mercoledì 22 febbraio 2012

Sulla Pratica della Quaresima


 Sul Tempo di Quaresima, mi permetto di rinviare ai seguenti post:

12 Apr 2011
Con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze. Stiamo vivendo l'ultima parte della Quaresima e dunque sollecitati già ad ascoltare l'annuncio della Resurrezione, il canto del Preconio che aprirà la solenne Veglia di ...
 
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14 Mar 2011
Con Gesù nel deserto. http://www.diocesitrivento.it/Immagini/News/Grandi/. Lo "Shemà" è la preghiera per eccellenza in Israele, quella che anche Gesù pronunciava ogni giorno, al mattino e alla sera. Dice così: Ascolta ...
 
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Per intanto propongo il testo seguente, di  Claude Jean-Nesmy osb.





































SOMMARIO

PRATICA DELLA QUARESIMA

Entrare in Quaresima

Il digiuno e la morte

Preghiere e letture

Elemosina e carità

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Dom Claude Jean-Nesmy osb

PRATICA DELLA QUARESIMA

Spontaneamente a nessuno piace la Quaresima, ed è naturale, ma quelli che hanno fatto lo sforzo di praticarla seriamente, sanno quanto questo tempo sia fecondo. Non si ama la Quaresima perché non la si prende abbastanza sul serio. Fatela bene, ed essa diventerà anche per voi ciò che è in realtà: il tempo liturgico più facile da vivere, come l'Avvento, e per gli stessi motivi.
A prima vista, il tempo pasquale sembra più attraente, ma esso consiste nel vivere da risuscitati, e confessiamo che non sarà per noi compito facile dover dimostrare fra qualche capitolo che questo è possibile fin da quaggiù. Il tempo di Quaresima, invece, è perfettamente commisurato alla nostra attuale condizione di uomini peccatori, che confidano nella Redenzione di Cristo. Tanto che sant'Agostino afferma che questi quaranta giorni « non sono solo una parte della nostra vita, ma la rappresentano tutta intera » ( Sermone 205 ), e san Benedetto nella sua Regola dice: « Veramente la vita del monaco deve sempre esser fedele all'osservanza quaresimale, ma poiché questa è virtù di pochi, raccomandiamo che in questi giorni di Quaresima ciascuno custodisca la propria vita con tutta purità, e lavi in questi giorni santi tutte le negligenze degli altri tempi ».
È vero che san Benedetto qui si rivolge unicamente ai monaci. Ma si può ragionevolmente pensare che i laici abbiano meno bisogno di consacrare alla loro santificazione un tempo speciale, abbastanza breve per potervi concentrare tutte le loro forze, ma abbastanza lungo perché questo grande ritiro possa portare i suoi frutti?
Se infatti oggi si insiste, più o meno a giusto titolo, sulla diversità delle funzioni del clero e del laicato, non possiamo in nessun modo ammettere che l'unica Chiesa di Cristo sia divisa. Non vi è che un solo Signore, e una sola santità che è partecipazione alla sua. Tutti i membri del Corpo di Cristo devono lavorare a questa santificazione. Evidentemente la vita dei laici non è quella dei monaci, né potrebbe esserlo. Ma è tanto più degno di nota il fatto che la Chiesa, proprio durante questa santa quarantena, chieda agli stessi laici di ispirarsi ad una spiritualità analoga a quella che doveva essere propria del monachesimo primitivo.

