l'uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato.
Beato l'uomo a cui Dio non imputa il delitto
e nel cui spirito non è inganno.

Ti ho fatto conoscere il mio peccato,
non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità»
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.

Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia! 


Seconda Lettura
  1 Cor 10,31 - 11,1
Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo. 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
 

Canto al Vangelo
    Lc 7,16
Alleluia, alleluia.

Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo. 

Alleluia.
   
   
Vangelo 
 
Mc 1, 40-45
La lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!».
E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. Parola del Signore.


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COMMENTO

La compassione gioca brutti scherzi. Anche a Gesù. Nel Vangelo di Marco ricorre il cosiddetto segreto messianico, il silenzio che Gesù impone perchè non fosse rivelata la sua identità confidata agli apostoli e non fossero divulgati i suoi miracoli. Gesù riconosceva in questa sorta di segreto il pino di Dio, il cammino al compimento della volontà di salvezza del Padre. Ad esso si voleva adeguare. Ma la compassione lo trascina in qualcosa di diverso. Mentre il segreto sulla sua identità di Figlio di Dio è stato mantenuto dagli apostoli e non sarebbe stato svelato pubblicamente che nella Passione dinnanzi al Sommo Sacerdote, per i miracoli la cosa è andata diversamente. La fama di Gesù infatti si andava estendendo "al punto che "non poteva più entrare pubblicamente in una città". La fama che derivava dalla sua compassione. Questa parola traduce in italiano l'ebraico rahamin, che rimanda all'amore viscerale di una madre (rehem = utero, seno materno). La compassione svela dunque il cuore materno di Gesù. Un cuore da cui sgorga un amore capace di dare alla luce, di creare e ricreare. La guarigione del lebbroso scaturisce dunque dalle stesse viscere del Signore, laddove vibra l'amore sconfinato di una madre, e più di una madre. "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti porto tatuato sulle palme delle mie mani" (Is. 49,15 s.). Il lebbroso, reietto, impuro e impossibilitato ad avvicinarsi a chiunque (cfr. Lv. 13), sente che con Gesù può infrangere le regole. Lui sa che in quell'uomo si cela un cuore di madre. Di sua madre. Non può temere, e si fa audace, e varca il limite imposto dalla legge che solo può attestare il male e cercare di arginarlo. Passa Gesù, e quel lebbroso intuisce che il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo, tutto quanto gli era stato interdetto è di nuovo lì, accanto a lui. Quesll'uomo distrutto, disprezzato, solo, sa che Gesùpuò salvarlo, ridonargli la vita vita perduta, forse mai assaporata. E' la fede che riconosce, intimamente, il cuore materno di Gesù. Può fidarsi perchè è proprio da Lui che egli stesso proviene; la pelle straziata, le membra squassate, non possono cancellare la verità: non c'è nessuno al mondo che gli provochi gli stessi sentimenti. Lui assomiglia a Gesù, anche se i tratti somatici sono ormai sconvolti. Loro due hanno molto in comune, non sono estranei. Forse, in quell'impeto misterioso che la fede sa muovere, quel lebbroso ha visto Gesù sulla via del Calvario, lo ha visto come se si fosse guardato in uno specchio, senza apparenze d'uomo disprezzato, rifiuto degli uomini, come uno davanti al quale ci si copre il volto (Cfr. Is. 53). Era ora dinnazi all'uomo dei dolori, che conosce bene il patire; era quel Gesù il Sommo Sacerdote dal quale aveva sognatodi andare un giorno a presentare la sua carne guarita come prescriveva la Legge; ed era lì, accanto a lui, non nel Tempio, ma accanto, dentro alla sua solitudine, ed era il Sommo Sacerdote che sapeva compatire le sue infermità, essendo stato lui stesso, di lì a poco, provato in ogni cosa, anche nella sua lebbra,eccetto il peccato. Si poteva dunque accostare con piena fiducia la trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare Grazia ed essere aiutato al momento opportuno (cfr. Eb. 4, 15-16). Per questo sgorga dal cuore del lebbroso in ginocchio l'invocazione che è una professione di fde: "Se vuoi puoi guarirmi". Mi hai amato, pensato e creato tu, sono tuo, se vuoi puoi ancora aver misericordia, tu conosci, come solo una madre può conoscere, le mie sofferenze. Sono carne della tua carne, e tu, con questa stessa carne, distruggerai la morte. Distruggila ora in me, tu puoi, se vuoi. E le viscere di Gesù si commuovono, come per un figlio, e le sue mani toccano quelle carni straziate. Quelle mani che lo portavano, da sempre, tatuato, quale figlio carissimo e preziosissimo. Quelle mani che saranno trapassate dai chiodi a far scaturire il sangue che laverà ogni peccato ed ogni lebbra.
