sabato 18 febbraio 2012

Liturgia del corpo

Di seguito il Vangelo di oggi, 18 febbraio, sabato della VI settimana del T.O.,
con un commento e qualche breve lettura per la meditazione.
Sulla memoria liturgica del Beato Angelico vedi:


18 Feb 2011
Predicava con il pennello. La memoria liturgica di oggi 18 febbraio ci dispone ancora a considerare l'arte come una via verso la santità. http://www.atuttascuola.it/collaborazione/samuele/beato_angelico. Beato Angelico. (ca.





“Offrire i vostri corpi”: San Paolo parla della liturgia, parla di Dio, 
della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, 
parla di liturgia come vita. 
Noi stessi, il nostro corpo; 
noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. 
Questa è la novità del Nuovo Testamento: 
Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. 
E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: 
il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia
Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; 
allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, 
ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, 
del nostro essere nel Corpo di Cristo, 
come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, 
che tende ad attirare a sé tutti.
Trasformare noi stessi, 
lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, 
trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, 
nella verità del nostro essere. 
E “rinnovamento”; questa è la vera novità: 
che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, 
ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. 
Lasciamoci formare, plasmare 
perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.

Benedetto XVI




Dal Vangelo secondo Marco 9,2-13.Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti. E lo interrogarono: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Egli rispose loro: «Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è gia venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di lui».


IL COMMENTO

Lo sguardo della fede intercetta la Gloria nella carne. E' questa l'esperienza del Tabor. La visione dell'amore di Dio capace di perdonare e trasfigurare. E' la misericordia che sgorga dal sangue dell'Agnello, che rende candide le vesti di coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione della vita, le prove e la Croce; le vesti bianchissime del Signore Gesù, che nessuno sulla terra le avrebbe potuto rendere così. Uno splendore celeste, un'opera divina: il battesimo, il perdono e una vita rinnovata come un dono per ogni uomo, la vita trasfigurata splendente nella carne umanissima del Signore. Nessun lavandaio sulla terra potrebbe raggiungere tanto biancore: le vesti del Signore, quella carne trasfigurata, sono opera di unlavandaio celeste! Ecco l'opera del Signore, il dono anticipato nella sosta sul Tabor e poi compiuto a Gerusalemme, il mistero pasquale del Signore che si realizza nel battesimo. Una potenza che trasfigura dal di dentro, un principio di vita eterna che pervade ogni cellula che illumina di Cielo la terra. La trasfigurazione è il compimento della purificazione dell'interno della coppa perchè anche l'esterno sia netto. Il cuore rinnovato perchè ricolmo dell'amore di Dio effuso in esso per mezzo dello Spirito Santo. Il cuore nel Cielo, il tesoro incorruttibile perchè radicato nell'incorruttibile amore di Dio. La trasfigurazione è così la sconfitta dell'ipocrisia e il trionfo della Verità. Il Signore sul monte Tabor è l'Uomo autentico, compiuto, profezia e destino di ciascun uomo. 


Sul Tabor, come nella nostra vita, appare uno squilibrio che atterrisce e lascia senza parole: “Non sapevano che cosa dire”. La paura  che ci attanaglia di fronte all’abisso della nostra debolezza, dell’assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. La sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Sul monte Tabor si celebra proprio il trionfo di ciò che umanamente è contraddizione e incoerenza, ma che nella luce trasfigurante dello Spirito Santo è carne debole come un seno pronto ad accogliere la vita divina. Le tende che Pietro vuole issare manifestano il desiderio più profondo di ogni uomo, quello di poter incontrare al fondo della propria realtà, nell'impossibilità di dare forza, certezza e compimento alla propria vita la forza, la certezza e il compimento di un amore più forte della morte. Il desiderio di Pietro come il nostro di oggi, coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita, come nella festa di Succot: issare le capanne, le tende quale segno della permanenza del popolo nel deserto, quando, tra una mormorazione e l’altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l’incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. La tenda è la nostra carne, il vestito fragile e sberciato che la Parola di Dio, il Figlio fatto pane, trasfigura, fa nuovo, senza toppe e aggiustamenti umani: la vita nostra, giorno per giorno, come un vino nuovo in otri nuovi.


Era stupendo quel momento, la Vita brillava tra i confini angusti di un corpo corruttibile. Come le icone orientali, la cui luce promana dal centro del dipinto e ti attira, e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, e ti fa interlocutore per lo squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione. “La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell’arte cristiana, c’introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque la contemplazione, che si dà nell’ascolto e nella visione, in una parla, nell’esperienza. Sperimentare il perdono, la rconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell’episodio della Trasfigurazinone è svelato dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell’esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato. La luce della Pasqua nelle tenebre del sepolcro, lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svela così attraverso la Parola, ovvero la stoltezza della predicazione del Vangelo: l'evangelizzazione è la Trasfigurazione del mondo, degli uomini. Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. Stiamo andando a Gerusalemme. Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l’annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: per noi è preparata la vita che non muore, abbiamo in noi il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la Sua stessa vita. E questa vita è la Parola del Vangelo, la buona notizia dell’amore infinito di Dio che risplende nel Suo mistero pasquale. La nostra vita trasfigurata è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze, la bellezza che riverbera dalle ferite del peccato perdonato, la veste splendente di Cristo che riveste la nostra debolezza. E’ bello stare con il Signore, proprio come diceva Pietro, e noi, nell’esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perchè stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce e dallo scorrere delle lacrime, di compunzione, di tenerezza, quelle che scoccano nell’incontro con un amore così grande, così bello. Dice sant’Efrem: “Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura”.


Il mistero della trasfigurazione è la pienezza di vita alla quale siamo chiamati. Non è autentica una vita che non sia attirata nella dinamica della metamorfosi, della Pasqua che trascina verso l'alto senza dimenticare la terra. Non è vero l'uomo che non sia raggiunto, pervaso e colmato dell'amore celeste che trasfigura ed accende di una luce soprannaturale la storia, gli eventi, la carne. Senza la vita di Cristo c'è spazio solo per l'ipocrisia, la vita ridotta a fiction, apparire, vendere, mentire, nel perenne inseguire ideali, desideri e pienezza inesistenti. Gesù trasfigurato è la Buona Notizia che la Chiesa ci annuncia oggi: lo splendore della verità, l'amore infinito di Dio, cerca i nostri cuori e le nostre menti di pellegrini tra le ore della vita. E una voce dal Cielo, un invito: Shemà Israel, Ascolta Israele, e vivrai. Ascolta la Parola, è dinanzi a noi già compiuta. La carne di Gesù è la stessa nostra, lo splendore di Gloria che appare in Lui è preparata per ciascuno di noi. Già oggi, anche se non ancora in pienezza.

Ascoltare la voce di Gesù, il Figlio prediletto, è il cammino, 
quello di un pellegrino che compie l’esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di chi ha il cuore ferito dall’amato. Cabasilas (ca. 1320-1391) scriveva infatti: i cristiani sono «…esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all’uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l’intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo». Ascoltare oggi, per vedere nella nostra stessa carne la trasfigurazione di tutto quel che ci appartiene. Gli occhi di fede del centurione, capaci di guardare lontano, da lontano. Gli occhi dischiusi sul Cielo qui in terra, la Vita immortale che prende dimora in ciascuno di noi. E tutto quello che è effimero, transitorio, radice di ansie e paure, diviene, per pura Grazia, fonte di pace. Tutto di noi, anche quello che disprezziamo, tutto tranne il peccato, è assunto dal Signore oggi e ogni giorno, e così tutto è trasfigurato. 

Questa intuizione è l’esperienza della Trasfigurazione, quella che ci attende ogni giorno. E’ vero che seguire il Signore è esserne con Lui crocifissi, portando la nostra croce. E’ vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E’ vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: “Nella passione di Cristo… l’esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’ Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l’estrema “affermazione” del mondo… Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’ Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza” (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza, la nostra bellezza.


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Anastasio Sinaita (? - dopo 700), monaco. Discorso sulla Trasfigurazione del Signore



Il mistero della crocifissione e la bellezza del Regno di Dio


Il monte della Trasfigurazione è il posto dei misteri, il luogo delle realtà ineffabili, la roccia dei segreti nascosti, la vetta dei cieli. Qui sono stati svelati i simboli del Regno futuro : il mistero della crocifissione, la bellezza del Regno di Dio, la discesa di Cristo nella sua seconda venuta nella gloria. Su questa montagna la nube luminosa ricopre lo splendore dei giusti ; i beni futuri già si realizzano. La nube che avvolge la montagna prefigura il rapimento dei giusti sulle nubi ; ci mostra fin da oggi il nostro aspetto futuro, la nostra configurazione a Cristo.
Gesù aveva parlato ai suoi discepoli del Regno di Dio e della sua seconda venuta nella gloria. Ma ciò forse non aveva avuto per loro una sufficiente forza di persuasione. E allora il Signore, per rendere la loro fede ferma e profonda e perché, attraverso i fatti presenti, arrivassero alla certezza degli eventi futuri, volle mostrare il fulgore della sua divinità e così offrire loro un’immagine prefigurativa del regno dei cieli. E proprio perché la distanza di quelle realtà avvenire non fosse motivo di una fede più languida, li preavvertì dicendo : « Vi sono alcuni fra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire » nella gloria del Padre suo (Mt 16,28). « Sei giorni dopo, Gesù prese con sè Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse in disparte su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro » …
« Quanto è terribile questo luogo ! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo » (Gen 28,17). Verso di essa dobbiamo affrettarci.


Giovanni Paolo II, 
 
Vita consecrata, 75





Contemplare e seguire Cristo Trasfigurato

Continuamente Cristo chiama a sé nuovi discepoli, uomini e donne, per comunicare loro, mediante l'effusione dello Spirito (cfr Rm 5, 5), l'agape divina, il suo modo d'amare, e per sospingerli così a servire gli altri nell'umile dono di sé, alieno da calcoli interessati. A Pietro, che estasiato dalla luce della Trasfigurazione esclama : « Signore, è bello per noi restare qui » (Mt 17, 4), è rivolto l'invito a tornare sulle strade del mondo, per continuare a servire il Regno di Dio. « Scendi, Pietro ! desideravi riposare sul monte : scendi ; predica la Parola di Dio, insisti in ogni occasione opportuna e importuna, rimprovera, esorta, incoraggia usando tutta la tua pazienza e la tua capacità di insegnare. Lavora, affaticati molto, accetta anche sofferenze e supplizi, affinché, mediante il candore e la bellezza delle buone opere, tu possegga nella carità ciò che è simboleggiato nel candore delle vesti del Signore » (S Agostino, discorso 78, 6). Lo sguardo fisso sul volto del Signore non attenua nell'apostolo l'impegno per l'uomo ; al contrario lo potenzia, dotandolo di una nuova capacità di incidere sulla storia, per liberarla da quanto la deturpa. 





Benedetto XVI. Parole sulla Trasfigurazione



Come Pietro vorremmo tutti chiedere al Signore di vivere sul Tabor. “Quando si ha la grazia di provare una forte esperienza di Dio – sottolinea Benedetto XVI – è come se si vivesse qualcosa di analogo a quanto avvenne per i discepoli durante la Trasfigurazione: per un momento si pregusta qualcosa di ciò che costituirà la beatitudine del Paradiso”:
“Si tratta in genere di brevi esperienze, che Dio a volte concede, specialmente in vista di dure prove. A nessuno, però, è dato di vivere ‘sul Tabor’ mentre si è su questa terra. L’esistenza umana infatti è un cammino di fede e, come tale, procede più nella penombra che in piena luce, non senza momenti di oscurità e anche di buio fitto. Finché siamo quaggiù, il nostro rapporto con Dio avviene più nell’ascolto che nella visione; e la stessa contemplazione si attua, per così dire, ad occhi chiusi, grazie alla luce interiore accesa in noi dalla Parola di Dio”. (Angelus del 12 marzo 2006)
Sul Tabor, Pietro, Giacomo e Giovanni contemplano la gloria del Figlio di Dio:
“Qui è il punto cruciale: la trasfigurazione è anticipo della risurrezione, ma questa presuppone la morte. Gesù manifesta agli Apostoli la sua gloria, perché abbiano la forza di affrontare lo scandalo della croce, e comprendano che occorre passare attraverso molte tribolazioni per giungere al Regno di Dio”.(Angelus del 17 febbraio 2008)
Gesù – come dice il Salmo – è “il più bello tra i figli dell’uomo” ma è anche misteriosamente colui che – afferma Isaia – “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Cristo – rileva il Papa – ci mostra che “la vera bellezza è l’amore di Dio” che “sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione”. “Per entrare nella vita eterna – allora – bisogna ascoltare Gesù” seguendolo sulla via della croce. Ascoltarlo come Maria:
“Ascoltarlo nella sua Parola, custodita nella Sacra Scrittura. Ascoltarlo negli eventi stessi della nostra vita cercando di leggere in essi i messaggi della Provvidenza. Ascoltarlo, infine, nei fratelli, specialmente nei piccoli e nei poveri, in cui Gesù stesso domanda il nostro amore concreto. Ascoltare Cristo e ubbidire alla sua voce: è questa la via maestra, l’unica, che conduce alla pienezza della gioia e dell’amore”. (Angelus del 12 marzo 2006)
In fondo – spiega il Papa – “la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera”. “Pregando Gesù si immerge in Dio” che è amore, è luce è la vita stessa. Di qui il forte appello di Benedetto XVI a tutti i fedeli:
“La preghiera non è un accessorio, un optional, ma è questione di vita o di morte. Solo chi prega, infatti, cioè chi si affida a Dio con amore filiale, può entrare nella vita eterna, che è Dio stesso”. (Angelus del 4 marzo 2007)


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Benedetto XVI. Trasfigurazione, trasformazione, rinnovamento. 
Lectio divina su Rom. 12, 1-2


Visita al Pontificio Seminario Romano, 15 febbraio 2012 


Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo – della Lettera ai Romani: Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i tempi. Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma; così prepara la Città alla sua visita. Scrive a questa comunità che non conosce personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si sentirà libero di annunciare il Vangelo.


Nel primo capitolo della Lettera ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di Roma si parla in tutto il mondo (cfr 1,8). La cosa memorabile della fede di questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma.


Il testo letto (Rm 12, 1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi esorto” (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis – parakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola “misericordia” – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di Dio” (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.


A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.


“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.


Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali od offerte –, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”, è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.


La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.


E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro concetto del “mondo”, kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.


Vediamo come il mondo della finanza possa dominare sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il mondo della finanzia non rappresenta più uno strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato: “Mammona”, la vera divinità falsa che domina il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere, dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio.


Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica. Certamente abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre “essere conformati”, lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione, dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.


E san Paolo continua: “Trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). Due parole molto importanti: “trasformare”, dal greco metamorphon, e “rinnovare”, in greco anakainosis. Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, nella verità del nostro essere. E “rinnovamento”; questa è la vera novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.


“Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro modo di pensare”. Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice “o nous”: tutto il modo del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente, imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.


“Rinnovare il modo di pensare”: ogni giorno è un compito proprio nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio. Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione del nostro essere e del mondo.


E, infine, “Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (cfr v. 2). Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio, quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita.


E, nel giorno della Madonna della Fiducia, vediamo nella Madonna proprio la realtà di tutto questo, la persona che è realmente nuova, che è realmente trasformata, che è realmente sacrificio vivente. La Madonna vede la volontà di Dio, vive nella volontà di Dio, dice “sì”, e questo “sì” della Madonna è tutto il suo essere, e così ci mostra la strada, ci aiuta.


Quindi, in questo giorno, preghiamo la Madonna, che è l’icona vivente dell’uomo nuovo. Ci aiuti a trasformare, a lasciar trasformare il nostro essere, ad essere realmente uomini nuovi, ad essere anche poi, se Dio vuole, Pastori della sua Chiesa. Grazie.



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APPROFONDIMENTI


Geografia e archeologia del Tabor

IL TABOR NELLA LETTERATURA RABBINICA

(Teresa Petrozzi)
Il Tabor del rabbini si presenta sotto aspetti diversi.

In due trattati del Talmud di Babilonia, Zebaim e Baba Bathra, il monte è preso a misura di grandezza: Esisteva un animale tanto grande che non entrava nell'arca; quanto era grande? era grande quanto il Tabor; e quanto è grande il Tabor? Quaranta parasanghe.

Secondo un'altra scuola esso è un monte santo. La Midrash Yalkut, riferendosi ai sacrifici di giustizia di Dt 33,19, sostiene che il Tabor e il monte sul quale il Tempio doveva essere costruito, di diritto [ ... 1 so non fosse stato per una espressa rivelazione che ordinava di erigere il santuario sul Monte Moria i. L'autore del trattato Tehillim annuncia: Nel tempo a venire Dio farà scendere la Gerusalemme celeste su questi quattro monti: Tabor, Hermon, Carmelo e Sinai.

Una terza scuola presenta il Tabor come un simbolo di orgoglio e di presunzione. Nel commento al versetto del Cantico di Debora, 1 monti rabbrividirono innanzi a Iahve, innanzi a Iahve Dio di Israele (Gdc 5,5), il Targum di Gerusalemme fà dire al Tabor: Su di me si libra la presenza divina, a me essa appartiene di diritto. Quando all'inizio, ai giorni di Noè, le acque del diluvio coprivano tutte le montagne, i flutti non arrivarono né alla mia testa né alle mie spalle. Io sono dunque più elevato di tutte le montagne ed è mio privilegio legittimo che Dio dimori su di me.

La Midrash su Genesi racconta che, mentre le nazioni ed i popoli si rifiutavano di accettare la Legge, i monti disputavano fra di loro contendendosi l'onore di essere prescelti come luogo della rivelazione. Il Tabor si vantava di essere il più alto, appunto perché aveva torreggiato sulle acque del diluvio; l'Hermon accampava diritti perché, al momento dell'Esodo, si era steso fra le due sponde del Mar Rosso permettendo agli Israeliti di passare; il Carmelo, sicuro della sua posizione, taceva e pensava: Se la presenza di Dio, la Shekinah, deve sostare sul mare, sosterà su di me, e se deve sostare sulla terra ferma, sosterà su di me. Ma una voce risuonò dall'alto e dichiarò: la presenza divina non si fermerà su questi alti monti, che sono così superbi, bensi sul Sinai, che è il più piccolo ed il, più insignificante di tutti. La stessa Midrash precisa che il Sinai fu preferito anche perché su di esso non erano stati adorati idoli.

Secondo la tradizione, peraltro, il Tabor ed il Carmelo fecero spontaneamente atto di sottomissione: essi, o i loro angeli degli elementi, andarono al Sinai quando venne data la Legge. Il Tehillim aggiunge che il Signore fu commosso dalle buone intenzioni dei due monti e dichiarò: Poiché vi affannate in mio onore.. vi ricompenserò. Guardate, al tempo di Debora libererò i figli di Israele sul Monte Tabor, come e detto: V& e sali verso il Monte Tabor (C& 4,6); e anche libererò Elia sul Monte Carmelo, come è detto: Acab [ ... ] riunì i profeti sul Monte Carmelo (1 Re 18,20). L'Hermon non è ricordato.

Le stesse considerazioni sulle pretese orgogliose del Tabor e del Carmelo sono ripetute nel Targum, nella Midrash su Numeri e sul Salmo 68 e nella Pesikta Rabbati.


L'Antico Testamento non lascia luogo a dubbi circa il fatto‑ che la Legge fu data sul Sinai. L'insistenza con la quale i Rabbini sostenevano questo punto, proclamando che il Tabor ed il Carmelo erano stati scartati per il loro presuntuoso comportamento, ed il silenzio che sopravviene nei riguardi dell'Hermon, possono essere il riflesso di una polemica. I Rabbini compilarono i loro trattati nei primi secoli della nostra èra, mentre il Cristianesimo si stava espandendo. Il Carmelo, sul quale vivevano monaci ed eremiti cristiani, ed il Tabor, ritenuto particolarmente santo dai Giudeo‑Cristiani, dovevano essere umiliati e accontentarsi di un premio di consolazione. Dell'Hermon era inutile parlare in quanto non era connesso al culto cristiano.

Comunque. il Tabor restò impresso nell'animo degli Israeliti. Ancora oggi, tra le preghiere recitate alla fine dello Shabbath, essi ripetono un inno, Havdalah, attribuito a Isaac ibn Chayyat (1030‑1089), nel quale si dice che la giustizia misericordiosa di Dio è simile al Monte Tabor

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IL TABOR NELL'ANTICO TESTAMENTO

Il libro di Giosuè pone nel territorio di Issacar sedici città e specifica che il confine toccava il Tabor (Gs 19,17~22). Inoltre dice che le terre assegnate a Zabulon arrivavano fino a Daberat (Gs 19,12), oggi Daburiyeh o Kh. Dabura rispettivamente a ovest e a nord del monte, mentre quelle di Neftali giungevano fino ad Aznot Tabor (Gs 19,34), da ricercarsi probabilmente ad est. Il Tabor veniva a trovarsi nel punto in cui convergevano i confini delle tre tribù.

In molte religioni le montagne hanno carattere sacro. La religione israelitica non faceva eccezione e nell'Antico Testamento troviamo numerosi riferimenti a montagne considerate sacre. Ne citiamo alcuni: Iahve quando ebbe finito di parlare con Mosè sul Monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza (Es 31,18); all'Horeb, il monte di Dio, salì Elia (1 Re 19,8); Isaia predisse: Avverrà che, alla fine dei giorni, si ergerà il monte del tempio di Iahve sulla cima dei monti e si innalzerà sui colli (Is 2,2); Daniele invocò: 
Signore, per tutta la tua misericordia, si allontani, ti preghiamo, la tua ira e il tuo sdegno da Gerusalemme, tua città, tuo santo monte (Dn 9,16).


Il Tabor, che con la sua altera cupola dominava le pianure circostanti, dovette imporsi alla mente degli Israeliti e non è da escludere che essi abbiano in un primo momento tollerato il baal che era adorato là; il monte può aver mantenuto il suo antico carattere sacro nella religiosità israelitica popolare, non sempre aderente alla teologia canonica ortodossa.

Peraltro, nell'episodio di Debora (Gdc 4 e 5), che ruota intorno al Tabor, si vede che il culto iahvistico è già instaurato sul monte. Particolarmente importanti in questo senso sono i vv. 4,6 e 5,8. Nel primo Debora incita Barac a radunare le truppe sul Tabor. Questa mossa non deve esser stata dettata tanto dalla strategia quanto dal desiderio di pregare il vero Dio in vista della lotta contro gli invasori. Nel secondo Debora e Barac ricordano che gli Israeliti si erano scelti dèi stranieri, allora la guerra fu alle porte: gli dèi stranieri appartenevano al passato ed erano stati cancellati dal Dio personale. La benedizione di Mosè può essere allora considerata come riconoscimento di un culto legittimo. Il redattore di Dt 33, 18‑19, nello scrivere: Gioisci, Zabulon, nelle tue spedizioni, e tu, Issacar, nelle tuo tende! Essi invitano popoli alla montagna; là offrono sacrifici di giustizia, avrebbe avuto in mente il Tabor, unico monte importante al quale le due tribù potevano facilmente salire.

Il Tabor compare quindi nell'episodio di Gdc 8,18: sul monte i capi dei Madianiti uccidono i fratelli di Gedeone.

Seguono due passi controversi. In 1 Sm 10,3 Samuele ordina a Saul, da poco unto re, di andare fino alla Quercia del Tabor nella regione di Betel. Non si può escludere che anche sulla montagna di Efraim esistesse una località detta Tabor; il Monte Tabor sembra peraltro fuori discussione e diverse versioni accreditate leggono Quercia di Debora, rifacendosi a Gdc 4,5 dove è detto che la profetessa sedeva sotto la palma di Debora, fra Rama e Betel. In 1 Cr 6,62 sono elencate le città levitiche: Ai restanti figli di Merari si assegnarono nella tribù di Zabulon : Rimmono con i suoi pascoli, Tabor con i suoi pascoli. Secondo i competenti questo "Tabor" è una lezione improbabile perché una città di tal nome nel territorio di Zabulon non è ricordata in altri passi. Di conseguenza alcuni propongono di leggere Chislot Tabor (Iksal); altri, tenendo presente il brano parallelo di Gs 19,15, ritengono che si tratti di Naalal.

Il Tabor compare quindi in Osea, profeta che svolse il suo ministero nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. nel regno di Israele. Dopo il tempo di Debora l'idolo del monte dovette essere riportato in onore perché le tribù del nord continuavano a praticare un culto sincretistico. Tale culto era stato reso ufficiale da Geroboamo I, primo re di Israele (930‑910 a.C.), con l'erezione di immagini di tori a Betel e a Dan (o il toro era il simbolo teriomorfico del cananeo Baal Hadad), e da Acab (874‑853 a.C.) con la costruzione a Samaria, allora capitale del regno, di un tempio dedicato a Baal Melqart, dio degli Inferi. In seguito Elia aveva scannato i sacerdoti idolatri (1 Re 18,40) leu allo sterminio dei falsi profeti aveva aggiunto la distruzione dei tempio di Samaria (2 Re 10,25‑27). Peraltro, tali interventi non avevano avuto un effetto duraturo e Osea dichiarò fermamente: Toglierò i nomi dei Baal dalla sua bocca, essi non saranno più menzionati per nome (2,19) e denunciò la responsabilità dei sacerdoti e dei principi: Ascoltate questo, o sacerdoti; state attenti, o casa di Israele; o casa del re, porgete orecchio, perché contro di voi é la sentenza; voi che siete stati un laccio‑ a Mispa, una rete tesa sul Tabor (5,1). Non si conosce la ragione per cui Mispa era diventata occasione di scandalo. Nelle parole rete tesa sul Tabor Lewy vede una conferma alla sua teoria secondo la quale il dio venerato sul monte era Tammuz: nelle lamentazioni sumere per la morte di questo dio si trova generalmente l'epiteto umum safar, il signore della rete. Osea uccise il Baal del Tabor: l'Antico Testamento non accenna più ad esso né direttamente né indirettamente.

Troviamo poi il Tabor in un altro profeta, Geremia, che lo considera, unitamente al Carmelo, un simbolo di preminenza. Nei vaticini contro le nazioni Geremia infatti rimarca la superiorità di Nabucodonosor paragonandolo alle due montagne: Pari al Tabor rispetto ad altri monti e al Carmelo che incombe sul mare, egli verrà (46,18). Il Tabor è nominato l'ultima volta dall'Antico Testamento nel SI 89, che è tutto una celebrazione alla fedeltà di Dio: Il Tabor e Hermon esultano nel tuo nome (v. 13).


L'INCONTRO DI MELCHISEDEC CON ABRAMO

Nel quadro dell'Antico Testamento un posto a sé merita l'incontro di Melchisedec con Abramo, legato al Tabor da una tradizione.

In Gn 14,17‑20 viene riferito che: 
Tornando, Abram dall'aver battuto Chedorlaomer e i re che erano con lui, gli uscì incontro il re di Sodoma, nella valle di Save, ossia la valle del Re. E Melchisedec, re di Salem, fece portare pane e vino: egli infatti era sacerdote di Dio Altissimo. E lo benedì e disse: "Benedetto sia Abram da Dio Altissima, creatore del cielo e della terra, benedetto sia il Dio Altissimo che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici". Abram, gli diede la decima di tutto.


Circa il luogo di questo incontro sono state sviluppate diverse teorie. Basandosi su SI 76,3 che avvicina Salem al Sion (Ed in Salem è la sua tenda e la sua dimora in Sion), una tradizione giudea collocava il posto a Gerusalemme. Secondo il Targum Onkelos ed il Targum Jonathan i due personaggi si sarebbero incontrati "nella pianura di Mefana, che era il campo di corse del re"; secondo Flavio Giuseppe, nella Valle del Re, cioè presso la piscina di Siloe. In seguito la localizzazione venne trasferita sulla Spianata del Tempio.

L'esistenza di una seconda tradizione giudea fu rivelata da un rotolo scritto in aramaico, scoperto nel 1947 nella grotta n. 1 di Qumran: "E il re di Sodom [ ... ] salì verso di lui e venne a Salem che è Gerusalemme. E Abramo era accampato nella Valle di Shave, che é la Valletta del Re, nella pianura di Beth ha‑Kerem". L'incontro sarebbe quindi avvenuto nei pressi della odierna Ain Karim. Avigad e Yadin ritengono che il rotolo risalga al I sec. a.C. ‑I sec. d.C.; ciò peraltro non fissa la data originale, in quanto il rotolo può essere sia la traduzione di un testo ebraico che la copia di uno aramaico più antichi. Conseguentemente anche il tempo in cui questa tradizione nacque resta oscuro; è possibile soltanto dire che si tratta di una tradizione parallela alla prima.

Un'altra tradizione, anche essa nata in epoca indeterminabile, è quella dei Samaritani, i quali trasferirono l'incontro in Samaria, ed esattamente sul Garizim, il loro monte santo. I Samaritani erano in un certo senso giustificati poiché in Gn 83,18 si legge: E Giacobbe arrivò a Salem, città di Sichem (versione dei Settanta e Vulgata) e la valle di Salem (Gdt 4,3) è collocata in Samaria.