ENTRARE IN QUARESIMA

Questo fatto è sottolineato dal P. Bouyer, ed è bello che lo sia da uno che non è monaco. « Il monaco, nell'epoca patristica, scrive P. Bouyer, non era un chierico specializzato nella penitenza, nel senso moderno della parola (sofferenze riparatrici, mistiche di compassione, memento mori, ecc.), nel canto gregoriano, nelle belle cerimonie, o nei lavoretti di erudizione o di miniatura » (Il nostro autore sa bene che questa definizione del monachesimo è quella del gran pubblico, e non corrisponde che da lontano alla realtà, specialmente se si considera la tradizione attualmente rimessa in onore nei monasteri di Francia). Il monaco, dunque « era precisamente un laico che, con mezzi più o meno eroici, si liberava di tutto per cercare Dio, per trovare Cristo, o piuttosto per essere trovato da lui. Stando così le cose, non vi è nulla di straordinario nel consigliare a tutti i laici, per un periodo di intensificazione del loro impegno spirituale, di condurre una specie di vita religiosa temporanea » (Le Carême initiation pascale, in « La Maison-Dieu », n. 31, p. 12).
Se ci proponiamo quindi non un qualsiasi esercizio di ascesi individuale ma la partecipazione al Tempo della Salvezza che la Chiesa ha proclamato, dobbiamo intendere quello che Cristo ci chiede, e impegnarci seriamente ad attuarlo.
Bisogna entrare in Quaresima come si entra in ritiro o in monastero: senza guardarsi indietro. Il Signore stesso ce ne avverte: al discepolo che gli chiede di occuparsi della propria famiglia, Gesù risponde: « Sèguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti », che non è una risposta tenera! Altrove aggiungerà: « Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e chi ama il figliuolo o la figliuola più di me, non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me » (Mt. 8, 22 e 10, 37-38). Dunque: prendere o lasciare.
Numerosi sono i testi liturgici che ci danno questo ammonimento, ma in primo luogo l'Epistola della 1ª domenica, in cui san Paolo ci grida: « Ora è il tempo favorevole, ora è il giorno della salvezza » (2 Cor 6,1 - cfr. anche il testo di Isaia, il martedì di questa stessa Iª settimana: Is. 55, 6-11).
Bisogna persuadersi bene del carattere inesorabile delle chiamate di Dio. Dio non si ripete mai: la sua grazia ci si presenta sempre nuova, sempre nuovo è quello che egli ci vuole dire. Conoscendo le nostre debolezze, e quanto facilmente trascuriamo le sue premure, egli trova molti mezzi per avvicinarci da un altro lato: così, poiché Adamo aveva mal corrisposto ai suoi disegni, mandò Cristo. Ma questa inesauribile liberalità della divina Misericordia, che sarà anche la misura della durezza inesorabile del suo giudizio, non è un motivo per trascurare questo tempo di salvezza in cui Dio si fa più vicino, per meglio esaudire le innumerevoli suppliche che la liturgia eleva verso di lui.
Le direttive della Chiesa per la Quaresima sono chiare: questo tempo deve essere consacrato, nella misura del possibile, al digiuno e alla penitenza, alle preghiere e alle letture spirituali e infine all'elemosina in tutte le sue forme. Il solo problema che si pone è la misura di queste pratiche nel nostro tempo.
 