Ma la compassione gioca un brutto scherzo a Gesù. Seppur intimato severamente di non dire nulla ma di andare finalmente ai sacerdoti per testimoniare l'avvento del Messia attraverso ll segno compiuto in lui, il lebbroso comincia, ebbro di gioa, ad annunciare la Buona Notizia. L'esperienza travolgente non può essere contenuta, proprompe in grida di lode. Il lebbroso diviene apostolo, annunciatore, araldo, senza aver studiato; la Buona Notizia la portava nella carne, era luce e sale e lievito perchè recava in sé l'opera compiuta di Dio, il mistero pasquale di Gesù. In Lui era stata vinta la lebbra, la solitudine, il peccato, la morte. Era la sua vita a parlare, era la sua carne rigenerata a gridare la vittoria di gesù. Le parole avrebbero solo soiegato, dato ragione di un fatto, un avvenimento incontrovertibile. E' questa la missione della Chiesa, e di ogni apostolo: far presente nella propria concreta esistenza la Buona Notizia. Mostrare i segni e i prodigi che accompagnao la parola della predicazione. E non sono cose che si imparano, sono fatti, esperienze, vita. E' la fede che si fa notizia. Cero è necessario approfondire, studiare, ma la prima e fondamentale formazione di ogni apostolo è sul campo, quello della propria vita. Si può essere finissimi esegeti, acuti teologi, accorti liturgisti, ma senza fede si resta come cembali tintinnanti.
Così la compassione di Gesù ha dischiuso le porte all'evangelizzazione, senza averla prevista e preparata a tavolino. Anzi, sorprendendo e spiazzando anche Gesù. Quel miracolo doveva restare segreto, avrebbe poi pensato Lui ad inviare i suoi discepoli. Ma il lebbroso disubbidisce, non può tacere, è ridiventato bambino, ed i bambini non sanno mantenere i segreti. E si apre una falla nel piano di Dio. Può sembrare assurdo e paradossale, ma il Vangelo ce lo mostra così. Gresù è costretto a fare i bagagli e scappare nel deserto. Va a rifugiarso da dove il lebbroso era scappato ormai libero dalla sua lebbra. La compassione ha condotto Gesù per un cammino che non sembra avesse previsto. Perchè è proprio la compassione che guida i suoi passi, la natura divina che muove la sua natura umana. Gesù è come il vento, si lascia portare e non si oppone alla sconfinata misericordia del Padre che scuce le trame della sua stessa volontà per aprirle all'infinita urgenza dell'amore. Si in questo paso del Vangelo l'eco della voce di Maria a Cana che spinge Gesù ad anticipare la sua ora. Come lo sono stati gli sposi di Cana, l'ora di Gesù, che si sarebbe compiuta sul Golgota, 
l'ora di Gesù si fa urgente e presente nelle carni del lebbroso. E quell'ora giunta improvvisa e fuori tabella svela la libertà intrisa d'amore di Gesù. Il suo cuore brucia di compassione e guarda senza limiti come guarda il Padre.
Lebbrosi sanati, anche noi siamo chiamati alla stessa libertà. L'esperienza del potere di Gesù Cristo su ogni nostra lebbra ci apre inevitabilmente ad una vita posta sul candelabro. L'audacia della fede nella quale possiamo vincere l'orgoglio nascosto che ci fa paurosi e incapaci di implorare aiuto, ci svela la nostra più intima vocazione. L'urgenza della nostra salvezza captata dal cuore materno di Gesù ci sospinge nell'arena delle urgenze del mondo. Non possiamo restare aggrappati ai nostri sogni, ai nostri progetti, anche a quelli più santi. La compassione spariglia e ci schiude orizzonti impensati. Mentre siamo chini sulle nostre sofferenze, ci intristiamo alla ricerca della volontà di Dio che non riusciamo a trovare, anche oggi Gesù giunge alla nostra vita, la tocca, la ricrea, ne fa un prodigio. E' il segno che può sconvolgere i nostri piani e le nostre speranze, e svelarci un orizzonte che neanche immaginiamo. La nostra vita è dentro un'urgenza più grande dei nostri pensieri. Lasciamoci accompagnare da Gesù sulle strade della libertà, quella che rimette tutto di noi a Dio. Che faccia di noi quel che vuole, che la sua compassione ci trasformi in segni di misericordia per ogni uomo. Ovunque. In qualsiasi momento. Anche ora, al lavoro, a casa, o a migliaia di chilometri. Che la compassione possa anche oggi giocarci lo scherzo di una vita nuova abbandonata alla volontà di Dio.