I Giudeo‑Cristiani localizzarono l'incontro nella grotta che si trova sotto il Calvario, grotta da loro ritenuta l'ombelico del mondo, dove si sarebbero svolte tutte le principali azioni dei Patriarchi e da dove, infine, Gesù sarebbe disceso agli inferi (Ef 4,9) attraverso la fenditura della roccia (Mt 27,51). In quella grotta, "luogo dove si compirà la redenzione del mondo", Sem aveva seppellito Adamo e Melchisedec, come sacerdote, ne custodiva la tomba I. A quanto risulta, il primo pellegrino a parlare di questa tradizione fu l'Anonimo di Piacenza nel 570 e la notizia fu ripresa molto saltuariamente dai viaggiatori occidentali.

Nel IV sec. venne poi sostenuta la teoria secondo la quale Salem si sarebbe trovata nella valle del Giordano. Un esponente di tale teoria fu Eusebio ed Eteria vide in quella Salem le rovine del palazzo di Melchisedec. San Girolamo, dopo aver pensato a Gerusalemme 8, abbracciò la teoria del Giordano (PL 22,680) e infine ritornò alla prima soluzione (PL 
22,883).


Nel frattempo i Melchisedechiani, membri di una setta gnostica, avevano portato la tradizione sul Monte Tabor, dove esisteva uno dei loro centri.

Il Tabor fu riconosciuto come luogo dell'incontro anche dalla Chiesa dei Gentili. Sant'Atanasio vescovo di Alessandria (IV sec.) scrisse la Historia de Melchisedech (PG 28, 525‑530). Tale storia, che spiega anche fantasiosamente il motivo per cui Melchisedec è chiamato senza genealogia (Eb 7,3), influenzò probabilmente i Copti e visse nella tradizione del monte almeno fino al XIV sec. Per quanto concerne il Tabor, il santo vescovo narra che, dopo tragici avvenimenti familiari, Melchisedec restò sul monte sette anni, nudo come quando era nato. Le unghie divennero lunghe un palmo, i capelli gli arrivarono all'ombelico e la schiena si indurì come il guscio di una tartaruga. Mangiava bacche e beveva rugiada. Dopo sette anni una voce disse ad Abramo: "Prepara la cavalcatura, indossa vesti preziose, sali al Tabor e chiama tre volte 'Uomo di Dio' e ti si presenterà un uomo selvaggio. Non temere, ma radilo e tagliagli le unghie, vestilo e accetta la sua benedizione". Abramo eseguì gli ordini e tutto avvenne come Dio aveva detto. Dopo tre giorni Melchisedec scese dal Tabor e benedisse Abramo. Quando poi Abramo ritornò dall'aver ucciso i re, Melchisedec gli offri un calice di vino in cui aveva messo un pezzetto di pane. e fece la stessa offerta anche ai 318 uomini di Abramo. Questo fu il tipo del sacrificio incruento del Salvatore.

Secondo un testo copto, il Signore ordinò ad Abramo di salire al Tabor con pane, vino ed acqua, di chiamare Melchisedec, di tagliargli i capelli, le unghie e la punta della barba e di mangiare le spuntature prima di porgergli le offerte. Abramo eseguì l'ordine e lo benedì. Il testo, chiamato da Goodenough "La Preghiera del Pane". termina con una invocazione: "Così ora di nuovo, Signore, sii tu colui che benedice questo pane; dallo al tuo servo come pegno di unione". La pratica magica del mangiare le spuntature è pre‑cristiana o comunque indipendente dal Cristianesimo. Tuttavia la fine della preghiera indica chiaramente che il pane doveva essere mangiato come un sacramento di matrimonio mistico del fedele con Dio. Con ogni probabilità i Copti, e forse prima di loro i Melchisedechiani, avevano cristianizzato un uso e un rito esistenti.

Questo sembra essere il cammino percorso dalla tradizione. Hertzberg, che riteneva Melchisedec un personaggio del Canaan del Nord e probabilmente sacerdote del Baal Sedeq, proponeva il senso inverso: la tradizione del sacerdote‑re cananeo, originariamente legata al Tabor, sarebbe stata trasferita dai Giudei, dai Samaritani e dai Cristiani nei luoghi rispettivamente considerati più santi.

Dal canto loro i visitatori, del Tabor videro il luogo dell'incontro a Daburiyeh, il villaggio ai piedi del monte, o sulla cima o sul pendio. Non mancarono quelli che lo trasportarono nei pressi di Endor, a Naim ed ai piedi del Gelboe. Alcune cronache ci sembrano interessanti.

Daniele (1106) dice: A un buon tiro di freccia ad ovest della Trasfigurazione si trova una grotta dalla quale Melchisedec uscì quando Abramo lo chiamò 'Uomo di Dio'. Daniele riprende il testo di Atanasio: "Abramo tagliò a Melchisedec. i capelli e le unghie perché era villoso". Nella grotta Melchisedec. eresse un altare e offri un sacrificio con il pane e il vino, che Dio portò in cielo. Daniele spiega che questo fu l'inizio della liturgia con il pane e il vino e non con gli azimi. Giovanni di Würzburg (1165) deve aver sentito ancora parlare di una delle antiche credenze che identificavano Melchisedec con Seni, Set, Enoc, Cani, Canaan e Mesraim figli di Cani, Giobbe, e specifica: "Melchisedec che è Seni figlio di Noè". Teodorico (1172) traduce in termini cristiani quanto restava della tradizione: "Su questo monte è stata eretta una nobile chiesa in onore del Salvatore, nella quale dei monaci servono Dio sotto la guida di un abate. Si dice che là sia stato offerto per la prima volta il sacrificio della Messa".

Inoltre, Sanuto (1310), pur non riferendosi direttamente all'incontro, ci ha lasciato una indicazione topografica: A due leghe da Nazaret c'é il Monte Tabor e oltre il Monte Tabor, verso est, c'é la valle di Shaveh, che è la valle del Re. Nel 1928 Hertzberg ricordava che una valle della Galilea sudoccidentale si chiamava ancora valle del Re, Uadi el‑Melek.

Attualmente la tradizione dell'incontro sopravvive in due posti, entrambi di proprietà greco-ortodossa: Sul Tabor, in una grotta poco a nord di Bab el‑Haua, esattamente a un buon tiro di freccia ad ovest della basilica della Trasfigurazione, e nella cappella di Adamo sottostante il Calvario.

Nella prima metà del XVII sec., Roger scrisse: "Fra il Monte Armont [Piccolo Hermon] e le montagne di Gelboe si vede in una valletta il sito dove, così dicono, Melchisedec offri pane e vino in sacrificio e dove non ci sono resti di costruzioni. La pietra su cui offrì tale sacrificio è sotto il Monte Calvario, nella cappella degli Abissini". Questa notizia spiega la duplicazione del ricordo in una maniera che può riflettere un lato della realtà.



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Il monte della Trasfigurazione

(Michele Piccirillo, ofm)







Il Vangelo non dice dove il Signore si trasfigurò. Accenna soltanto ad una alta montagna della Galilea (Mc 9,2; Mt 17.1) che nella seconda lettera di Pietro, dove l'episodio è di nuovo ricordato, diventa con chiaro riferimento teologico, la santa montagna (2Pt 1,13-18). Ma la tradizione della comunità cristiana di Palestina, fin dai primi secoli, ha dato un nome a questa montagna precisando che si trattava del Tabor. Nel "Transito della Beata Vergine Maria" uno dei tanti apocrifi relativi alla morte e assunzione della Madonna il cui nucleo è da datarsi al II-III sec. D.C., si narra che giunta l'ora dei transito della Vergine, scese Cristo dal cielo con una moltitudine di angeli e accolse l'anima della sua diletta madre: "E fu tanto lo splendore di luce e il soave profumo scrive l'autore che tutti quelli che erano là presenti caddero sulla loro faccia come caddero gli Apostoli quando Cristo si trasfigurò alla loro presenza sul monte Tabor. Così pure leggiamo nell'Apocalisse apocrifa di S. Giovanni il Teologo: "Ascese al cielo il Signore nostro Gesù Cristo, io Giovanni, mi recai solo sul monte Tabor, là dove già ci aveva mostrato la sua divinità immacolata". Tradizione fissatasi definitivamente nel IV sec. e generalizzata dalla liturgia. La Chiesa siriana ricorda la festa della Trasfigurazione come la festa del monte Tabor. Lo stesso si dica della liturgia della Chiesa Bizantina nella quale la festa è conosciuta con il nome di To Taborion.

La vigilia del 6 agosto, data accettata in tutta la chiesa orientale e occidentale per la celebrazione liturgica a ricordo della Trasfigurazione, molti fedeli di Nazaret e della Galilea salgono il monte per passarvi la festa. In una fresca sera di agosto l'ascensione a piedi diventa quasi una necessità. C'è perfino chi preferisce abbandonare la carrabile tutta tornanti, costruita all'inizio del secolo dai Francescani e prendere la

montagna di petto, per i ripidi sentieri che si inerpicano in mezzo al bosco di lecci, di pini e di carrubi. il luogo è unico e invita a simili "pazzie".

Su questa montagna un giorno Gesù condusse i suoi discepoli prediletti. Leggiamo il racconto nella parafrasi dell'Apocalisse apocrifa di Pietro: "Poi, il mio Signore Gesù Cristo, nostro re, mi disse: Andiamo sul monte santo. I suoi discepoli camminarono con lui pregando. Ed ecco che colà c'erano due uomini. Noi non fummo capaci di fissare il volto di nessuno di loro. Una luce vi si sprigionava più fulgida del sole".

Il Tabor è situato all'estremità della pianura di Esdrelon a circa 20 km a sud ovest dei lago di Tiberiade e a 7 km a sud ovest di Nazaret, in linea d'aria, e si erge solitario

sulla pianura (660 m di altezza). La sua importanza strategica, il verde che lo ricopre, la sua singolarità e il colpo d'occhio che dalla vetta si gode sulla regione circostante, hanno sempre affascinato il viaggiatore e il pellegrino e non poteva restare sconosciuto nella storia del popolo eletto.

Il Salmista (89,13) cita il Tabor e l'Ermon per esemplificare la magnificenza di Dio nella creazione. Il profeta Geremia, parlando della potenza di Nabucodonosor, re di Babilonia, lo dice stabile e sicuro come il Tabor tra i monti (Ger 46,18). Stando alla testimonianza di antichi scrittori come Flavio Giuseppe ed Eusebio, il Tabor era uno dei termini settentrionali della tribù di Issacar che comprendeva così nel suo territorio la Galilea meridionale (Gios 19,22). Come piazzaforte militare viene ricordata nei libro dei Giudici. Barak, della tribù di Neftali, per suggerimento della profetessa Debora, prende l'iniziativa contro Sisara, generale dei re cananeo di Hazor, e dal Tabor dove ha radunato i suoi uomini, si precipita sul nemico e lo mette in fuga 
(Giud. 4,Iss).Ritorna inaspettato nella storia di Gedeone, della tribù di Manasse, che libera gli lsraeliti dall'oppressione dei Madianiti in due campagne vittoriose: la prima in Cisgiordania, la seconda in Transgiordania. In questa vengono catturati anche i due capi nemici, Zebac e Salmana. Gedeone li uccide perché avevano trucidato "spiega l'autore" i suoi fratelli sul monte Tabor (Giud. 8,18).Alcuni commentatori suppongono che il Tabor sia la montagna sulla quale la tribù di Zabulon e di Issacar invitano i popoli ad offrire sacrifici di giustizia (Deut 33,18). Una supposizione che sta all'origine dell'opinione di alcuni rabbi giudei, secondo i quali il Tempio doveva essere costruito sul Tabor, se un espresso comando di

Dio non avesse stabilito altrimenti: Nel Targùm di Gerusalemme (Giud 5,5s) è immaginato il Tabor che grida all'Ermon (ben oltre i 2000 m!): "E'
su di me che Dio ha stabilito la sua gloria; è a me che essa appartiene di pieno diritto. Quando all'inizio, ai giorni di Noè, il diluvio copriva tutte le montagne, i suoi flutti non passarono né sulla mia testa, né sulle mie spalle. lo sono dunque più elevato di tutte, ed è mio privilegio legittimo di offrire a Dio il luogo dove Egli discende". Di più alcuni opinano che il Tabor fosse stato il primitivo santuario delle tribù del nord, diventato in seguito luogo di culti idolatrici. Ipotesi basata sul testo di Osea 5,1 in cui il profeta rimprovera i capi dei popolo, sacerdoti e casa regnante, perché venendo meno al loro dovere, hanno tollerato i culti illeciti a Mizpa e sul Tabor, divenendo così un laccio per Israele.

Sulla vetta ben presto i cristiani costruirono tre cappelle, li dove, come nota un pellegrino dei V sec., Pietro pieno di entusiasmo aveva gridato al Signore: "Signore 
è bene per noi stare qui. Se vuoi, farò qui tre tende: una per te, una per Mosè ed una per Elia". Distrutte, ricostruite diverse volte attraverso i secoli, oggi sono incorporate nella degna basilica costruita agli inizi dei secolo dall'architetto romano Barluzzi, dove noi abbiamo la possibilità oggi di raccoglierci in preghiera.Scendiamo nella cripta dove dei mosaici illuminati dal sole, che filtra attraverso la vetrata dell'abside, ci ricordano le altre gloriose e misteriose trasfigurazioni dei Signore: la nascita, l'Eucarestia, la morte e la resurrezione. In questo tripudio di luce e di colori rileggiamo le belle pagine che i Padri hanno scritto su questo episodio in una prospettiva di consolazione e di fiducia cristiana. La Trasfigurazione è per essi l'anticipazione dei ritorno dei Signore all'ultimo giorno, un motivo di speranza. Scrive Origene: '"La Trasfigurazione è simbolo di ciò che avverrà dopo il mondo presente" . In Cirillo di Alessandria leggiamo:" Poiché avevano udito che la nostra carne sarebbe risorta, ma non sapevano in che modo, trasfigurò la sua carne per proporre l'esempio dei suo cambiamento e per rafforzare la nostra speranza". Sempre in questa prospettiva la liturgia bizantina della festa si rivolge al Signore con queste parole: "Per indicare lo scambio che faranno i mortali con la vostra gloria, Salvatore, al tempo della vostra seconda e spaventosa venuta, voi vi siete trasformato sul monte Tabor".Il testo più semplice e bello che compendia la speranza cristiana anticipata in questa festa, resta una nota marginale all'Apocalisse apocrifa di Pietro: "Nostro Signore fece vedere nella Trasfigurazione a Pietro Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, le vesti degli ultimi giorni quando avverrà la resurrezione dell'ultimo dì".