IL DIGIUNO E LA MORTE

Su questo punto del digiuno la nostra libertà è totale. Non vi è praticamente più nulla di prescritto, tranne il digiuno del Mercoledì delle Ceneri e quello del Venerdì Santo. E poi, che digiuno! Praticamente si può mangiare di tutto, esclusa la carne, e le restrizioni quantitative sono state interpretate così largamente da generazioni di moralisti che possiamo in buona coscienza digiunare senza aver fame!
E tuttavia questo è uno dei migliori tests per saggiare l'autenticità della nostra vita spirituale, insieme con la carità fraterna che deve necessariamente accompagnare queste penitenze.
Talvolta i cristiani si lamentano che oggi, nella Chiesa di Dio, tutto sia regolato, classificato, misurato, precisato, così che alla libertà spirituale portata da Cristo - « Dove è lo Spirito, lì è la libertà » - si sarebbe sostituito un formalismo che si limita alla lettera degli insegnamenti del Salvatore. Questo si noterebbe soprattutto nell'amministrazione dei sacramenti, divenuta appunto un po' troppo « amministrativa ».
Purtroppo è vero che una lunga degenerazione delle tradizioni liturgiche ha fatto loro perdere buona parte del loro significato. Ma il realismo a cui si pensa ordinariamente nel fare tali rimproveri è in fondo un realismo piuttosto materiale: si vorrebbe un'acqua battesimale abbastanza abbondante per lavare realmente, un pane sufficiente per nutrire davvero. E tali richieste non sono ingiustificate: Cristo infatti ha istituito i sacramenti appunto perché la sua grazia, per mezzo di elementi molto materiali, ci fosse resa quasi sensibile. Ma vi è un altro realismo, che ci dovrebbe premere ancor più in quanto è, in ultima analisi, quello de!la nostra appartenenza a Cristo: è l'autenticità degli atti con i quali ci uniamo alla Passione redentrice.
Ora io chiedo: come cerchiamo di raggiungere questa unione? Essa si opera nelle nostre Messe e nella carità, che ne è il frutto, diffuso in tutta la nostra vita. Ma è necessario che la Messa alla quale assistiamo divenga la nostra Messa, in virtù di quello che noi stessi vi portiamo.
È questa la ragion d'essere dell'Offertorio. Ma che cosa si dà in questa offerta? Si è perso l'uso di offrire pane e vino, simboli naturali della nostra vita perché ne sono il necessario sostentamento. Ad essi si è sostituita una questua, meno direttamente espressiva. Ma lo sarà ancora molto meno se, come accade in genere, non si dà quasi nulla. Come è noto, in tali questue si raccolgono moltissime monete da cinque lire. Cinque lire! A un povero non le daremmo, non oseremmo burlarci così crudelmente di lui! Ma le mettiamo discretamente nel piatto, a volte coprendole con la mano, senza nemmeno renderci conto della meschinità di questo gesto. Crediamo che simile « offerta » sia tale da renderci solidali con Uno che è morto per noi? È l'anima, lo sappiamo, che dà valore al dono, e Dio è stato pienamente soddisfatto dall'obolo della vedova. Ma possiamo affermare di metterci molta anima, se non ci diamo pena di mortificarci un po', in questo Tempo in cui i testi liturgici ci invitano a farlo, con una insistenza proporzionata alla nostra pigrizia e alla nostra inerzia nel servizio del Signore?
Poiché pretendiamo di essere realisti, siamolo anche nella nostra religione. Vi è, infatti, un realismo spirituale; il mondo dell'anima è altrettanto lontano dalla astrazione e dal mondo delle idee quanto quello materiale, checché ne pensino gli « spiritualisti » che credono di manifestare larghezze di vedute mascherando il loro crasso materialismo con una vaga credenza a nebulosi « valori spirituali ». Come già Pascal aveva visto, costoro sono lontani dalla fede quasi quanto i peggiori scettici. Le realtà soprannaturali sono altrettanto concrete quanto quelle del mondo, e più solide, perché sono divine; hanno le loro leggi, e le loro esigenze non sono piccole. Se bisogna faticare per guadagnarsi il pane, crediamo che Dio sia più a buon mercato? Non burliamoci di Dio!
Uno dei nomi tradizionali della penitenza è « mortificazione ». Mortificazione viene da morte: e proprio di questo si tratta durante la Quaresima.
Fin dal primo giorno la Chiesa ce lo ricorda con la imposizione delle Ceneri. Non è solo il ricordo di una antica forma di penitenza, molto espressiva, che faceva vestire il cilizio e giacere nella cenere: questa polvere di cui Adamo è stato formato, e alla quale tutti gli uomini ritornano, ci richiama anche alle nostre origini. La cerimonia si situa quindi nel prolungamento degli insegnamenti propri del Tempo di Settuagesima, ma le Ceneri, benedette dalla Chiesa, sono anche un rimedio salutare - come la penitenza che esse simbolizzano e a cui invitano. Così dice un'antica formula liturgica, meno drammatica di quella che accompagna attualmente l'imposizione delle Ceneri: « Donaci, o Dio, il perdono ... e facci passare dalla corruzione all'incorruttibilità, dalla morte alla vita » (Citata e commentata da Dom Jean Leclercq, nello stesso fascicolo de « La Maison-Dieu », n. 31, pp. 46-47).