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Altri Commenti

1. Congregazione per il Clero
«Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1)! Le parole di San Paolo suonano con forza nella Liturgia di questa sesta Domenica del Tempo Ordinario e indicano quale sia il cammino della vita: l’imitazione di Cristo. è un’imitazione di cui, però, se intesa in senso volontaristico, nessuno è capace. Solo coloro cui Cristo stesso dà la grazia di conoscerLo e di imitarLo, di vivere cioè quella totale immedesimazione con Lui che è la nostra santificazione, possono riuscirvi.
La vita di quanti, come l’Apostolo Paolo, accolgono totalmente questa grazia, diviene poi occasione di incontro e di reale sequela del Signore anche per i fratelli. È questa la vita dei santi: divenuti una sola cosa con Cristo, tanto da renderne presente il fascino, la bellezza e la continua novità, essi divengono anche “strade concrete” per vivere realmente il rapporto con Lui. Basti pensare ai grandi San Benedetto da Norcia, San Francesco d’Assisi, San Domenico di Guzmàn: quanti nella storia li hanno “imitati”, diventando benedettini, francescani, o domenicani, hanno intrapreso un cammino di santificazione, riconosciuto dalla Chiesa quale dono dello Spirito.
Come si possono, però, imitare i santi? In cosa consiste questa loro santità? In che modo ci è dato di fare qualcosa per abbracciare, come loro, la nostra nuova identità battesimale di figli di Dio? Di essi non possiamo certamente imitare le opere, che furono suscitate dallo Spirito Santo, in un determinato luogo e tempo, a beneficio di tutta la Chiesa e dell’intera comunità umana. Possiamo, però, imitarne il cuore, domandando cioè e cercando la loro stessa sete di verità e di bene, la loro totale disponibilità all’opera di Dio – l’opera che Dio vuole compiere in ciascuno di noi – e la loro prontezza nell’aderire, con tutto se stessi, alla Sua Volontà.
Dobbiamo cioè domandare la vera umiltà, quella con cui il lebbroso del racconto evangelico ha saputo mettersi in cammino verso Cristo – «Venne da Lui un lebbroso […] Lo supplicava in ginocchio» –, riponendo nelle Sue mani tutta la propria vita: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
Ma possiamo ancora domandarci: cosa ha spinto il lebbroso a questo totale abbandono alla Volontà di un Altro, cosa ha mosso i santi a riporre tutta la propria vita ai piedi di Cristo perché ne facesse ciò che gli era gradito, cosa può condurre noi a questo totale affidamento a Lui, perché ci renda davvero puri? Non può che essere la stessa profonda certezza che animò il cuore di Maria davanti all’annuncio dell’Angelo e fin sotto la Croce, che diede forza a San Giuseppe di fronte al compito che Dio gli affidava, che sostenne gli Apostoli dinanzi al martirio: la compassione di Dio si è chinata su di noi, la Misericordia dell’Eterno è scesa qui sulla terra ed ha assunto un volto umano. È Cristo il nostro unico vero Bene ed Egli non vuole altro che il nostro Bene. Egli è nato ed è morto per questo, è risorto ed è qui, Presente nell’Eucaristia, per questo! Per questo possiamo abbandonarci a Lui senza riserve, per questo possiamo recarci da Lui, inginocchiarci supplici, e riporre nel Suo Volere tutta la nostra vita, per sentirci dire ancora, oggi come allora: «Lo voglio, sii purificato!».