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La Trasfigurazione nell'iconografia. immagine, catechesi, teologia







"E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce" (Mt 17,2 L'icona rappresenta il momento in cui Dio fa udire la sua voce dalla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo" (Mt 17,5). La voce del Padre rivela la verità divina e sconvolge gli Apostoli ancora del tutto umani. C'è infatti un contrasto tra la pace che avvolge Cristo, Mosè e Elia e il movimento, in basso, degli Apostoli che cadono dalla cima scoscesa del monte. Pietro, a destra, è inginocchiato; Giovanni, al centro, cade voltando le spalle alla luce; Giacomo, a sinistra, fugge e cade all'indietro. La Trasfigurazione si può dire che non è solo del Signore, ma anche degli Apostoli che, per un istante, passarono dalla carne allo Spirito". Ricevettero la grazia di vedere l'umanità di Cristo come un corpo di luce, di contemplare la sua gloria nascosta sotto la "kenosis". La Trasfigurazione preannuncia quella che attende tutti i cristiani per opera dello Spirito Santo. Gesù mostra in sé la natura umana rivestita della bellezza originale. Elia e Mosè, con in mano le tavole della Legge, rispettivamente alla destra e alla sinistra del Cristo, sono i Profeti che preannunziano la venuta del Messia. Entrambi ebbero la visione di Dio: l'uno sul monte Carmelo, l'altro sul monte Sinai. I loro mantelli hanno forme affilate, "taglienti", perché quando è proclamata "la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito... e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore" (Eb 4,12 ). Il Cristo, al centro di cerchi concentrici, che rappresentano le sfere dell'universo creato, parla con loro della sua passione gloriosa. La luce che si sprigionò sul monte Tabor è la stessa che si manifesterà nella gloria della sua seconda venuta: la Parusia, definitiva instaurazione del Regno di Dio. Per questo preparando i suoi discepoli all'importanza dell'avvenimento Cristo dice: "In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il Regno di Dio venire con potenza" (Mc 9,1). La Trasfigurazione di cui Pietro, Giacomo e Giovanni sono i testimoni è una breve apparizione dell'ottavo Giorno, della "Nuova Terra" tra noi. Per questo Pietro, strabiliato dalla visione, voleva "piantare le tende" e installarsi nella Parusia, nel Regno prima che la storia dell'economia della salvezza giungesse a compimento. Pietro non riceve risposta, perché è solo attraverso la Croce che viene la Risurrezione e il Regno. Cristo si rivela agli Apostoli nello splendore della gloria divina, perché non si scandalizzino della sua Passione ormai vicina e comprendano che essa è volontaria. Il Signore è in verità lo "splendore del Padre". La croce risplende già della luce della Pasqua. Dalla Trasfigurazione, visione di Dio, si attinge la forza per riprendere la missione apostolica. I Padri della Chiesa dicono che Dio si dona agli uomini secondo la sete che hanno di Lui, ma che il suo desiderio sarebbe di donarsi completamente, affinché i cristiani possano dissetare a loro volta il mondo. L'uomo illuminato dalla luce del Tabor conduce, attraverso di sé, non solo l'umanità ma tutta la creazione a Dio: "La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata, dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rom 8,19-21). 


L'ICONA DELLA TRASFIGURAZIONE

di Giovanna Ferraboschi

("Il Faro" luglio 2002)

La Trasfigurazione di Gesù è uno degli avvenimenti più misteriosi e significativi in cui Gesù è protagonista di fronte a due testimoni, Mosé, rappresentante della Legge di Israele, ed Elia, il profeta per eccellenza. Questi personaggi appaiono in una suggestiva visione, conversando tra di loro, a tre esterrefatti discepoli di Gesù: Pietro, Giovanni e Giacomo. Gesù si “trasfigura” davanti ai tre sul monte Tabor. Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce (Mt 17,2).

La Trasfigurazione è evento di comunione che si compie attraverso Cristo tra Vecchia e Nuova Alleanza (Mosè, Elia e i tre discepoli), tra l’uomo e tutto il creato (l’alta montagna).

Il tema fondamentale della Trasfigurazione è la luce, che risplende intensamente nel Cristo e si irraggia tutto intorno: Dio ha comunicato agli uomini la sua luce in Cristo, ha mostrato loro la Divinità di suo Figlio Gesù in terra prima della Resurrezione. E’ il mistero che rientra nella straordinarietà del disegno di Dio. E’ il tema della rivelazione trinitaria che risalta dal racconto sinottico (Mt 17,1-10; Mc 9,2-8; Lc 9,28-37).

La festa della Trasfigurazione, amatissima dall’Oriente cristiano e da lì assunta in Occidente a partire dal XII secolo, è celebrata il 6 Agosto, 40 giorni prima della festa dell’Esaltazione della S. Croce, e sottolinea la gloria di Cristo come prefigurazione della Sua Passione volontaria.

L’iconografia della Trasfigurazione conferma l’importanza della festa, è una delle Dodici Solennità del calendario liturgico di rito bizantino, sempre dipinte nelle iconostasi delle chiese orientali.

Lo “scrittore di icone” dipingeva per primo l’icona della Trasfigurazione perché essa dà significato a tutta la scrittura iconica poiché, come afferma lo studioso Florenskij, “a fondamento dell’icona c’è un’esperienza di luce e compito dell’icona è di riflettere la luce del Tabor”. Tutta l’icona della Trasfigurazione è luce, non vi è ombra, la luce però non è prodotta dalle consuete sorgenti luminose, ma dalla presenza abbagliante di Cristo. Attraverso la luce Cristo manifesta lo splendore della Gloria divina prima della dura prova della Croce.

Sin dalle origini lo schema iconografico riproduce il momento centrale del racconto sinottico: i due gruppi laterali mostrano rispettivamente la salita e la discesa dal Tabor, mentre nella zona superiore il Cristo campeggia tra Mosè ed Elia, i grandi veggenti dell’Antico Testamento, che sul Sinai e sul monte Carmelo, ebbero la visione di Dio, mentre i discepoli sbigottiti dalla visione cadono a terra ai loro piedi.

Accostiamoci all’immagine e, seguendo il principio per cui una icona non si guarda ma si contempla, cerchiamo di coglierne il significato. Questa icona era l’immagine patronale della cattedrale della Trasfigurazione di Pereslavl’-Zalesskij (Mosca). Dipinta nel 1403 si trova ora alla galleria Tret’jakov a Mosca. In essa troviamo i temi fondamentali dell’ascensione fisica e dell’elevazione spirituale dell’uomo, cui viene concessa la grazia di ammirare con i propri occhi l’intensità e la forza della luce trinitaria e la rivelazione del mistero pasquale. Per questo l’artista introduce nella composizione le scene dell’ascesa e della discesa di Cristo e dei discepoli dal monte. Sebbene il Tabor sia un monte dalla cima tondeggiante, nella scena della Trasfigurazione viene solitamente raffigurato in forma di tre picchi rocciosi e quindi assimilato al Sinai. Le due grotte sul pendio del monte, contrassegnate da arbusti, alludono alla permanenza di Mosè e di Elia sul Sinai. Monti e colline, in quanto luoghi elevati, sono simboli di realtà positive in contrapposizione ai luoghi bassi che indicano materialità e peccato. Elia (Profeta), Mosè (Legge), Cristo (perfezione del patto di Dio) sono posti appunto su tre cime di una stessa montagna alle cui pendici stanno gli Apostoli (uomini). La montagna scoscesa e difficile da scalare è quella della conoscenza di Dio, è il luogo della rivelazione, dove Dio parla al Suo popolo.

Al centro dell’icona, sfolgorante di luce, è il Cristo. Le Sue vesti sono quelle bianche della Resurrezione. Il biancore abbagliante delle vesti e dei raggi luminosi, che sprigionano da Gesù fino a fuoriuscire dall’immensità dei cieli (i cerchi concentrici dietro il Cristo), oscura l’oro del fondo e smorza la vivezza della mandorla rotonda azzurro chiaro. Da Cristo partono tre raggi, che rappresentano la Trinità, e colpiscono i discepoli, i qualicaddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore (Mt 17,6). Osserviamo come l’iconografo ha inteso differenziare la luce della divinità e quella che hanno visto gli Apostoli: il Signore è illuminato da una luce spirituale (bianca) mentre la luce vista dai discepoli (luce taborica) è resa con l’azzurro chiaro, essa è solo un’ombra della luce inaccessibile in cui abita il Signore (1Tm 6, 16). Nella mano sinistra Gesù tiene il rotolo, la ricevuta del peccato che egli è venuto a riscattare e sostituire con la Grazia. Il rotolo è in corrispondenza della tavola della Legge tenuta in mano da Mosè. La figura di Mosè è quella di destra, con la barba corta e il volto giovanile; reclinato leggermente nella persona, in atto di deferenza, sembra porgere al Cristo il volume della Legge. Il personaggio di sinistra è Elia, ha i capelli e la barba lunga, con la mano destra indica il Salvatore, il soggetto delle sue profezie. Tutta la metà inferiore dell’icona è occupata dai tre apostoli riversi a terra, incapaci di sostenere il bagliore divino.Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con Lui (Lc 9,32). L’iconografo ha colto il momento in cui Pietro, colui che ha la mano levata, si rivolge a Gesù:Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia (Mc 17,4).

Termino con un pensiero dalla lettera pastorale 1999-2000 del Cardinale C. M. Martini “Quale bellezza salverà il mondo?”, che tratta della Trasfigurazione: E’ bello scommettere la propria esistenza su Colui che non solo è la Verità in persona, che non solo è il Bene più grande, ma è anche il solo che ci rivela la bellezza divina di cui il nostro cuore ha profonda nostalgia e intenso bisogno. Al cuore della Trasfigurazione vi è dunque la bellezza del dono di Dio da accogliere e vivere senza riserve.


Icona della Trasfigurazione


La liturgia, nella seconda domenica di Quaresima, propone alla nostra meditazione e alla nostra contemplazione il Vangelo della Trasfigurazione,

E' un passo molto ricco, dalle mille sfumature, del quale non è possibile in questa sede fare una analisi dettagliata e approfondita. Raccogliamo solo alcune suggestioni che possono esserci utili per la riflessione personale, soprattutto come stimolo a far sì che l'esperienza taborica raggiunga anche noi, dentro le precise, concrete e quotidiane circostanze nelle quali ci troviamo al presente.

Per contestualizzare...

Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che sono stati sempre scelti come testimoni privilegiati dei momenti più intimi di Gesù, dall'inizio della vita pubblica fino alla sua manifestazione suprema, "la sua ora", come continuamente la definì lo stesso Giovanni nel suo Vangelo e che nell'Orto degli Ulivi ebbe un momento di particolare intensità. Dice infatti Marco - che ha scritto quanto ha udito raccontare da Pietro, di cui era discepolo - nel suo Vangelo: "Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate""(14,32-34).
Dunque Gesù, anche questa volta, prende con sé questi suoi tre discepoli e li conduce con sé sul monte, il monte Tabor.
E' proprio quella del MONTE la prima suggestione che vogliamo raccogliere.
Nella tradizione biblica esso è un luogo particolarmente sacro.
Su di esso venivano infatti offerti i sacrifici, come viene detto ad esempio nel primo Libro di Samuele: "Mentre essi salivano il pendio della città, trovarono ragazze che uscivano ad attingere acqua e chiesero loro: "È qui il veggente?". Quelle risposero dicendo: "Sì, c'è; ecco, vi ha preceduto di poco: ora, proprio ora è rientrato in città, perché oggi il popolo celebra un sacrificio sull'altura" (9,11-12); anche nel primo Libro dei Re si dice: "Il re andò a Gàbaon per offrirvi sacrifici perché ivi sorgeva la più grande altura. Su quell'altare Salomone offrì mille olocausti"(3,4).
Iahwè stesso sul monte manifesta la sua gloria: basti pensare all'esperienza di Mosè sul Sinai (un passo fra molti: "Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte.
Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì."
 [Es19,17-20]), ma anche a quella di Elia, fuggiasco a causa di Gezabele, che sull'Oreb fa esperienza del suo Dio ("Elia si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: "Che fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita". Gli fu detto: "Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore". Ecco, il Signore passò".[1Re 19,8-11a]).
Un Dio dunque, quello degli Israeliti, che i nemici di questi ultimi definiscono addirittura "dio dei monti": si dice infatti nel primo Libro dei Re: "Ma i servi del re di Aram dissero a lui: "Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori"" (20,23).
Lo stesso Gesù fa della montagna un luogo privilegiato: su di essa infatti sceglie i dodici ("Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui": Mc3,12), sulla montagna fa il discorso che sarà la sua "magna charta" ("Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: "Beati i poveri in spirito…""[Mt. 5,1ss.]), sul monte si ritira a pregare ("Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù" [Mt 14,23]).
La scelta dunque di condurre Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte non è dunque casuale, ma è un indizio capace di farci comprendere che ciò che Gesù intende rivelare riguarda la sua divinità, il suo essere "vero Dio", esattamente come rivelazione di Dio fu quella sull'Oreb.
Una seconda suggestione viene offerta a noi dal simbolo della LUCE, della quale Gesù si mostra vestito.
Mentre a Mosè Dio si mostra come fuoco che arde nel roveto senza bruciarlo (Es 3,1ss.) e a Elia come "mormorio di vento leggero" (1Re 19,12), sul Tabor la teofania assume l'elemento della luce.
In realtà questa immagine era già ben conosciuta in Israele, come viene detto nel Salmo 103: "Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto" (103,1-2a).
Anche la luce è la dimora e la veste di Dio.
In Gesù tale luce è velata dal suo essere umano, dalla sua corporeità; trasfigurandosi davanti ai tre, Egli rivela la sua intima realtà, si svela. Gesù dimostra di essere sì vero uomo, ma anche e pienamente vero Dio.
Bene sembra coglierlo Giovanni, che nel prologo del suo Vangelo dice: "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (1,9) e nella sua prima Lettera ribadisce: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (1Gv 1,5).
La terza suggestione che raccogliamo è quella della NUBELUMINOSA DA CUI ESCE UNA VOCE.
Come non ripensare ancora a Mosè? Dice il Libro dell'Esodo: "Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (24,15.17).
Anche a Maria è donata questa esperienza: "Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio"" (Lc 1,35).
Per lo stesso Gesù non è nuova l'esperienza della voce dal cielo, dal momento che il Padre aveva fatto udire la sua voce già il giorno del battesimo del Figlio nel fiume Giordano: "Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,21-22).
Si tratta dunque di una vera e propria teofania e questa volta a ben coglierla sembra essere Pietro, il quale ritiene ormai inutile andare alla festa dei tabernacoli a Gerusalemme (festa che celebra la sovrana regalità di Dio, come viene descritto in Zac 14,16-19), perché la "gloria di Dio" si è loro manifestata lì, sul Tabor: Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti - per dire l'intera Scrittura Santa - lo confermano! Questa esperienza lo segna a tal punto da scrivere nella sua seconda Lettera: "Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori" (2Pt 1,16-19).
Perché mai però Gesù ha voluto mostrare ai tre discepoli la sua gloria? Perché ha voluto far vivere loro questa esperienza?
La risposta ci viene fornita dalla posizione stessa in cui è posto questo brano evangelico.
In tutti e tre i sinottici infatti (Mt, Mc e Lc) il racconto della trasfigurazione è collocato tra il primo e il secondo annuncio della passione.
Da un lato dunque sembra essere un assaggio della luce gloriosa della risurrezione - come è detto in Luca: "Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato". (24,1-6a)" - e dall'altro sembra essere uno strumento che Gesù fornisce loro in anticipo perché non si smarriscano quando l'ora delle tenebre giungerà e con la sua potenza oscura sembrerà travolgere ogni cosa, persino lo stesso Gesù: "Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni? ", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ""(Mc 15,33-34).
Anche i Santi Padri confermano questo tipo di interpretazione.
S. Leone Magno, nel suo 51° Discorso, afferma infatti:
"Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall'animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l'umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo. Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della S. Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel capo
".