Questa vita che nasce dalla morte mi richiama la Passione redentrice del nostro Salvatore, verso la quale la Chiesa ci orienta quindi fin dal Mercoledì delle Ceneri; tanto che non sarebbe eccessivo dire che tutta la Quaresima è compresa fra queste due morti: la nostra, inaugurata dalle Ceneri, che si unisce a quella di Cristo nella celebrazione pasquale, trasformandosi così nella vita beata alla quale ci inviteranno i tempi liturgici successivi.
Questa continuità non ci deve sorprendere. Anzi è assai necessario che all'inizio della Quaresima noi prendiamo coscienza, il più chiaramente possibile, del legame che unisce fra loro la Settuagesima e la Quaresima da una parte e il Tempo Pasquale dall'altra. È la Pasqua, infatti, che dà a tutto il ciclo la sua tonalità cristiana, e si snaturerebbe inevitabilmente tutta la liturgia quaresimale se non si mettesse questa santa quarantena in rapporto con la festa che ne è il coronamento.
Resta però vero che non potremo approfittare spiritualmente della Pasqua, e non giungeremo a « risorgere con Gesù dai morti » se non avremo accettato di « conformarci alla sua morte », come dichiara san Paolo nel già citato testo ai Filippesi (Cfr. cap. 4: Le fonti bibliche della Quaresima, pp. 61 s.).
Del resto non è evidente che, per risuscitare, bisogna prima essere morti? La sincerità della. nostra vita cristiana si misurerà dunque praticamente dalla nostra generosità durante questa Quaresima.
Ci scusiamo di insistervi un po', ma la penitenza non ha molto buona fama ai nostri giorni; e in realtà, durante gli ultimi tre secoli, essa era stata considerata in un modo un po' troppo cupo, perché vi si vedeva un'ascesi piuttosto che la nostra necessaria conformazione alla morte del Salvatore. Ma ora - chi oserebbe negarlo? - abbiamo ripudiato così radicalmente questo errore che, per contraccolpo, siamo riusciti ad eliminare dalla nostra vita, insieme con esso, anche la mortificazione. Dottrina piacevole, e così comoda! Inoltre, essa va molto d'accordo con un umanesimo assai zelante nell'affermare che Dio è l'autore di ogni cosa e che bisogna guardarsi dal disprezzarlo rinunciando alle buone cose che egli ha create. Certo, anche oggi si vuole evitare il peccato (ma « che cosa sia il peccato, io non so nemmeno più quel che possa significare », mi confessava un buon cristiano, dopo un lungo elogio delle scoperte della psicologia moderna e delle radici inconsce delle nostre azioni); si giungerà perfino a riconoscere che una certa penitenza è necessaria, ma pensando che bastino quelle che il nostro dovere di stato ci impone ogni giorno, sempre più che sufficienti, a nostro parere.
Questo è ben vero! Nulla vale quanto questa penitenza, a condizione però che non la sopportiamo stoicamente, come un male inevitabile, ma che l'accettiamo da cristiani, cioè come Cristo prese la sua croce e la nostra. E siamo proprio sicuri di non illuderci, su questo punto veramente « cruciale », se limitiamo questa penitenza all'ineluttabile e non facciamo mai il minimo sacrificio volontario, per attestare almeno la nostra buona volontà di conformarci al sacrificio del Salvatore? In questo, come in tutto il resto della nostra vita spirituale, l'atto supererogatorio (cioè l'atto gratuito) che si fa in più di quello che è strettamente richiesto, non è certo necessariamente il solo che sia ispirato dall'amore, ma è tuttavia il segno indispensabile del fervore di questo amore e della sua vitalità, perché è il solo che esprime certamente e totalmente il dono della nostra libera volontà al Signore.
È dunque un grande vantaggio per noi che la Chiesa abbia rinunciato a prescriverci la misura esatta del nostro digiuno quaresimale ... o almeno può diventarlo se usiamo di questa libertà non per lasciarci andare alla nostra naturale mollezza, sotto pretesti più o meno speciosi, ma, al contrario, per prendere l'iniziativa di una penitenza la cui misura non può essere data, in fondo, che dalla nostra generosità. Essa infatti non ha altro limite, perché deve giungere fino a causare la morte, la morte - s'intende - del nostro vecchio uomo peccatore, che però ha troppo impregnato della sua legge fin le nostre membra, perché questa lotta non debba essere una vera « mortificazione » ( Cfr. Rom. 6 e 7; spec, 6,13 ss. e 7,14 ss. ).
È infatti sempre vera la parola della Bibbia che « non si può vedere Dio senza morire », e se non spetta a noi ripetere il leggendario detto dei monaci: « Fratello, dobbiamo morire », non per questo siamo esenti da tale condanna: essa concerne, infatti, tutti i cristiani e san Paolo rivolge a tutti i fedeli della Chiesa di Roma, all'inizio delle sue raccomandazioni morali, queste parole: « Vi esorto dunque, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi, come vittima viva, santa, gradevole a Lui... ». Si sa quel che si fa di una vittima: la si immola ... « Quale vostro culto spirituale ». Sì, il nostro culto spirituale implica l'offerta dei nostri corpi. Come mai, in un tempo in cui ci si gloria di aver riscoperto l'interdipendenza dell'anima e del corpo, si accetta così facilmente che una penitenza puramente spirituale non sia menzogna? Come spiegare queste anomalie, se non col fatto che tale illogicità ci torna comoda, perché maschera la nostra viltà di fronte alla mortificazione? Così l'Epistola ai Romani aggiunge: « E non vi conformate a questo mondo (cioè alle massime umaniste del mondo), anzi trasformatevi col rinnovare la vostra mente, per discernere quale è la volontà di Dio, ciò che è bene, accetto a Dio e perfetto » (Rom. 12, 1-2).