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2. p. Raniero Cantalamessa ofmcapp

Nelle letture di oggi risuona più volte la parola che, al solo sentirla nominare, ha suscitato per millenni, angoscia e spavento: lebbra! Due fattori estranei hanno contribuito ad accrescere il terrore di fronte a questa malattia, fino a farne il simbolo della massima sventura che possa toccare a una creatura umana e isolare i poveri disgraziati nei modi più disumani. Il primo era la convinzione che questa malattia fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato; il secondo, anch’esso privo di ogni fondamento, era che la lebbra fosse una punizione per il peccato.
Chi ha contribuito più di ogni altro a far cambiare atteggiamento e legislazione verso i lebbrosi è stato Raoul Follereau, morto nel 1977. Ha fatto istituire, nel 1954, la giornata mondiale dei lebbrosi, promosso congressi scientifici e infine, nel 1975, è riuscito a fare revocare la legislazione sulla segregazione dei lebbrosi.
Sul fenomeno della lebbra le letture di questa Domenica ci permettono di conoscere l’atteggiamento prima della Legge mosaica e poi del Vangelo di Cristo. Nella prima lettura tratta dal Levitico si dice che la persona sospettata di lebbra deve essere condotta dal sacerdote il quale, accertata la cosa, “dichiarerà quell’uomo immondo”. Il povero lebbroso, scacciato dal consorzio umano, deve lui stesso, per giunta, tenere lontane le persone avvertendole da lontano del pericolo. L’unica preoccupazione della società è di proteggere se stessa.
Ora vediamo come si comporta Gesù nel vangelo: “Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi guarirmi! Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, guarisci! Subito la lebbra scomparve ed egli guarì”.
Gesù non ha paura di contrarre il contagio; permette al lebbroso di arrivare fino a lui e gettarglisi in ginocchio davanti. Di più, in un’epoca in cui si riteneva che la sola vicinanza di un lebbroso trasmettesse il contagio, egli “stende la mano e lo tocca”. Non dobbiamo pensare che tutto questo venisse spontaneo e non costasse nulla a Gesù. Come uomo egli condivideva, su questo come su tanti altri punti, le convinzioni del suo tempo e della società in cui viveva. Ma la compassione per il lebbroso è più forte in lui che la paura della lebbra.
Gesù pronuncia in questa circostanza una frase semplice e sublime: “Lo voglio, guarisci”. “Se vuoi, puoi”, aveva detto il lebbroso, manifestando così la sua fede nella potenza di Cristo. Gesù dimostra di potere fare, facendolo.
Questo confronto tra la legge mosaica e il Vangelo sul caso della lebbra ci costringe a porci la domanda: Io a quale dei due atteggiamenti mi ispiro? È vero che la lebbra non è ormai la malattia che fa più paura (anche se vi sono tuttora milioni di lebbrosi nel mondo), che da essa, se presa in tempo, si può guarire completamente e nella maggioranza dei paesi essa è ormai del tutto debellata; ma altre malattie hanno preso il suo posto. Si parla da tempo di “nuove lebbre” e “nuovi lebbrosi”. Con questi termini non si intendono tanto le malattie inguaribili di oggi, quanto le malattie (AIDS e droga), dalle quali la società si difende, come faceva con la lebbra, isolando il malato e respingendolo ai margini di se stessa.
Quello che Raul Follereau ha suggerito di fare verso i lebbrosi tradizionali, e che tanto ha contribuito ad alleviare il loro isolamento e sofferenza, si dovrebbe fare (e, grazie a Dio, molti lo fanno) nei confronti dei nuovi lebbrosi. Spesso un gesto del genere, specie se fatto dovendo vincere se stessi, segna l’inizio di una vera conversione per chi lo fa. Il caso più celebre è quello di Francesco d’Assisi che fa risalire all’incontro con un lebbroso l’inizio della sua nuova vita.

3. Luciano Manicardi

La prima lettura presenta la condizione del lebbroso secondo la Bibbia e il vangelo narra l’incontro di Gesù con un lebbroso. Il lebbroso rappresenta la persona emarginata per eccellenza: colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a un castigo divino per peccati commessi, il lebbroso vive la condizione più infamante e disperata in Israele. Egli è un morto vivente, a cui sono interdette le relazioni famigliari e sociali, affettive ed erotiche, politiche e religiose. Egli è “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (Nm 12,14). Alla sofferenza fisica si aggiunge la sofferenza morale e spirituale per l’emarginazione sociale, per l’allontanamento dalla famiglia perché la sua presenza è portatrice di possibile contagio, per il suo essere impuro e considerato peccatore. Dunque, egli è vittima e anche colpevole. Questo lo sguardo che gli altri portano su di lui e che egli stesso arriva ad assumere su di sé: egli stesso grida la sua impurità affinché chi lo sente possa evitarlo (Lv 13,45-46). La sua identità è espropriata dalla sua malattia: egli è “l’immondo”.
Gesù accetta di incontrare colui che tutti evitavano, mostrando così che l’impurità e la sporcizia più grandi sono quelle di chi rifiuta di sporcarsi le mani con gli altri. Gesù tocca l’emarginato narrando in modo tattile la sua vicinanza e superando il tabù sacrale. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con sé, che il suo isolamento non è senza speranza. Le misure di autodifesa della società sono vinte grazie alla compassione, che è il rifiuto radicale dell’indifferenza al male. La compassione si rifiuta di abbandonare l’altro alla solitudine della sua sofferenza. “Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro… Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione… Soffrire non ha senso, … ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la solo giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità… La compassione, cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo” (Emmanuel Lévinas).