Quale teologia?

Quale visione di Dio e dell' uomo scaturiscono perciò dalla contemplazione dell'icona della trasfigurazione?
I nostri fratelli ortodossi amano parlare di "TEOLOGIA DELLA GLORIA-LUCE".
L'umanità visibile di Gesù infatti è l'icona della sua divinità invisibile; come dice S. Giovanni Damasceno, è "il visibile dell'invisibile" ("De imaginibus oratio" I, 11, PG 94,1241 BC). Gesù dunque appare come l'immagine di Dio e dell'uomo al tempo stesso, l'icona del Cristo totale: Dio-Uomo.
Questa funzione rivelatrice che possiede l'umanità di Gesù diviene la verità di ogni essere umano: l'uomo infatti non è vero e non è reale se non nella misura in cui riflette il celeste.
Gesù realizza, compie l'immagine vera dell'uomo, la porta alla perfezione e, rendendola pura, la fa partecipare alla Bellezza divina. Questo è vero e possibile per ogni persona umana; S. Paolo, nella sua 2° Lettera ai Corinzi, afferma infatti: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore"(3,18).
S. Gregorio Nazianzeno, dice che "l'uomo ha ricevuto l'ordine di divenire Dio secondo la grazia" ("In laudem Basilici Magni, PG 36, 560 A) perché: "essendosi avvicinata alla luce, l'anima si trasforma in luce" (S. Gregorio di Nissa, "In cantica canticorum homilia 5, PG 44, 869A).
Questa vocazione alla gloria è, per i Padri, donata a ogni uomo con il Battesimo; l'indossare le tuniche bianche infatti è un coprirsi delle vesti luminose di Cristo, quelle stesse che Egli ha mostrato nella sua Trasfigurazione.
Perché ciò si realizzi, ognuno è però chiamato a dare il suo libero assenso e a partecipare in modo attivo a questa personale trasfigurazione.
Ma come è possibile fare in modo che ciò si compia?
Per l'oriente cristiano la via è quella dell'ascesi contemplativa.
Essere "in stato di deificazione" significa infatti contemplare la luce increata e lasciarsene penetrare, è riprodurre nel proprio essere il mistero cristologico. Come afferma S. Massimo, "è riunire nell'amore la natura creata alla natura increata, facendole apparire nell'unità mediante l'acquisizione della grazia" (Ambiguorum liber, PG 91, 1308B).

Quale il sentiero su cui camminare?

Abbiamo già detto che la via è quella della ascesi contemplativa., tuttavia molto spesso non si sa quali passi concreti compiere per ascendere.
La tradizione ortodossa ci dona un possibile sentiero sul quale camminare, che è quello dell'ESICASMO e della PREGHIERA DEL CUORE.
L'uomo infatti è sospinto verso il mistero da ogni evento della vita e della storia, ma perché la preghiera sia "preghiera cristiana" è necessario che si realizzi un rapporto personale di comunione tra l'uomo e il Padre, per Cristo, nel fuoco dello Spirito di amore. L'itinerario ascetico e spirituale consiste allora nel distaccare la coscienza dalle sue manifestazioni illusorie per congiungerla al cuore; il fine è quello di ripristinare, nel fuoco della grazia dello Spirito, l'unità dell'uomo totale, frammentato a causa del peccato originale.
Colui che vuol avanzare nella strada della preghiera interiore deve rientrare in se stesso, trovare "il Regno dei Cieli" dentro di sé, per poter attraversare, in compagnia dello Spirito Santo, la misteriosa frontiera che separa il creato dall'increato.
L'uomo, creato unitario, si esprime nel corpo, nella mente e nello spirito. La preghiera perciò non può non coinvolgere tutte e tre queste dimensioni dell'essere.
L'esicasmo, sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione dell'uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante, divide il cammino della preghiera del cuore in tre gradi.
La preghiera vocale coinvolge l'uomo nella sua corporeità, perché coinvolge le labbra, la lingua, la postura, la voce. I Padri la considerano come il "primo approccio alla carne di Gesù". Le parole vengono pronunciate ad alta voce, oppure sommessamente, o silenziosamente dalle labbra e dalla lingua. Mentre si recitano, l'attenzione è chiamata a sostare sul significato delle parole pronunciate, che devono essere piuttosto costanti e ripetitive (tipica è quella adottata anche dal Pellegrino Russo: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore"). Anch'essa necessita di un cammino di crescita, che consiste in una sempre maggiore sobrietà e sintesi. Solo così l'anima può progredire verso un'unione più intima e personale con Dio.
La preghiera mentale fa invece appello all'attività intellettuale e riflessiva. Più sviluppata in Occidente, in Oriente è considerata come una fase di passaggio che serve unicamente come preparazione alla "preghiera del cuore". Si ha quando la mente ripete la formula senza il concorso delle labbra o della lingua; l'interiorità è cresciuta, c'è una maggiore facilità di attenzione e di concentrazione. La preghiera spesso assume un suo ritmo proprio, a volte "canta" in noi spontaneamente, senza alcun atto cosciente della volontà, come testimonia lo starets Partenio: "Abbiamo in noi un piccolo ruscello che mormora".
Quando la preghiera diventa, come dice Teofanie il Recluso, "un sospiro del cuore verso Dio", allora si è nella autentica preghiera spirituale. Solo questa è veramente "preghiera del cuore", cioè orazione di tutto l'uomo, corpo, mente e spirito. La preghiera qui non è più una serie di atti, ma uno stato contemplativo. La preghiera si fa strada nel cuore e da lì permea tutta la personalità. Il suo ritmo si identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge ad essere incessante. Si compie quanto S. Paolo afferma nella sua 1° Lettera ai Tessalonicesi:"Pregate incessantemente" (5,17). Questa "preghiera di Gesù" che staziona costantemente nel cuore è fonte di pace e di gioia; all'orante è fatta la grazia di contemplare la luce taborica, che altro non è che una pregustazione di quella della Parusia, come anche S. Gregorio Palamas afferma quando dice che la luce del Tabor, la luce contemplata dai santi e la luce del secolo futuro sono identiche.
L'uomo trasfigurato compie così anche quella che è la sua "missione ontologica", secondo il comandamento di Gesù: "Voi siete la luce del mondo" (Mt5,14).

Dalla contemplazione all'azione

Nel Vangelo di Matteo che stiamo meditando la conclusione non è la proposta di Pietro di restare sul monte, ma la discesa nella valle, il ritorno alla vita quotidiana, alla storia. La luce di cui sono stati fatti partecipi gli apostoli è infatti quella taborica, non quella escatologica: questo significa che la missione di cui sono investiti gli apostoli deve compiersi ancora attraverso le pieghe della storia terrena.
Non diverso può essere per coloro che accettano di compiere il cammino di ascesi contemplativa e che ricevono da Dio la grazia della visione di questa luce.
Anche per questi ultimi però è riservata una missione, una missione certamente di carità, che però può assumere mille volti, mille espressioni, mille sfaccettature, mille sfumature.
Per restare alla scuola dei nostri fratelli ortodossi, accogliamo la provocazione che ci viene da coloro che, per mandato, sono iconografi.

Nella tradizione bizantina non esiste quella che, in Occidente, viene chiamata "arte religiosa", cioè l'espressione del sentimento religioso attraverso la pittura, obbediente alla sensibilità, al gusto, alla forma del tempo. In Oriente si parla di "arte liturgica", cioè di una modalità di esprimere il dato teologico non come è recepito dall'artista, ma secondo la verità della fede, proclamata dalla Chiesa. E' il dato teologico che emerge, non il dato mediato da chi dipinge. L'icona è espressione di questa "arte liturgica".

Considerata un "sacramentale", essa trae tutto il suo valore teofanico dalla sua partecipazione al "totalmente altro" mediante la rassomiglianza; l'icona non può racchiudere niente in se stessa, ma è una sorta di "schema di irradiamento". E' chiamata non a suscitare l'emozione - come è per l'arte religiosa Occidentale - ma il senso mistico, l'attesa della Parrusia del Trascendente di cui essa testimonia la presenza.
Nella tradizione ortodossa nessuno si autoproclama iconografo. Scrive una icona solo chi riceve il mandato e la benedizione dall'autorità ecclesiale, dopo aver lungamente pregato e digiunato. Proprio per questo motivo la maggioranza degli iconografi - almeno un tempo! - erano monaci… Nel Monastero ogni iconografo-monaco cominciava la sua "arte divina" dipingendo l'icona della Trasfigurazione. Questa iniziazione vivente e diretta insegnava innanzitutto che l'icona è scritta non tanto con i colori, quanto con la luce taborica. Secondo la tradizione infatti la presenza conduttrice dello Spirito Santo si manifesta nella luminosità dell'icona stessa: è la presenza dello spirito che sopprime ogni sorgente definita di luce nella composizione iconografica (questo anche il motivo dello sfondo dorato).
Non è possibile in questa sede fare una analisi del linguaggio iconografico: accontentiamoci di cogliere solo qualche suggerimento derivante dallo sguardo posato sull'ICONA DELLA TRASFIGURAZIONE della Chiesa di Berat, icona del secolo XVI.
Essa mostra i discepoli che cadono giù dalla cima scoscesa, atterrati e atterriti dalla visione sfolgorante.
Pietro, a sinistra, inginocchiato, alza la mano per proteggersi dalla luce; Giovanni, in mezzo, cade voltando le spalle alla luce; Giacomo, a destra, fugge.
Il contrasto è sorprendente: esso contrappone il Cristo come immobile nella Pace trascendente che emana da lui, che avvolge le figure di Mosè e di Elia e forma il cerchio perfetto dell'aldilà, e il dinamismo movimentato degli apostoli, ancora del tutto umani davanti alla Rivelazione che li sconvolge e li atterra. Questo contrasto ben sottolinea il carattere increato della luce della Trasfigurazione.
Tornando a posare gli occhi su Pietro, consideriamo il fatto che vuole piantare le tende sul monte: è, il suo, un volersi installare nella Parusia prima della fine della storia. S. Gregorio Palamas bene ha colto questa tentazione dell'apostolo, al punto che spesso nei suoi insegnamenti ritorna sul senso della storia. Il mondo tutto intero infatti è destinato al Regno, ma esso deve essere trasfigurato in una "nuova terra". Conformemente a quanto insegna S. Paolo nel cap.8 della sua Lettera ai Romani - in cui si dice che la creazione geme e soffre nella attesa di essere essa pure liberata, salvata dall'uomo cristificato -, dice:"L'uomo vero, quando la luce gli serve da via, si eleva sulle cime eterne; egli contempla le realtà metacosmiche, senza separarsi dalla materia che l'accompagna fin dal principio… conducendo a Dio, attraverso se stesso, tutto l'insieme della creazione".
Dopo una breve irruzione dell'Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la missione apostolica, ritrovare il mondo e discendere nel suo inferno.
Gesù parla con Mosè ed Elia della sua Passione.
Contemplare la luce taborica e poi scendere nel mondo significa porre i propri passi dietro a quelli di Cristo, il cui Amore è sacrificale: sacrificio redentivo il Suo, che chiama noi a partecipazione.
Gli iconografi attraverso il colore, noi attraverso modalità nostre proprie, tutti chiamati a godere della luce del Tabor, fonte di certezza nel buio del dolore, perché ogni morte già risplende della luce del mattino di Pasqua.