Ci è dunque richiesta una vera conversione dello spirito, per abbandonare gli accomodamenti umani e seguire le esigenze del Signore. Perciò in tutti i tempi i Cristiani sono stati tentati di tradire Cristo su questo punto. Già san Paolo se ne lamentava nel passo dell'Epistola ai Filippesi che segue immediatamente quello che già abbiamo citato e che, ricordiamo, canta la beata libertà di coloro che osano lasciare tutto per imitare Cristo: « Invece molti - aggiunge l'Apostolo - dei quali spesso vi ho parlato, e ora ve ne parlo con lacrime, si comportano da nemici della croce di Cristo. La fine di costoro è la perdizione, loro Dio il ventre, mettono il loro vanto in quello che è la loro vergogna, pensano soltanto alle cose terrene. Quanto a noi, la nostra patria è nei cieli ... ». (Phil. 3, 18-20).
Tale è appunto lo scopo di questa mortificazione cristiana. Conformandoci a Cristo, essa ci libera: « Chi è morto, non deve più rendere conto alla vecchia legge del peccato ».
Basta leggere le orazioni del tempo di Quaresima: su trentanove, ventitré offrono a Dio la nostra penitenza - saremmo dei bei chiacchieroni se non facessimo nulla di speciale per la nostra Quaresima! - e sedici insistono sul rapporto necessario fra la privazione corporale e la purificazione spirituale di cui quella deve essere il segno precursore. La più caratteristica di tutte queste Collette è certo quella del giovedì della IVª settimana: « Concedi, onnipotente Iddio, che quanti si castigano coi digiuni votivi, da questo stesso santo servizio siano allietati; affinché, moderati gli affetti terreni, più facilmente colgano le cose celesti ».
Questa preghiera, classica nella nostra liturgia, ha un tono un po' diverso dalle raccomandazioni di « prendere sul serio i valori temporali », con cui ci tempestano le orecchie. È veramente così necessario incoraggiarsi a questo, come se non avessimo, al contrario, il massimo bisogno di essere richiamati al dovere di « moderare gli affetti terreni »?
Non che la Scrittura e la liturgia cattolica ci incoraggino a mutilarci: anzi, nella Colletta del giovedì di Passione, troviamo un sano umanismo: « Concedi, onnipotente Iddio, che la dignità della natura umana, ferita dai nostri eccessi, sia restaurata dallo zelo di una parsimonia salutare » (notiamo l'espressione dignitas conditionis humanae). Così il digiuno e la mortificazione cristiana, lungi dall'essere una barbarie antinaturale, sono il solo modo di onorare e di rigenerare la nostra natura, santificando sia il corpo che l'anima, nell'unica unione dell'uno e dell'altra alla Passione del Signore (Cfr. L.Bouyer, Le Carême initiation pascale, p. 8: « L’ascesi cristiana ha precisamente per scopo la vera santificazione dei corpi e ogni attività rigenerata ha la sua fonte nella contemplazione dei misteri » ).
Perciò questa penitenza non ha nulla di triste, ma anzi deve essere nella gioia, come ci comanda il Signore stesso nel Vangelo della Iª Domenica. E in verità questo è ben naturale! Non è forse per i cristiani un triplice motivo di gioia poter sacrificare qualcosa per Dio, attendere « nel gaudio del desiderio spirituale » - come dice san Benedetto - le gioie pasquali che si avvicinano e avere la speranza che, liberati per virtù di Cristo « dal peso opprimente delle nostre colpe », possiamo infine « respirare nella consolazione » (Colletta della IVa domenica)?
Quanto a precisare la misura del sacrificio, come è possibile farlo? È problema individuale che ognuno deve lealmente trattare con se stesso. Vi è tanto superfluo nella nostra vita di cristiani - ve n'è, al dire di san Benedetto, nella vita di ognuno dei suoi monaci, e oserebbe contraddirlo - che è facile tagliare senza rischiare la salute o la rovina della famiglia! La discriminazione fra ciò che è necessario e ciò che è superfluo è sempre, del resto, molto difficile, perché varia secondo l'educazione, il tenore di vita, le esigenze familiari e la generosità di ciascuno. Ma questa è una ragione di più per essere vigilanti e per fare della Quaresima un ritiro nel quale possiamo prendere coscienza di tutto ciò di cui, seguendo un clima troppo facile, ci siamo lasciati ingombrare e rinunciarvi, nella misura del possibile, per attaccarci all'essenziale e fare che questo essenziale ridiventi il centro della nostra vita.
È molto bello e molto grande voler andare a Dio « con tutto il creato » ; ma questa grande ambizione si dimostra anche, talvolta, per non dire generalmente, molto illusoria. Per quanto possa essere umiliante, sarebbe più vero, molto spesso, confessare che noi siamo, per natura, assai limitati: anzi questa è una definizione della nostra capacità di creature. Quindi, per raggiungere lo scopo, la tattica più saggia è ancora quella consigliata da san Paolo: « ... dimentico di ciò che mi sta dietro, protendendomi verso ciò che mi sta davanti, continuo la mia corsa, fisso alla meta » « nel gaudio dello Spirito Santo », come aggiunge san Benedetto.