E Gesù lo guarisce. La guarigione trova anzitutto nel malato il primo e più potente alleato. Il lebbroso trova lo slancio per andare oltre le barriere innalzate dalla società; non si chiude nell’autocommiserazione, ma si slancia verso colui che egli crede che possa guarirlo. “Se vuoi, tu puoi”. La guarigione inizia quando so di poter contare su un “tu” che mi accoglie e vuole anche lui il mio bene. La guarigione, prima ancora di essere sparizione di sintomi, è ritrovamento di relazione, di preziosità agli occhi di un altro.
Ma la guarigione che Gesù opera ha un prezzo: guarito il lebbroso, ecco che Gesù non poteva più entrare pubblicamente nei villaggi, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti (cf. Mc 1,45). Ovvero, Gesù si trova nella situazione che era prima del lebbroso. Gesù guarisce ma al prezzo di una perdita, dell’assunzione della situazione dell’altro. Gesù prende su di sé la sofferenza dell’altro e appare come il Servo sofferente che ha assunto e portato le nostre infermità. Il testo latino di Is 53,4 parla del Servo come di un lebbroso:Nos putavimus eum quasi leprosum (“Noi lo considerammo come un lebbroso”). Il testo si fa rivelativo. La miseria del lebbroso diviene la miseria del Crocifisso disprezzato e reietto dagli uomini: la guarigione va compresa alla luce dell’impotenza della croce, dove l’unico senza-peccato occupa il posto dei peccatori, di coloro che sono nella vergogna e nell’umiliazione. La potenza della guarigione si manifesta al prezzo di un impoverimento e di un indebolimento di Gesù Cristo. Che nella croce troverà la sua massima epifania.

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4. Enzo Bianchi

La nostra esperienza ci rende consapevoli del fatto che noi soffriamo non solo a causa della malattia che aggredisce il nostro corpo, ma anche, e forse più spesso, a causa del male che ci assale, ci vince, fino a renderci insopportabili a noi stessi. È per questo che ricorriamo sovente al linguaggio della malattia, per esprimere la nostra condizione di peccatori; e Gesù, come vedevamo domenica scorsa, “si è fatto prossimo” (cf. Lc 10,34.36) a uomini e donne preda del male nelle sue molteplici forme.
 Il testo odierno ci presenta l’incontro di Gesù con un malato di lebbra. Va ricordato che nell’Israele antico il lebbroso rappresentava la persona emarginata per eccellenza: colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a una punizione divina per i peccati commessi, il lebbroso viveva la condizione più disperante e vergognosa in Israele. Alle sofferenze fisiche si aggiungevano infatti quelle connesse alla sua separazione dalla famiglia e dalla società, nonché il giudizio religioso che faceva di lui un peccatore e, dunque, un castigato da Dio (cf. Nm 12,14; Lv 13,45-46). Occorre però non scandalizzarsi troppo di fronte a questa ingiustizia, perché è la stessa che noi commettiamo ancora oggi, quando siamo tentati di giudicare la malattia di un altro quale esito di un comportamento immorale; quando, di fronte alla nostra malattia, ci poniamo la domanda: “Che peccato ho fatto? Perché questo castigo da parte di Dio?”…
 Dopo aver lasciato Cafarnao e la folla di quanti lo cercavano (cf. Mc 1,36-37), nel suo andare per la Galilea Gesù incontra un lebbroso. O meglio, accetta di incontrare una persona che tutti evitavano, che era costretta a vivere in luoghi deserti e a svelare la propria condizione a chiunque stesse per avvicinarglisi. Ebbene, Gesù lo lascia avvicinare a sé, fino ad ascoltare ciò che il lebbroso vuole dirgli: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Chi chiede purificazione e guarigione è un “impuro”, vittima ma anche colpevole, secondo i parametri religiosi, e la sua malattia è contagiosa; a tale condizione dovrebbero corrispondere solo emarginazione e condanna… Ma Gesù alla vista di quest’uomo prova compassione, sa soffrire con lui, e quasi naturalmente lo tocca, contravvenendo alla legge e accettando il rischio di contrarre la sua malattia! In tal modo, lo purifica, lo guarisce, lo restituisce alla condizione di vita piena.