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Icona della Trasfigurazione

La liturgia, nella seconda domenica di Quaresima, propone alla nostra meditazione e alla nostra contemplazione il Vangelo della Trasfigurazione,
E' un passo molto ricco, dalle mille sfumature, del quale non è possibile in questa sede fare una analisi dettagliata e approfondita. Raccogliamo solo alcune suggestioni che possono esserci utili per la riflessione personale, soprattutto come stimolo a far sì che l'esperienza taborica raggiunga anche noi, dentro le precise, concrete e quotidiane circostanze nelle quali ci troviamo al presente.
Per contestualizzare...
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che sono stati sempre scelti come testimoni privilegiati dei momenti più intimi di Gesù, dall'inizio della vita pubblica fino alla sua manifestazione suprema, "la sua ora", come continuamente la definì lo stesso Giovanni nel suo Vangelo e che nell'Orto degli Ulivi ebbe un momento di particolare intensità. Dice infatti Marco - che ha scritto quanto ha udito raccontare da Pietro, di cui era discepolo - nel suo Vangelo: "Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate"" (14,32-34).
Dunque Gesù, anche questa volta, prende con sé questi suoi tre discepoli e li conduce con sé sul monte, il monte Tabor.
E' proprio quella del MONTE la prima suggestione che vogliamo raccogliere.
Nella tradizione biblica esso è un luogo particolarmente sacro.
Su di esso venivano infatti offerti i sacrifici, come viene detto ad esempio nel primo Libro di Samuele: "Mentre essi salivano il pendio della città, trovarono ragazze che uscivano ad attingere acqua e chiesero loro: "È qui il veggente?". Quelle risposero dicendo: "Sì, c'è; ecco, vi ha preceduto di poco: ora, proprio ora è rientrato in città, perché oggi il popolo celebra un sacrificio sull'altura" (9,11-12); anche nel primo Libro dei Re si dice: "Il re andò a Gàbaon per offrirvi sacrifici perché ivi sorgeva la più grande altura. Su quell'altare Salomone offrì mille olocausti" (3,4).
Iahwè stesso sul monte manifesta la sua gloria: basti pensare all'esperienza di Mosè sul Sinai (un passo fra molti: 
"Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte.
Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì."
 [Es19,17-20]), ma anche a quella di Elia, fuggiasco a causa di Gezabele, che sull'Oreb fa esperienza del suo Dio ("Elia si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: "Che fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita". Gli fu detto: "Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore". Ecco, il Signore passò". [1Re 19,8-11a]).
Un Dio dunque, quello degli Israeliti, che i nemici di questi ultimi definiscono addirittura "dio dei monti": si dice infatti nel primo Libro dei Re: "Ma i servi del re di Aram dissero a lui: "Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori"" (20,23).
Lo stesso Gesù fa della montagna un luogo privilegiato: su di essa infatti sceglie i dodici ("Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui": Mc3,12), sulla montagna fa il discorso che sarà la sua "magna charta" ("Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: "Beati i poveri in spirito…"" [Mt. 5,1ss.]), sul monte si ritira a pregare ("Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù" [Mt 14,23]).
La scelta dunque di condurre Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte non è dunque casuale, ma è un indizio capace di farci comprendere che ciò che Gesù intende rivelare riguarda la sua divinità, il suo essere "vero Dio", esattamente come rivelazione di Dio fu quella sull'Oreb.
Una seconda suggestione viene offerta a noi dal simbolo della LUCE, della quale Gesù si mostra vestito.
Mentre a Mosè Dio si mostra come fuoco che arde nel roveto senza bruciarlo (Es 3,1ss.) e a Elia come "mormorio di vento leggero" (1Re 19,12), sul Tabor la teofania assume l'elemento della luce.
In realtà questa immagine era già ben conosciuta in Israele, come viene detto nel Salmo 103: "Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto" (103,1-2a).
Anche la luce è la dimora e la veste di Dio.
In Gesù tale luce è velata dal suo essere umano, dalla sua corporeità; trasfigurandosi davanti ai tre, Egli rivela la sua intima realtà, si svela. Gesù dimostra di essere sì vero uomo, ma anche e pienamente vero Dio.
Bene sembra coglierlo Giovanni, che nel prologo del suo Vangelo dice:"Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (1,9) e nella sua prima Lettera ribadisce: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (1Gv 1,5).
La terza suggestione che raccogliamo è quella della NUBE LUMINOSA DA CUI ESCE UNA VOCE.
Come non ripensare ancora a Mosè? Dice il Libro dell'Esodo: "Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (24,15.17).
Anche a Maria è donata questa esperienza: "Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio""(Lc 1,35).
Per lo stesso Gesù non è nuova l'esperienza della voce dal cielo, dal momento che il Padre aveva fatto udire la sua voce già il giorno del battesimo del Figlio nel fiume Giordano: "Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,21-22).
Si tratta dunque di una vera e propria teofania e questa volta a ben coglierla sembra essere Pietro, il quale ritiene ormai inutile andare alla festa dei tabernacoli a Gerusalemme (festa che celebra la sovrana regalità di Dio, come viene descritto in Zac 14,16-19), perché la "gloria di Dio" si è loro manifestata lì, sul Tabor: Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti - per dire l'intera Scrittura Santa - lo confermano! Questa esperienza lo segna a tal punto da scrivere nella sua seconda Lettera: "Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori" (2Pt 1,16-19).
Perché mai però Gesù ha voluto mostrare ai tre discepoli la sua gloria? Perché ha voluto far vivere loro questa esperienza?
La risposta ci viene fornita dalla posizione stessa in cui è posto questo brano evangelico.
In tutti e tre i sinottici infatti (Mt, Mc e Lc) il racconto della trasfigurazione è collocato tra il primo e il secondo annuncio della passione.
Da un lato dunque sembra essere un assaggio della luce gloriosa della risurrezione - come è detto in Luca: "Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato". (24,1-6a)" - e dall'altro sembra essere uno strumento che Gesù fornisce loro in anticipo perché non si smarriscano quando l'ora delle tenebre giungerà e con la sua potenza oscura sembrerà travolgere ogni cosa, persino lo stesso Gesù: "Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni? ", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ""(Mc 15,33-34).
Anche i Santi Padri confermano questo tipo di interpretazione.
S. Leone Magno, nel suo 51° Discorso, afferma infatti:
"
Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall'animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l'umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo. Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della S. Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel capo
".
Quale teologia?
Quale visione di Dio e dell' uomo scaturiscono perciò dalla contemplazione dell'icona della trasfigurazione?
I nostri fratelli ortodossi amano parlare di "TEOLOGIA DELLA GLORIA-LUCE".
L'umanità visibile di Gesù infatti è l'icona della sua divinità invisibile; come dice S. Giovanni Damasceno, è "il visibile dell'invisibile" ("De imaginibus oratio" I, 11, PG 94,1241 BC). Gesù dunque appare come l'immagine di Dio e dell'uomo al tempo stesso, l'icona del Cristo totale: Dio-Uomo.
Questa funzione rivelatrice che possiede l'umanità di Gesù diviene la verità di ogni essere umano: l'uomo infatti non è vero e non è reale se non nella misura in cui riflette il celeste.
Gesù realizza, compie l'immagine vera dell'uomo, la porta alla perfezione e, rendendola pura, la fa partecipare alla Bellezza divina. Questo è vero e possibile per ogni persona umana; S. Paolo, nella sua 2° Lettera ai Corinzi, afferma infatti: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (3,18).
S. Gregorio Nazianzeno, dice che "l'uomo ha ricevuto l'ordine di divenire Dio secondo la grazia" ("In laudem Basilici Magni, PG 36, 560 A) perché: "essendosi avvicinata alla luce, l'anima si trasforma in luce" (S. Gregorio di Nissa, "In cantica canticorum homilia 5, PG 44, 869A).
Questa vocazione alla gloria è, per i Padri, donata a ogni uomo con il Battesimo; l'indossare le tuniche bianche infatti è un coprirsi delle vesti luminose di Cristo, quelle stesse che Egli ha mostrato nella sua Trasfigurazione.
Perché ciò si realizzi, ognuno è però chiamato a dare il suo libero assenso e a partecipare in modo attivo a questa personale trasfigurazione.
Ma come è possibile fare in modo che ciò si compia?
Per l'oriente cristiano la via è quella dell'ascesi contemplativa.
Essere "in stato di deificazione" significa infatti contemplare la luce increata e lasciarsene penetrare, è riprodurre nel proprio essere il mistero cristologico. Come afferma S. Massimo, "è riunire nell'amore la natura creata alla natura increata, facendole apparire nell'unità mediante l'acquisizione della grazia" (Ambiguorum liber, PG 91, 1308B).
Quale il sentiero su cui camminare?
Abbiamo già detto che la via è quella della ascesi contemplativa., tuttavia molto spesso non si sa quali passi concreti compiere per ascendere.
La tradizione ortodossa ci dona un possibile sentiero sul quale camminare, che è quello dell'ESICASMO e della PREGHIERA DEL CUORE.
L'uomo infatti è sospinto verso il mistero da ogni evento della vita e della storia, ma perché la preghiera sia "preghiera cristiana" è necessario che si realizzi un rapporto personale di comunione tra l'uomo e il Padre, per Cristo, nel fuoco dello Spirito di amore. L'itinerario ascetico e spirituale consiste allora nel distaccare la coscienza dalle sue manifestazioni illusorie per congiungerla al cuore; il fine è quello di ripristinare, nel fuoco della grazia dello Spirito, l'unità dell'uomo totale, frammentato a causa del peccato originale.
Colui che vuol avanzare nella strada della preghiera interiore deve rientrare in se stesso, trovare "il Regno dei Cieli" dentro di sé, per poter attraversare, in compagnia dello Spirito Santo, la misteriosa frontiera che separa il creato dall'increato.
L'uomo, creato unitario, si esprime nel corpo, nella mente e nello spirito. La preghiera perciò non può non coinvolgere tutte e tre queste dimensioni dell'essere.
L'esicasmo, sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione dell'uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante, divide il cammino della preghiera del cuore in tre gradi.
La preghiera vocale coinvolge l'uomo nella sua corporeità, perché coinvolge le labbra, la lingua, la postura, la voce. I Padri la considerano come il "primo approccio alla carne di Gesù". Le parole vengono pronunciate ad alta voce, oppure sommessamente, o silenziosamente dalle labbra e dalla lingua. Mentre si recitano, l'attenzione è chiamata a sostare sul significato delle parole pronunciate, che devono essere piuttosto costanti e ripetitive (tipica è quella adottata anche dal Pellegrino Russo: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore"). Anch'essa necessita di un cammino di crescita, che consiste in una sempre maggiore sobrietà e sintesi. Solo così l'anima può progredire verso un'unione più intima e personale con Dio.
La preghiera mentale fa invece appello all'attività intellettuale e riflessiva. Più sviluppata in Occidente, in Oriente è considerata come una fase di passaggio che serve unicamente come preparazione alla "preghiera del cuore". Si ha quando la mente ripete la formula senza il concorso delle labbra o della lingua; l'interiorità è cresciuta, c'è una maggiore facilità di attenzione e di concentrazione. La preghiera spesso assume un suo ritmo proprio, a volte "canta" in noi spontaneamente, senza alcun atto cosciente della volontà, come testimonia lo starets Partenio: "Abbiamo in noi un piccolo ruscello che mormora".
Quando la preghiera diventa, come dice Teofanie il Recluso, "un sospiro del cuore verso Dio", allora si è nella autentica preghiera spirituale. Solo questa è veramente "preghiera del cuore", cioè orazione di tutto l'uomo, corpo, mente e spirito. La preghiera qui non è più una serie di atti, ma uno stato contemplativo. La preghiera si fa strada nel cuore e da lì permea tutta la personalità. Il suo ritmo si identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge ad essere incessante. Si compie quanto S. Paolo afferma nella sua 1° Lettera ai Tessalonicesi: "Pregate incessantemente" (5,17). Questa "preghiera di Gesù" che staziona costantemente nel cuore è fonte di pace e di gioia; all'orante è fatta la grazia di contemplare la luce taborica, che altro non è che una pregustazione di quella della Parusia, come anche S. Gregorio Palamas afferma quando dice che la luce del Tabor, la luce contemplata dai santi e la luce del secolo futuro sono identiche.
L'uomo trasfigurato compie così anche quella che è la sua "missione ontologica", secondo il comandamento di Gesù: "Voi siete la luce del mondo" (Mt5,14).
Dalla contemplazione all'azione
Nel Vangelo di Matteo che stiamo meditando la conclusione non è la proposta di Pietro di restare sul monte, ma la discesa nella valle, il ritorno alla vita quotidiana, alla storia. La luce di cui sono stati fatti partecipi gli apostoli è infatti quella taborica, non quella escatologica: questo significa che la missione di cui sono investiti gli apostoli deve compiersi ancora attraverso le pieghe della storia terrena.
Non diverso può essere per coloro che accettano di compiere il cammino di ascesi contemplativa e che ricevono da Dio la grazia della visione di questa luce.
Anche per questi ultimi però è riservata una missione, una missione certamente di carità, che però può assumere mille volti, mille espressioni, mille sfaccettature, mille sfumature.
Per restare alla scuola dei nostri fratelli ortodossi, accogliamo la provocazione che ci viene da coloro che, per mandato, sono iconografi.
Nella tradizione bizantina non esiste quella che, in Occidente, viene chiamata "arte religiosa", cioè l'espressione del sentimento religioso attraverso la pittura, obbediente alla sensibilità, al gusto, alla forma del tempo. In Oriente si parla di "arte liturgica", cioè di una modalità di esprimere il dato teologico non come è recepito dall'artista, ma secondo la verità della fede, proclamata dalla Chiesa. E' il dato teologico che emerge, non il dato mediato da chi dipinge. L'icona è espressione di questa "arte liturgica".
Considerata un "sacramentale", essa trae tutto il suo valore teofanico dalla sua partecipazione al "totalmente altro" mediante la rassomiglianza; l'icona non può racchiudere niente in se stessa, ma è una sorta di "schema di irradiamento". E' chiamata non a suscitare l'emozione - come è per l'arte religiosa Occidentale - ma il senso mistico, l'attesa della Parrusia del Trascendente di cui essa testimonia la presenza.
Nella tradizione ortodossa nessuno si autoproclama iconografo. Scrive una icona solo chi riceve il mandato e la benedizione dall'autorità ecclesiale, dopo aver lungamente pregato e digiunato. Proprio per questo motivo la maggioranza degli iconografi - almeno un tempo! - erano monaci… Nel Monastero ogni iconografo-monaco cominciava la sua "arte divina" dipingendo l'icona della Trasfigurazione. Questa iniziazione vivente e diretta insegnava innanzitutto che l'icona è scritta non tanto con i colori, quanto con la luce taborica. Secondo la tradizione infatti la presenza conduttrice dello Spirito Santo si manifesta nella luminosità dell'icona stessa: è la presenza dello spirito che sopprime ogni sorgente definita di luce nella composizione iconografica (questo anche il motivo dello sfondo dorato).
Non è possibile in questa sede fare una analisi del linguaggio iconografico: accontentiamoci di cogliere solo qualche suggerimento derivante dallo sguardo posato sull'ICONA DELLA TRASFIGURAZIONE della Chiesa di Berat, icona del secolo XVI.
Essa mostra i discepoli che cadono giù dalla cima scoscesa, atterrati e atterriti dalla visione sfolgorante.
Pietro, a sinistra, inginocchiato, alza la mano per proteggersi dalla luce; Giovanni, in mezzo, cade voltando le spalle alla luce; Giacomo, a destra, fugge.
Il contrasto è sorprendente: esso contrappone il Cristo come immobile nella Pace trascendente che emana da lui, che avvolge le figure di Mosè e di Elia e forma il cerchio perfetto dell'aldilà, e il dinamismo movimentato degli apostoli, ancora del tutto umani davanti alla Rivelazione che li sconvolge e li atterra. Questo contrasto ben sottolinea il carattere increato della luce della Trasfigurazione.
Tornando a posare gli occhi su Pietro, consideriamo il fatto che vuole piantare le tende sul monte: è, il suo, un volersi installare nella Parusia prima della fine della storia. S. Gregorio Palamas bene ha colto questa tentazione dell'apostolo, al punto che spesso nei suoi insegnamenti ritorna sul senso della storia. Il mondo tutto intero infatti è destinato al Regno, ma esso deve essere trasfigurato in una "nuova terra". Conformemente a quanto insegna S. Paolo nel cap.8 della sua Lettera ai Romani - in cui si dice che la creazione geme e soffre nella attesa di essere essa pure liberata, salvata dall'uomo cristificato -, dice: "L'uomo vero, quando la luce gli serve da via, si eleva sulle cime eterne; egli contempla le realtà metacosmiche, senza separarsi dalla materia che l'accompagna fin dal principio… conducendo a Dio, attraverso se stesso, tutto l'insieme della creazione".
Dopo una breve irruzione dell'Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la missione apostolica, ritrovare il mondo e discendere nel suo inferno.
Gesù parla con Mosè ed Elia della sua Passione.
Contemplare la luce taborica e poi scendere nel mondo significa porre i propri passi dietro a quelli di Cristo, il cui Amore è sacrificale: sacrificio redentivo il Suo, che chiama noi a partecipazione.
Gli iconografi attraverso il colore, noi attraverso modalità nostre proprie, tutti chiamati a godere della luce del Tabor, fonte di certezza nel buio del dolore, perché ogni morte già risplende della luce del mattino di Pasqua.