PREGHIERE E LETTURE

Certo, la generosità necessaria per imporci privazioni può essere solo effetto dell'amore, cioè dello Spirito. Per questo la Chiesa ci presenta come indissolubilmente legati al digiuno, nella pratica della Quaresima, la preghiera e i sacramenti che ci procurano la grazia e la forza necessarie. Le Collette, di cui abbiamo notato l'insistenza, ne sono una prova sufficiente, ma tutte le Messe quaresimali, in realtà, sono connesse con la nostra penitenza.
Se, infatti, la Quaresima non è un periodo di penitenza qualsiasi, ma la reale unione a Cristo che soffre e muore per noi sulla Croce (la cui ombra si profila sin dal Vangelo di Quinquagesima), non c'è da meravigliarsi che, durante questo Tempo, dobbiamo attingere con maggiore assiduità alla Messa. Non è proprio in questo sacrificio che ci associamo realmente al Cristo paziente?
Forse proprio per questo la Chiesa ha previsto, in questi quaranta giorni, un testo proprio per ogni Messa - fatto unico in tutto l'anno liturgico - per invitare i cristiani ad assistervi con maggior frequenza. Non potendovi assistere, chi può impedire al fedele, sollecito di vivere con la Chiesa, di rileggere questi testi nel suo messale? Queste letture sono tanto più doverose in quanto è tradizionale che esse, col digiuno e l'elemosina, facciano parte delle pratiche quaresimali.
Non si adduca il pretesto della mancanza di tempo. È verissimo che la vita moderna restringe talmente lo spazio di tempo libero da ridurlo praticamente a nulla. Ma in che cosa occupiamo quel tempo da cui ci sembra impossibile togliere anche solo qualche istante per Dio? Nel guadagnare di che vivere e dar da vivere alla nostra famiglia? È una preoccupazione lodevole, e il primo dei nostri doveri. Ma è proprio certo che non possiamo ridurre la parte del superfluo nella nostra vita, fossero anche solo le indispensabili sigarette, denaro veramente disperso in fumo? Se noi cristiani ammettessimo che – salvo casi speciali di un decoro richiesto dalle nostre funzioni – dobbiamo accontentarci di una vita semplice ( Cfr. il programma proposto da san Paolo ai cristiani di Tessalonica 1Thess. 4,10-12): « Ma vi esortiamo o fratelli, a progredire ancora di più [nella carità fraterna, come appare dal contesto] e farvi un punto d’onore di menare una vita tranquilla, di occuparvi dei vostri affari e di lavorare con le stesse vostre mani, come vi abbiamo raccomandato, al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei, e di non aver bisogno di ») perché il nostro tesoro è altrove, e la nostra città è nei cieli, come si alleggerirebbe il nostro bilancio, come si pacificherebbero le nostre attività e si acquieterebbe la nostra ansia febbrile, come si avvantaggerebbe anche la nostra salute! Ma, anche, come troveremmo quel tempo che riteniamo di non poter dare a Dio, ma che sappiamo pur trovare, anche nelle situazioni peggiori, per rispondere al telefono, per esempio... Già, al telefono si risponde sempre, ma si fa attendere Dio; il quale, è vero, solo raramente usa un campanello.
Ammettiamo pure di essere realmente sommersi dalle nostre attività: questo è oggi un malanno abituale e molto contagioso: ben pochi sanno guardarsene! Gli specialisti della razionalizzazione del lavoro - quando un industriale o un uomo d’affari va a consultarli perché non riesce più a far fronte ai propri impegni - cominciano col fare cronometrare per alcuni giorni i suoi minimi atti e gesti. Si constata allora generalmente che la metà del suo tempo è sciupata, non per un riposo o per sane distrazioni che servirebbero a distenderlo e sarebbero quindi utili, ma per un insensato sciupio di parole, di andare e venire, per una dispersione degli sforzi e una mancanza di organizzazione che lo impegnano e lo affaticano senza necessità.
Se lo volessimo, e il giorno in cui lo vorremmo, sarebbe ben strano che non riuscissimo a sottrarre alle nostre attività temporali il minimo di tempo indispensabile perché il mondo di Dio riprenda nella nostra vita il suo necessario peso.
Vi è una legge di equilibrio che è estremamente importante nella vita spirituale. Si ha l'impressione che, superando un certo grado di tensione, fisica o intellettuale, noi perdiamo il contatto con la profondità della nostra anima, dove dimora Dio (o, se si vuole, la coscienza di essa). Privata di questa interiorità, la nostra vita non può che svaporare e, come si suol dire, « dissiparsi ». È urgente allora mettere un contrappeso aumentando la dose della preghiera e del raccoglimento, cioè dell'esercizio in cui si riprende il contatto con le realtà che costituiscono la vita interiore. In questo senso bisogna senza dubbio interpretare la celebre risposta di un Abate a un suo monaco, eminente, ma allora immerso negli affari romani, che si lamentava di vedere la sua vita spirituale sommersa: « Faceva un'ora di orazione? Ne faccia due ».
Del resto è questione di semplice buon senso; come è possibile che, caricando sempre, sulla bilancia, il piatto delle attività temporali, non si finisca per far pendere tutto da quella parte? Se si vuole mantenere l'equilibrio, non bisogna ascoltare una sola campana, bisogna che le grandi verità della Rivelazione siano presenti e vive in noi, non soffocate da occupazioni molteplici che, essendo di ordine sensibile, sono fin troppo capaci di possederci. Il tempo di Quaresima è un'ottima occasione per far tesoro della nostra esperienza personale e vedere a quali condizioni potremo mantenere un equilibrio che è indispensabile per la nostra unione con Dio.
Non è necessario essere molto esperti di direzione spirituale per sapere a quali catastrofi giungano certe vite, in apparenza molta attivamente cristiane, quando, in un'anima poco alimentata, il peso di questo mondo arriva a superare quello delle realtà soprannaturali. Prive della loro linfa, le più solide convinzioni possono crollare di colpo, come un ramo morto, e si constata con sgomento a qual punto è letteralmente vera la parabola della vite: « Chi poi non rimane in me, è gettato via come il tralcio e si dissecca » (Gv. 15, 6).