 Il lebbroso aveva detto a Gesù: “Se vuoi, tu puoi”, con parole che in profondità significavano un enorme atto di fiducia: “Io conto su di te, so che tu vuoi il mio bene e, di conseguenza, so che a te è possibile guarirmi”. La purificazione che noi uomini possiamo conoscere è legata alla nostra fiducia in Gesù, che con la sua santità può comunicarci la purità e la salute piena; più in generale, nella nostra quotidianità la guarigione ha inizio quando sappiamo di poter contare su qualcuno che vuole il nostro bene, che ci sta accanto, ed è disposto a portare il nostro male, sia esso malattia o peccato… Ecco, la compassione radicale vissuta da Gesù chiede a ciascuno di noi di interrogarsi sulla propria capacità di stare accanto a chi si sente impuro e malato. Come dimenticare che, proprio il giorno in cui ha deciso di abbracciare un lebbroso, Francesco d’Assisi ha capito sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo cammino di sequela fino a divenire “somigliantissimo a Gesù”?
Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre infermità, ma questo suo servizio agli uomini ha un caro prezzo. Egli non può più entrare pubblicamente nei villaggi, ma è costretto a rimanere in luoghi deserti, a vivere cioè la situazione che era prima del lebbroso: Gesù cura e guarisce gli altri al prezzo dell’assunzione su di sé del loro male. Il testo latino della profezia di Isaia sul Servo del Signore dice, tra l’altro: “Noi lo consideravamo come un lebbroso” (Is 53,4b); sì, Gesù, il Servo, il Messia, il Salvatore, si è fatto per noi come un lebbroso, per guarire la nostra lebbra nel corpo e nello spirito! Così, sulla croce sarà piagato come un lebbroso: ma noi possiamo fissare in lui il nostro sguardo nella speranza della guarigione, certi della compassione di colui che “ha preso su di sé le nostre sofferenze e i nostri mali” (Is 53,4a).

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http://www.homolaicus.com/nt/vangeli/guarigioni/images/lebbroso.jpg

Dalla Tradizione della Chiesa

San Giovanni della Croce (1542-1591), carmelitano, dottore della Chiesa
Fiamma d'amore viva, strofa 2





« Gesù stese la mano e lo toccò »


O vita divina, tu dai la morte solo per dare la vita, ferisci solo per guarire. Mi hai ferito per guarirmi, o mano divina! Hai ucciso in me ciò che mi teneva nella morte! Ero allora privo della vita di Dio, in cui ora, invece, mi trovo a vivere! Debbo questo favore alla liberalità della tua generosa grazia verso di me quando mi hai fatto sentire il tocco di Colui che è « irradiazione della tua gloria e impronta della tua sostanza » (Eb 1,3), cioè il tuo Figlio unigenito, nel quale, come tua Sapienza, tu tocchi « da un confine all'altro della terra con forza per la sua purezza » (Sap 8,1).

O tocco delicato, o Verbo, Figlio di Dio, che con la delicatezza del tuo essere divino penetri sottilmente la sostanza della mia anima e, toccandola tutta con delicatezza, l'assorbi completamente in te e adoperi mezzi del tutto divini per colmarla di soavità « mai sentita in terra di Canaan né mai viste in Teman » (Bar 3,22)! O tocco delicato, divinamente delicato del Verbo, tanto più delicato in me in quanto tu facevi sobbalzare i monti e spaccavi le rocce sul monte Oreb con l'ombra del tuo potere e la forza che lo precedeva, ti facesti sentire dal profeta « nel soffio leggero del vento » (1Re 19,11-12)!

O soffio leggero, che sei così fine e delicato, dimmi: come puoi toccare così sottilmente e delicatamente, o Verbo, Figlio di Dio, pur essendo così terribile e potente? O felice, mille volte felice, Signor mio, l'anima che tocchi così delicatamente e dolcemente... « Tu nascondi queste anime nel segreto del tuo volto, che è il tuo divin Figlio, lontano dagli intrighi degli uomini » (Sal 30,21).
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