* * * 



Egon Sendler. Trasfigurazione e icona: una presenza dell'indicibile che scaturisce dalla materia.

La visione religiosa
Considerare l'arte bizantina come il riflesso della civiltà e delle sue forme sociologiche e politiche, significherebbe passare sotto silenzio le sue origini profonde, la sua spiritualità, la sua visione filosofica e religiosa del mondo. E se la civiltà nataa Bisanzio ha servito di modello agli Stati dell'Europa orientale che si stavano formando, fino alla Russia, la civiltà bizantina implica in primo luogo l'eredità delle idee religiose dell'ortodossia. Indubbiamente, come la Chiesa d'Occidente, la Chiesa bizantina è fondata sulla ttadizione biblica, la dottrina dei primi concili e la teologia dei Padri greci; tuttavia, dal V secolo, differisce notevolmente dagli altri patriarcati e Chiese locali. Innanzitutto, malgrado i molti conflitti, essa si considera comela Chiesa dell'impero che è il regno di Dio sulla terra. Pertanto doveva percepire gli sforzi della Chiesa romana per difendere i suoi diritti divini alla successione di Pietro come un tradimento. Entrare nelle differenze dogmatiche e cercarne le ripercussionisull'arte, ci porterebbe troppo lontano; a noi interessano le idee ogli atteggiamenti che si esprimono nell'arte e danno delle indicazioni specifiche sul carattere dell'arte bizantina. Anche se, durante il Medio Evo, la maggior parte dei valori fondamentali delmondo cristiano è comune al mondo orientale ed occidentale, sipuò cercare di specificare i caratteri propri del mondo bizantino. La concezione del mondo a Bisanzio deriva dalla Scrittura, maessa è interpretata con i termini di una filosofia che deve molto alneoplatonismo e particolarmente a quello di Plotino. In questaconcezione l'universo è costituito da due mondi separati: il mondo sensibile e il mondo intelligibile. All'origine vi era il mondo intelligibile nel quale regnava un'armonia perfetta. Tutto quantoesiste nel mondo corporeo ha il suo modello perfetto nelle idee, che sono i pensieri del Dio Creatore. L'uomo partecipa a questidue mondi: la sua natura sensibile è legata al mondo materiale ela sua natura intelligibile, l'anima, è offuscata dal contatto con la materia. Pertanto lo scopo finale della vita è di vincere il mondo sensibile per uscire da questa condizione di peccato. Dio è considerato come un sovrano, posto al vertice di innumerevoli gerarchie; l'uomo, preso dal timore del peccato e della morte, pone tutta la sua speranza nella vita eterna.
Contemplazione e ascesi
In questa concezione dell'universo, il mistero dell'Incarnazione acquista un significato particolare e specifico. Con l'Incarnazione, il peccato e la morte non sono solamente vinti, ma l'uomo è innalzato verso Dio più di ogni altra creatura: «II Verbo, che è Dio, si è fatto uomo perché noi potessimo essere divinizzati», dice sant'Atanasio. Così il corpo, che Platone aveva definito come tomba dell'anima, diviene il tempio dello Spirito Santo. Tuttavia l'antico dualismo non è totalmente superato: malgra-do sia stato riabilitato con l'Incarnazione, il mondo sensibile restaostile. Il peccato e la morte pesano sulla coscienza dell'uomo, anche su coloro che conducono una vita esemplare. La sola via verso il regno dei cieli è la fede in Cristo e la sua imitazione con la preghiera e l'ascesi. Con la fede si apre la porta di questo mondo sensibile verso il mondo intelligibile e la comunicazione divienepossibile. Si comprende allora l'importanza della contemplazione, di cui l'ascesi è vista come una preparazione. La natura sensibile deve liberarsi da ogni legame con il mondo e il peccato, come pure daogni influsso esteriore, deve immergersi nella notte mistica e attendere l'illuminazione divina.
Non siamo nati per mangiare e bere, ma per risplendere con le nostre virtù a gloria del nostro Creatore. Ci nutriamo per necessità, perché la nostra vita conservi le sue energie per la contemplazione per la quale, a dire il vero, siamo nati.
Si comprende allora l'importanza del movimento monastico. Fra gli asceti si trovavano membri di grandi famiglie e persino degli imperatori come Niceforo Foca, Michele IV e l'imperatriceTeofano. Nei secoli XIV-XV, vivevano nei numerosi monasteri dell'impero circa 180.000 monaci e monache. Non è quindi percaso che le prime icone non siano state quelle di Cristo, ma le icone degli stiliti che erano «le forme terrestri dell'angelo». Solamente dopo aver ricordato il posto importante che occupava la contemplazione, possiamo parlare del culto bizantino e coglierne l'importanza e le caratteristiche.
Il culto
Nel culto l'anima si eleva verso la sfera trascendente di Dio. La bellezza dei dipinti e delle decorazioni, l'espressività dei canti, la solennità dei riti, concorrono a commuovere l'uomo per i misteriresi presenti. Ogni gesto, ogni simbolo è già una presenza dell'eternità. Il culto è dunque innanzitutto celebrazione davanti al trono del Re del cielo. Gli altri aspetti, come l'insegnamento o la partecipazione dei fedeli, gli sono subordinati. Così, durante la liturgia, i celebranti raffigurano la gerarchia celeste: «Noi che misticamente rappresentiamo i cherubini e cantiamo alla Trinità che dona la vita l'inno tre volte santo, deponiamo ogni preoccupazione terrestre» (Inno dei cherubini della liturgia). Tale concezione della liturgia conduce a un fenomeno strano, che si osserva ancora nel secolo XVII in Russia, la «mnogoglassia»: l'abitudine cioè di celebrare in una chiesa diversi uffici nello stesso tempo. Di conseguenza la lingua di questi uffici si riveste di un carattere glossolalico o esoterico per la deformazione della pronuncia. Ciò che conta è compiere il servizio davanti al trono di Dio e tutto deve contribuire alla sua gloria. Pertanto gli stranieri che assistevanoalle cerimonie nella cattedrale di Santa Sofia erano impressionati dalla loro bellezza: «Non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra...». In questo mondo affascinante per la ricchezza materiale, le forze spirituali dovevano avere un dinamismo ancora più potenteper innalzare l'uomo verso la bellezza del mondo intelligibile,quello di Dio. In questa armonia relativa delle ricchezze materiali e della vita spirituale, l'arte doveva avere un ruolo fondamentale. La funzione dell'immagine consiste nel mostrare il mondo della gloria di Dio, nel trasformare questo mondo in visione. «Attraverso l'immagine visibile il nostro pensiero deve gettarsi con uno slancio spirituale verso la grandezza invisibile della divinità».
L'immagine
Un occidentale potrebbe domandarsi perché i bizantini eranocosì affascinati dall'immagine. Indubbiamente il fascino è dovuto al posto che questa ha nell'antichità greca ed inoltre, dopo la crisiiconoclastica, sono potuti intervenire motivi polemici. Ma, essenzialmente, è la teologia dell'Incarnazione che ha dato all'immagine il suo volto originale nella Chiesa bizantina. Pertanto, durante un millennio, l'arte bizantina ha comepreoccupazione principale la spiritualizzazione delle forme e deisoggetti. Non vuole rappresentare l'episodio passeggero, ma l'idea religiosa, la verità di fede. Questi dipinti non sono la meditazione individuale di un artista, ma sono teologia in immagini. Per questa ragione il pittore stava sottomesso al magistero della Chie-sa: egli non era che un interprete e il suo nome appare sulle iconesolamente in un'epoca tardiva. Tuttavia ciò non impediva né il livello artistico, né la ricerca di nuove forme, né l'introduzione dinuovi temi, ma queste creazioni restavano sempre nel quadro della dottrina della Chiesa che sorvegliava da vicino i lavori, come è dimostrato dai canoni dei concìlì e dei sinodi. La tradizione ha trovato la sua forma definitiva dopo l'iconoclastia, nel secolo IX. Nella teologia dell'immagine, quest'ultima è divenuta uno dei principi fondamentali per la dottrina del prototipo. Pertanto ogni icona è un'interpretazione fedele del prototipo. Pur non escludendo i lineamenti ritrattistici di un santo, essa lo rappresenta nella sua dimensione spirituale: così il volto di san Pietro mostra i tratti caratteristici che conosciamo dai Vangeli e si distingue nettamenteda san Paolo o da sant'Andrea. Le descrizioni dei santi si sono trasmesse per mezzo della tradizione orale, molto viva durante i primi secoli. Dapprima le troviamo nei libri liturgici, più tardi nei manuali dei pittori. Anchel'arte occidentale ha conservato questi tratti caratteristici, ma li ha interpretati più liberamente perché non era legata alla teologia bizantina. Ora, per molti santi, non si conoscono le origini storiche della loro figura. In questo caso, la loro santità specifica dà all'immagine una realtà spirituale. I numerosi martiri formano una catego-ria particolare nella gerarchia dei santi con i loro colori e gesti tipici, poiché tutti hanno in comune la testimonianza data con il dono della vita. Così il loro carattere individuale è assorbito dall'idea teologica, che è l'essenziale della loro esistenza. Ciò vale in modo particolare per le icone di Cristo e della Vergine. Cristo è soprattutto il Logos che si è fatto uomo per la nostra salvezza: i suoi attributi, il gesto di benedizione, il libro, i colori delle vesti esoprattutto l'aureola con la scritta «Io sono colui che sono», esprimono il mistero del Pantocràtor. Egli è Dio e uomo e regna sull'universo. L'uomo trasfigurato La fedeltà della pittura bizantina all'antropologia greca non èdovuta solamente all'influenza dell'ellenismo, ma è anche unaconseguenza della teologia dell'Incarnazione. In Cristo e nei santi si è realizzata l'idea dell'umanità nella sua pienezza: essa oltrepassa il simbolo che può esprimere solo un'idea astratta. In effetti, l'antica immagine dell'uomo è radicalmente trasformata. Avendo la preoccupazione di spiritualizzare il mondo, l'immagine di una bellezza materiale era inadatta ad esprimere la nuova creatura: tutto ciò che richiamava il mondo sensibile doveva essere trasfigurato. Se nell'arte ellenistica, il cui campo d'azione è soprattutto la scultura, il busto è la parte più significativa,nell'arte bizantina il corpo umano perde il suo aspetto naturalistico. Pertanto i corpi degli asceti dimagriti per le penitenze e persi-no quello di Cristo al battesimo, possono essere rappresentati nu-di senza urtare la sensibilità dei fedeli. Ma ordinariamente il corpo scompare sotto le vesti, con delle linee fini che danno un'impressione irrazionale e astratta. Nell'iconografia bizantina, il volto diventa il centro della rap-presentazione: esso è il luogo della presenza dello Spirito di Dio,perché la testa è la sede dell'intelligenza e della saggezza. La carnagione rosea dell'antichità fa posto a dei toni che danno sull'ocra. Il calore della carne diviene calore dello spirito: rifiutandosi di dare l'illusione di un corpo nello spazio naturale, la modellatura diventa una evocazione interiore. Così sotto questitoni piuttosto smorti, risplende la luce, come i raggi di un sole interiore che, con un fine tratteggio, danno l'impressione di una vita intensa. Anche le parti del volto sono spiritualizzate perché, secondo Giovanni Mauropode, un buon artista non deve solamente rappresentare ill corpo, ma anche l'anima. Tutta l'attenzione è concentrata sullo sguardo che irradia verso lo spettatore (cfr.tav. 30). All'inizio i grandi occhi aperti, smisurati, affascinano colui che guarda e s'impongono ad esso. Più tardi, dopo l'iconoclastia, quando l'icona ha trovato un certo equilibrio tra l'umano e ildivino e soprattutto sulle icone russe dal secolo XIV, questosguardo diviene più dolce, pur conservando la sua fermezza. Forse è un'espressione dell'esicasmo, la forza nuova nella vita reli-giosa, anche in Russia. Pertanto il tipo iconografico del Salvatore dallo sguardo corrucciato perde il suo aspetto ostile e diventa «l'amico degli uomini» dei testi liturgici, pur conservando la caratteristica della sua composizione. Al di sopra delle arcate sopracciliari che circondano gli occhi erafforzano l'espressione dello sguardo, si eleva la fronte, sededella sapienza, sovente molto alta, convessa ed espressione dellapotenza dello spirito. Il naso, che ha la radice nella fronte, è spesso allungato, il che dona ai volti una grande nobiltà. All'e-stremità del naso, le narici sottili, come vibranti sotto il movi-mento dello Spirito, esprimono l'amore appassionato del santoper Dio. Né troppo bombate, né troppo piatte, le gote attornianoarmoniosamente la bocca. Solamente le gote degli asceti, dei monaci e dei vescovi, mostrano rughe profonde, tracce del digiuno e delle veglie di preghiera. La bocca, la parte sensuale del volto, è molto fine, spesso dise-gnata in modo geometrico. Essa è sempre chiusa nel silenzio della contemplazione; san Giovanni Evangelista pone inoltre il ditosu di essa poiché, nel mondo della gloria, tutto è visione. Persino i santi intorno al trono di Cristo, malgrado le indicazioni della Scrittura, hanno le bocche chiuse. (In Occidente, invece, il Beato Angelico rappresenta angeli che cantano). Il movimento del volto termina in un mento energico, ma nonvolitivo, segnato anche attraverso la barba che scende nel ritmodelle sue ciocche. Il capo è sempre circondato da un'aureola, simbolo della gloriadi Dio, che completa questo processo di spiritualizzazione delpersonaggio. La tendenza a spiritualizzare si mostra forse ancor più chiara-mente nei dettagli dell'icona. Nonostante varie fluttuazioni, incerte epoche, l'arte bizantina evita di rappresentare la natura co-me ci appare: così le rocce dei paesaggi sembrano sfuggire allapesantezza. Le architetture spesso sontuose e gli oggetti non sonosubordinati allo spazio, ma hanno ciascuno la propria prospettiva. Analogamente i colori non sono quelli della natura, ma assumono un significato e obbediscono alle esigenze della composizione. Il tutto viene poi penetrato da una luce che non getta ombre: è la luce della divinità che è comunicata attraverso le gerarchie celesti e terrestri per riflettersi, in ultimo grado, nella materia dell'icona.
Immagine e realtà
Queste particolarità dell'arte bizantina ci pongono una domanda: l'uomo del Medio Evo identificava quest'arte con la realtà incui viveva? È probabile che vedesse la natura come la vediamooggi. Bisogna dunque cercare le ragioni delle forme particolari diquest'arte, non nell'osservazione, ma nelle idee che guidavano questa stilizzazione. In effetti, fin dai primi secoli, l'arte religiosarinuncia sempre più alla bellezza terrestre dell'antichità e creaforme nuove. Così, dopo un'evoluzione di vari secoli, appare ilmondo iconografico di Bisanzio. Le forze di questa evoluzioneartistica erano le idee religiose e filosofiche dell'epoca. Nello stesso tempo, esse preparavano i fedeli a vedere nell'immagine la vera realtà, che è al di sopra di tutte le apparenze. Pertanto, malgrado l'erudizione e l'interesse dei bizantini perle scienze, la questione della somiglianza con la natura non si poneva, perché l'immagine doveva rappresentare le verità eterne.Per esprimere il loro carattere misterioso, doveva servirsi di unlinguaggio pure misterioso, diverso da quello del nostro mondo.
L'immagine come segno
Secondo l'aristotelismo, l'uomo ha una duplice possibilità perconoscere il mondo: il pensiero diretto, in cui l'oggetto si presenta senza intermediario alla percezione, per esempio nella sensazione, e il pensiero indiretto, in cui un segno determinato si pone tra la realtà e lo spirito. Anche se questa distinzione non è mai molto netta, poiché la coscienza dispone di diversi ordini di immagini, la rappresentazione indiretta è fondata sul segno che include necessariamente due elementi: il significante e il senso cheannuncia, cioè il significato. Questi due elementi, che sono dueaspetti di una stessa realtà, costituiscono il segno. Pertanto, nelsegno, il mondo spirituale si unisce al mondo materiale. Come rappresentazione indiretta, il segno può essere una semplice rappresentazione adeguata alla realtà, che, come tale, rende presente l'oggetto. Esso rappresenta l'oggetto come una copia stilizzata o è fondato su delle convenzioni. A questa categoria appartengono i segnali della vita quotidiana, i cartelli stradali, i segni e gli algoritmi delle scienze, come pure le parole di una lingua. La loro funzione è di esprimere delle definizioni in modo più chiaro e pratico, ma restano nei limiti del loro dominio, sono come chiusi in se stessi. Quando un segno non presenta più una cosa sensibile, ma un senso astratto, cioè quando il significato non è più rappresentabile, allora appare una dimensione che oltrepassa il significante: il segno diventa simbolo. Quindi, nel simbolo, il significante e il significato sono intimamente uniti, ma il modo della loro unione è un'analogia e non un'equazione. Vi è un rapporto tra il segno concreto, materializzato e una realtà assente, impossibile a percepire. Tuttavia, nonostante i suoi limiti, il significante rappresenta il senso pieno del significato. Inoltre, per l'influenza del significato, il significante partecipa all'apertura sull'infinito: pertanto il simbolo è centripeto, mediante il significato tende versol'indicibile, diviene epifania. Tale interazione allarga le qualitàdel segno; esso può esprimere valori non raffigurabili e persinoantinomici. (Così il simbolo «fuoco» può avere una gamma disignificati che va dal «fuoco purificatore» fino al «fuoco infernale»). Un'altra conseguenza dell'estensione dei simbolo è che non sipuò facilmente determinarne il senso. Il simbolo può avere persi-no sensi diversi e, per l'interpretazione derivata dalla visione particolare di un artista o sotto l'influsso di circostanze storiche, essopuò ricevere una portata nuova. Così l'orante delle catacombepuò essere un simbolo dell'anima di un defunto, della preghieraed anche della Chiesa. Il carattere trascendente del simbolo esige pure un modo diespressione che oltrepassi quello del segno: limitandosi a un senso diretto, esso rappresenta il contenuto con una certa enfasi, amplifica la forza di espressione ed agisce per ridondanza. A ciò si aggiunge la ripetizione, che permette di approfondire l'irraggiamento del simbolo. Così in campo religioso, con una ripetizione di parole e di gesti, i fedeli sono invitati ad aprirsi al mondo dell'aldilà. Alla categoria del simbolo appartengono anche le sue altre forme: l'emblema, l'allegoria, la parabola ed anche il segno sotto i suoi diversi aspetti nella filosofia moderna. Tutto ciò mostra laricchezza e le potenzialità del simbolo, ma non cambia la sua essenza, il suo carattere trascendente. Il pensiero cristiano, che tende ad esprimere i misteri della fede, utilizza largamente il simbolo. Inizialmente si serve di simboliche, nonostante la loro origine pagana, rappresentano valori trascendenti dell'umanità. Essi sono approfonditi, arricchiti, con unsenso specificatamente cristiano (la colomba, il pavone, l'ancora). In seguito, il senso originale scomparirà per far posto a nuove creazioni, come il pesce o l'agnello, simboli di Cristo. Alla fine di questa evoluzione, quando la teologia avrà elaborato la dottrina dell'Incarnazione, l'immagine propriamente detta sostituirà il simbolo per divenire la rappresentazione privilegiata dei misteri. Pur conservando tutte le proprietà del segno e del simbolo,l'immagine sacra aggiunge l'elemento umano. Trascendente ed astratto, il simbolo diviene immagine trascendente ma concreta. Pertanto l'infinito si riflette nel finito, l'indicibile si lascia esprimere.
L'immagine come partecipazione al divino
Nella sua analisi delle diverse specie di immagini (Adversus eosqui sacras imagines abiciunt, verso il 730), Giovanni Damasceno applica le categorie neoplatoniche di Dionigi l'Areopagita. Per lui l'immagine è partecipazione al modello, al prototipo. Essa non è solamente poetica, ma ontologica; la partecipazione è somiglianza ontologica. Per sua natura, la partecipazione nell'ordine della creatura non è mai adeguata, ma include sempre una deficienza. Pertanto san Giovanni Damasceno definisce l'immaginecome «una somiglianza che caratterizza il prototipo, pur essendodifferente in qualche cosa». Il grado di somiglianza dipende dalgrado della sua partecipazione al prototipo. E il principio della classificazione di san Giovanni Damasceno. Partendo dall'immagine consostanziale che è il Verbo, arriva all'icona, il riflesso delle realtà invisibili nella materia.
L'immagine, nella sua forma perfetta, egli dice, non esiste che nella SS.ma Trinità: è il Verbo eterno generato dal Padre, che possiede in sé la pienezza della natura divina. Tutto ciò che possiede il Padre, lo possiede pure il Figlio. Il Verbo è partecipazione perfetta, senza deficienze, somiglianza perfetta: la sua natura è la natura stessa del prototipo. Il grado seguente di questa gerarchia è l'immagine che Dio ha delle cose create da lui: il mondo così come esiste nel «consiglio eterno di Dio». San Giovanni Damasceno riprende qui l'espressione di Dionigi che le aveva qualificate «predeterminazioni». Prima della loro esistenza, dall'eternità, le cose sono presenti nel pensiero di Dio come un modello, come un'immagine. Il terzo genere di immagini sono le cose visibili in quanto rappresentano le cose invisibili, «senza figura, affinché, raffigurandole corporalmente, ne abbiamo una conoscenza velata». La ragione è che l'uomo non può elevarsi alla contemplazione delle cose invisibili senza la mediazione delle cose visibili. Anche la Scrittura si adatta all'insufficienza del nostro spirito, per risvegliare innoi il desiderio di Dio. Analogamente la natura rivela i misteridella fede: nel sole, nella sua luce e nei suoi raggi si riflette il mistero della Trinità e per somigliare a Dio, l'uomo ha ricevuto l'intelligenza, la parola e il respiro. Il quarto genere di immagini è vicino al precedente: sono le cose future che possono essere prefigurate con una cosa o un avvenimento presente: così il roveto ardente evoca la Madre di Dio,l'acqua e la nube evocano lo Spirito che battezza. Il quinto genere di immagini è quello delle cose passate che sono fatte per conservare la memoria di un personaggio o di un avvenimento. Queste immagini sono espresse con la parola nei librio sono riprodotte su quadri per essere contemplate da noi. «Grazie ad esse, evitiamo il male e aspiriamo al bene». E’ a questo punto che san Giovanni Damasceno menziona le icone: «Noi pure, oggi, dipingiamo immagini (icone) di coloro che sono stati eminenti in virtù, per richiamarceli alla memoria, imitarli e per l'amore che portiamo loro». San Giovanni Damasceno non va più lontano nella sua analisi dell'immagine. In questa gerarchia che va dalla somiglianza per-fetta per l'identità sostanziale tra il Padre e il Figlio, fino alle cose sensibili, l'immagine occupa il gradino più basso. Qui l'analogia èla meno perfetta. San Giovanni Damasceno non distingue l'immagine naturale, la sola capace di partecipare alla sostanza del prototipo, e l'immagine artificiale, che partecipa con la sola somiglianza. La sua concezione dell'immagine si fonda piuttosto su una partecipazione ontologica.
La ragione di queste ambiguità è dovuta indubbiamente al fatto che Giovanni Damasceno doveva far fronte all'obiezione fondamentale dell'iconoclastia, cioè che la materia è cattiva, incapace di rappresentare le realtà spirituali. Per rivalorizzare la materia, egli resta nelle categorie del neoplatonismo di Dionigi e cosìdà alla partecipazione ontologica un nuovo aspetto, fondandosi sulla cristologia: «Non cesserò di venerare la materia per la quale mi è venuta la salvezza, ma non la venero come Dio. Come potrebbe essere Dio ciò che ha avuto l'esistenza dal nulla? Anche se il corpo di Dio è Dio, essendo divenuto per l'unione ipostaticasenza cambiamento ciò che dà l'unzione, pur rimanendo ciò che èper natura, e cioè carne animata da un'anima ragionevole, creatae non increata? Ma venero pure il resto della materia mediante laquale mi è venuta la salvezza, come riempita di energia divina edi grazia (...). Non disprezzare la materia: essa non è disonorevo-le, perché nulla di ciò che Dio ha fatto è disonorevole». Da questo testo risulta bene il carattere dell'immagine nellasua ricchezza, anche se appartiene all'ultimo gradino della gerarchia. Il principio fondamentale di questa concezione deriva dall'Incarnazione del Verbo. Nell'unione del Verbo con la natura umana, il corpo di Cristo è divenuto santo, pieno di grazia; Giovanni lo chiama persino homótheos, uguale a Dio. E, nel suo corpo, tutta la materia è stata santificata. «Sembra che nel pensiero del Damasceno vi sia l'idea di una comunicazione diffusa della santità del corpo di Cristo alle altre materie, a una partecipazioneontologica tra il corpo di Cristo e la sua effige. Pertanto l'icona può divenire mediatrice di grazia». Queste due analisi dell'immagine, l'una nello spirito e nel metodo dell'aristotelismo, l'altra seguendo lo schema del neoplatonismo di Dionigi, sembrano a prima vista opposte, ma in fondovengono a coincidere. L'analisi del segno parte dalla forma piùsemplice per elevarsi fino al simbolo con il suo carattere epifanico. L'analisi dell'icona comincia con l'immagine consostanziale nella divinità, per scendere fino alla più grande materializzazione. Indubbiamente, la seconda concezione è più ricca, suppone la Rivelazione ed è più abituale al mondo bizantino, tuttavia esse hanno in comune il tratto essenziale dell'icona: una presenza dell'indicibile che scaturisce dalla materia.

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Trasfigurazione

Un tempo ogni iconografo - monaco cominciava la sua "arte divina" dipingendo l'icona della Trasfigurazione per imparare che l'icona è dipinta non tanto con colori, ma con la "luce taborica" manifestazione dello Spirito Santo. Dio si comunica all'uomo come luce e come suono. Così si mostrò nell'apparizione sul monte Sinai e così si rivela ora nella Trasfigurazione del suo Figlio, sua Parola finale e definitiva. La luce è l'irradiazione di Dio, il dono che Dio fa di tutto se stesso. È ciò che nella Scrittura si chiama "vedere faccia a faccia". La Trasfigurazione è la visione di Dio, della SS. Trinità. Cristo appare nello splendore della sua gloria divina, simboleggiata dal candore delle vesti. "E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce" (Mt 17,2 L'icona rappresenta il momento in cui Dio fa udire la sua voce dalla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo" (Mt 17,5). La voce del Padre rivela la verità divina e sconvolge gli Apostoli ancora del tutto umani. C'è infatti un contrasto tra la pace che avvolge Cristo, Mosè e Elia e il movimento, in basso, degli Apostoli che cadono dalla cima scoscesa del monte. Pietro, a destra, è inginocchiato; Giovanni, al centro, cade voltando le spalle alla luce; Giacomo, a sinistra, fugge e cade all'indietro. La Trasfigurazione si può dire che non è solo del Signore, ma anche degli Apostoli che, per un istante, passarono dalla carne allo Spirito". Ricevettero la grazia di vedere l'umanità di Cristo come un corpo di luce, di contemplare la sua gloria nascosta sotto la "kenosis". La Trasfigurazione preannuncia quella che attende tutti i cristiani per opera dello Spirito Santo. Gesù mostra in sé la natura umana rivestita della bellezza originale. Elia e Mosè, con in mano le tavole della Legge, rispettivamente alla destra e alla sinistra del Cristo, sono i Profeti che preannunziano la venuta del Messia. Entrambi ebbero la visione di Dio: l'uno sul monte Carmelo, l'altro sul monte Sinai. I loro mantelli hanno forme affilate, "taglienti", perché quando è proclamata "la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito... e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore" (Eb 4,12 ). Il Cristo, al centro di cerchi concentrici, che rappresentano le sfere dell'universo creato, parla con loro della sua passione gloriosa. La luce che si sprigionò sul monte Tabor è la stessa che si manifesterà nella gloria della sua seconda venuta: la Parusia, definitiva instaurazione del Regno di Dio. Per questo preparando i suoi discepoli all'importanza dell'avvenimento Cristo dice: "In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il Regno di Dio venire con potenza" (Mc 9,1). La Trasfigurazione di cui Pietro, Giacomo e Giovanni sono i testimoni è una breve apparizione dell'ottavo Giorno, della "Nuova Terra" tra noi. Per questo Pietro, strabiliato dalla visione, voleva "piantare le tende" e installarsi nella Parusia, nel Regno prima che la storia dell'economia della salvezza giungesse a compimento. Pietro non riceve risposta, perché è solo attraverso la Croce che viene la Risurrezione e il Regno. Cristo si rivela agli Apostoli nello splendore della gloria divina, perché non si scandalizzino della sua Passione ormai vicina e comprendano che essa è volontaria. Il Signore è in verità lo "splendore del Padre". La croce risplende già della luce della Pasqua. Dalla Trasfigurazione, visione di Dio, si attinge la forza per riprendere la missione apostolica. I Padri della Chiesa dicono che Dio si dona agli uomini secondo la sete che hanno di Lui, ma che il suo desiderio sarebbe di donarsi completamente, affinché i cristiani possano dissetare a loro volta il mondo. L'uomo illuminato dalla luce del Tabor conduce, attraverso di sé, non solo l'umanità ma tutta la creazione a Dio: "La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata, dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rom 8,19-21).