La fede, essendo un atto della nostra intelligenza (benché sotto l'influsso di quella vita superiore che viene a sostituirsi al nostro giudizio) deve essere nutrita di letture che ci richiamano e, nella misura del possibile, ci illuminano il mondo misterioso nel quale dobbiamo credere. Queste letture devono essere più spirituali che «intellettuali»: il loro fine deve essere di farci prendere coscienza, sempre più profondamente, del Mistero di Dio e della vita cristiana affinché vi aderiamo con amore, piuttosto che esaminarne la delicata struttura con l'occhio attento, ma freddo, di un osservatore: non siamo più così estranei a questa vita soprannaturale da non sentirci sempre più intimamente impegnati in essa. In questa luce la lettura, molto vicina alla meditazione, ci si rivela indispensabile e, se durante l'anno abbiamo troppo ridotto il suo spazio nella nostra vita, la Quaresima è il momento in cui dovremmo riprenderla con maggior coraggio e continuità. Questo raccomanda san Benedetto ai suoi monaci, prescrivendo che ognuno riceva, all'inizio della Quaresima, un libro da meditare « tutto di seguito e per intero ».
I fedeli potranno leggere i diversi brani della Messa propria di ogni giorno, o, meglio ancora, riferirsi ai passi della Bibbia da cui sono tratti, per situare nel loro contesto questi frammenti generalmente molto brevi; potranno anche leggere, di seguito, le parti essenziali del Pentateuco, in particolare dell' Esodo, che è la prima figura del loro destino spirituale. Questo rifarsi alle fonti non esclude la lettura di altre opere di spiritualità, ma sarà sempre vantaggioso mettere alla base di tutto la Rivelazione, sia quella della Scrittura che quella della Tradizione, di cui la liturgia è uno dei principali monumenti.
Evidentemente, delle convinzioni puramente intellettuali non possono alimentare la nostra fede: è necessario il contatto, il più possibile continuo, con le cose di Dio. Poiché in realtà non si può cercare il Signore se già egli non si è lasciato trovare, e lo possiamo conoscere solo nella misura in cui gli siamo legati in una comunione di vita: « Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete » (Gv 14, 19). L'esercizio della nostra fede deve dunque essere continuamente immerso nella pratica sacramentale, che ha il fine di assicurare questa vita di Gesù in noi.
Anche i testi della liturgia sottolineano, a varie riprese, il legame tra l'Eucaristia e l'ascesi. Anzitutto, è ovvio, perché la passione di Cristo è l'unico pegno reale del nostro perdono. Così la Segreta del mercoledì della Iª settimana: « Ti offriamo,o Signore, questo sacrificio di propiziazione, affinché misericordioso tu perdoni i nostri peccati e diriga i nostri cuori vacillanti ». La Secreta del sabato dopo le Ceneri esprime la stesso concetto, ma aggiunge: « ... affinché, mondati dalla sua operazione, ti offriamo, reso a te più accetto, l'affetto della nostra anima ». (Cfr. anche il Postcommunio del Mercoledì delle Ceneri). Così è indicata la vera fonte del progresso nelle virtù: soprattutto non pensiamo mai che i nostri sforzi possano farci avanzare di un pollice in questa ambito, che è soprannaturale, cioè, per definizione, al disopra delle nostre forze. Tutto viene da Dio, attraverso la grazia di Cristo, al cui sacrificio partecipiamo nella Messa.
E questo è, in ultima analisi, il fine della Quaresima: non di mortificarci (il che sarebbe ancora un modo di ripiegarci su noi stessi, per tenere il conto dei nostri sacrifici e dei progressi che da essi derivano), ma di aprirci alla vita divina a cui tanti testi liturgici fanno allusione. Questa vita divina ci è impedita dal peccato: la si trova solo nella partecipazione vissuta alle sofferenze di Cristo, e la Messa è l'unica garanzia certa che le nostre sofferenze, unite alle sue, non andranno perdute ma anzi ci permetteranno di risuscitare con lui.



ELEMOSINA E CARITÀ

In Quaresima, come in ogni altro tempo, la ricerca di Dio non può essere disgiunta dal suo correlativo necessario: la carità verso il prossimo. È naturale che la liturgia lo sottolinei proponendo come lettura, fin dal venerdì e dal sabato dopo le Ceneri, la grande profezia di Isaia sul digiuno accetto al Signore (Is. 58, 3 e 6). Il testo è perfettamente chiaro e attuale; parla Jahvé:

Ecco: nel giorno che digiunate fate i vostri affari,
angariate tutti i vostri operai...
Non è questo piuttosto il digiuno ch'io voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandar liberi gli oppressi,
e spezzare ogni giogo?
Non è forse dividere il tuo pane con l’affamato,
nell’ospitare i poveri senza tetto;
nel vestire uno che vedi nudo,
e non sottrarti alla richiesta di chi è uomo come te?
La tradizione è unanime nell'insistere sul nesso fra il digiuno e la carità; ci sembra inutile soffermarci su di esso perché sarà oggetto dell'articolo di M. Massenet, il quale dimostrerà anche l'esigenza urgente della generosità dei cristiani nel momento attuale (Cfr. sopra: Il digiuno e la fame, pp. 239, ss.55.) Ci limitiamo quindi a riferire un aneddoto molto istruttivo.
Si racconta che un giorno La Pira fu interpellato da una ricchissima signora che, come accade in tali situazioni, era molta stanca delle gioie dell'esistenza. Come ritrovare il gusto di vivere? La Pira chiese alla bella signora solo di dare ai poveri il denaro che poteva economizzare rinunciando a fumare le sigarette dal bocchino dorato che le vedeva prendere dalla borsetta. Stupore della ricchissima: « Ma, se lo desidera, posso dare ben di più! ». « No, signora, ebbe la saggezza di rispondere La Pira, bisogna che Lei guadagni ciò che vuol dare ».
Per la consolazione dei moralisti, la storia aggiunge che il buon consiglio fu seguito perfettamente e che l'eccellente creatura ritrovò la gioia di vivere: e, in fondo, c'è da meravigliarsene?
Da parte nostra, ricaveremo un'altra lezione, da questo aneddoto che è un'ottima immagine del digiuno quaresimale. Innanzitutto il nostro digiuno deve essere effettivo quanto basta perché l'economia possa essere apprezzabile per i poveri che ne trarranno profitto. Inoltre, l'elemosina è insufficiente se consiste solo nel dare del danaro che, essendo un ottimo mezzo di scambio, è anche molto impersonale. Non basta dare un po', o anche molto di quello che si ha, bisogna essersi privati di ciò che si dà, affinché col dono si dia al prossimo anche un po' di noi stessi. Così ha fatto il Signore, « che ci ha amati e si è dato per noi »; così deve fare il cristiano e per questo la vera elemosina, la carità fatta personalmente, da uomo a uomo - « non sottrarti alla richiesta di chi è uomo come te » diceva Isaia - è assolutamente insostituibile.
È molto necessario ripeterlo, in un'epoca in cui la stessa vastità dell'impegno caritativo (che deve assumere il carico di tutti i popoli sottosviluppati, cioè della maggior parte della popolazione mondiale) esige, per questo problema di primaria importanza, una soluzione internazionale, l'unica che può porvi rimedio. Ma questa necessaria collettivizzazione dell'aiuto fraterno dei paesi più ricchi ai continenti impoveriti e sovrappopolati, non può in alcun modo dispensare ognuno di noi dal praticare la carità su scala più individuale. Poiché, se anche gli organismi mondiali giungessero a eliminare la carestia endemica a cui è condannata la maggioranza degli uomini, le esigenze di una distribuzione forzatamente amministrativa impedirebbero che tali organismi potessero saziare l'altra fame, non meno imperiosa, proprio nei più miserabili: il bisogno di essere amati. Questa fame, solo un dono personale, in cui sia impegnato il cuore del donatore, può saziarla efficacemente.
Si vede allora come sia proprio necessaria la carità, nel senso più forte del termine, cioè un amore così realmente divino da rompere le barriere del nostro egoismo e renderci simili al nostro Padre dei cieli, che dà senza calcolare a tutti gli uomini, senza eccezione. E così siamo ricondotti, ancora una volta, alla sorgente indispensabile: non vi è digiuno senza carità, dicevamo? Ma non vi è carità che non si attinga in Dio. Come d'altronde potremmo sperare di divenire buon pane per i nostri fratelli affamati se non siamo formati e trasformati da Colui che è il vero pane di vita?
Perciò l'elemosina, come il digiuno, per essere compresa e praticata in modo cristiano, deve essere legata alla vita sacramentale. Tutto è unitario, dunque, nella pratica della nostra Quaresima, e, da un capo all'altro, tutto è unitario in Cristo: solo la nostra unione con lui ci darà il coraggio di mortificarci seriamente e di sacrificare il nostro prezioso egoismo, e solo per amor suo accetteremo di vivere la vita che è sua, di lui che « non cercò se stesso » (Rom. 15, 3). Allora, e senza attendere la Pasqua, noi comprenderemo cos'è quella gioia perfetta da lui promessa ai suoi Apostoli e già, per bocca di Isaia, dallo Spirito Santo, «... nel deserto Egli ti sazierà, e tu troverai in Jahvé le tue delizie » (Is. 58).

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Dom Claude Jean-Nesmy è un  monaco benedettino dell'Abbazia La Pierre-Qui-Vire in Yonne, Francia

il testo qui offerto è estratto dall'opera : LA SPIRITUALITA' PASQUALE – Morcelliana - Brescia, 1963 Iª parte – Preparazione alla Paqua cap. VIª – PRATICA DELLA QUARESIMA ( pagine 83-101 ) –
Titolo originale dell'opera: Spiritualité pascale Coll. « Témoignages » - Cahiers de la Pierre-Qui-Vire Éd. Descleé de Brouwer, Paris 1957
Traduzione a cura del Centro Documentazione - Bologna

NB – il riferimento a Quinquagesima e Settuagesima, contenuto nel testo, allude ai testi liturgici preconciliari, approvati nel 1963; come pure ai testi eucologici e biblici di allora.


a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia