martedì 14 febbraio 2012

Gesù nella storia e nella vita degli uomini



Il punto di vista del Carinal Camillo Ruini, Presidente del Comitato per il Progetto Culturale della CEI.

ROMA, martedì, 14 febbraio 2012.- Riporto di seguito le conclusioni che il cardinale Camillo Ruini ha svolto al Convegno «Gesù nostro contemporaneo» (Roma 9-11 febbraio 2012), organizzato dal Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

***

(…) Negli anni 2000, soprattutto con le opere del biblista inglese James Dunn, La memoria di Gesù, in tre volumi editi in italiano da Paideia, e dell’americano Richard Bauckham, Gesù e i testimoni oculari, che io sappia non ancora tradotta in italiano, si è aperto però quello che Giuseppe Segalla chiama “il secondo versante della terza ricerca”, caratterizzato dal riconoscimento della sostanziale attendibilità storica delle tradizioni su Gesù conservateci nei Vangeli e risalenti appunto alla memoria della comunità di Gesù e in particolare ai “testimoni oculari” di lui, delle sue parole e delle sue opere.
Così la figura storica di Gesù riacquista il suo spessore e la sua concretezza, in maniera nuova e criticamente più consapevole. Segalla conclude il suo libretto sottolineando la necessità di ricuperare meglio anche la storicità del quarto Vangelo, cioè delle tradizioni giovannee, diverse ma non alternative a quelle sinottiche, e di integrarla nella ricerca sul Gesù storico.
Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI ha già dato una risposta sostanziale a questa esigenza. Chiedo venia se indico ancora, brevemente, quali siano, a mio parere, gli aspetti salienti della figura storica di Gesù di Nazaret. Possiamo distinguerli in alcune grandi categorie, senza dimenticare la loro stretta connessione reciproca.
A una prima categoria appartengono le parole e gli insegnamenti di Gesù, incentrati sulla venuta del regno di Dio, che si segnalano per la loro forza sconvolgente e validità intrinseca, capacità di incidere e di convertire: parole antiche e nuove, ma finalmente “uniche” e attuali nella loro sostanza anche dopo duemila anni. Parole dette “come da uno che ha autorità” (Mc 1,22), in maniera impensabile nel contesto giudaico del suo tempo.
Un’altra categoria è costituita dagli “atti di potenza”, “segni” o “opere” che Gesù ha compiuto: la loro storicità sostanziale (al di là del giudizio sui singoli eventi e sulla tendenza alla loro amplificazione) appare incontestabile e la “terza ricerca” su Gesù è per lo più orientata a riconoscerla come dimensione ineliminabile del Gesù della storia, anche se sulla loro interpretazione continua a pesare in larga misura il presupposto della non conoscibilità di interventi diretti di Dio nella storia.
Difficile ma inevitabile e decisiva è poi la questione della coscienza che Gesù ha avuto di se stesso, del suo rapporto con il Padre e della missione che ne scaturiva: coscienza che emerge anzitutto dalla sua preghiera, dalla chiamata dei discepoli e dal tipo di rapporto che egli ha instaurato con loro; in particolare dal modo in cui egli pone se stesso al centro sia di tale rapporto sia del messaggio del regno di Dio, contrariamente alla tesi che ha dominato a lungo nella ricerca storica, secondo la quale il messaggio del regno di Gesù sarebbe stato completamente diverso rispetto alla cristologia post-pasquale degli scritti del Nuovo Testamento.
La questione dell’autocoscienza di Gesù si pone con particolare acutezza in momenti specifici della sua esistenza, come la cena che egli ha consumato con i suoi discepoli prima della sua passione. La tradizione della cena fa parte sicuramente della tradizione più antica, in base ai dati storici niente può esservi di più originale di essa. Soltanto perché risaliva a Gesù stesso, lo “spezzare il pane” ha potuto affermarsi fin dall’inizio in tutte le correnti della comunità post- pasquale. Dalla cena emerge come il Gesù della storia abbia concepito e vissuto la propria morte come decisiva per aprire a noi l’accesso al Dio vivente.
Tutto ciò che si può affermare riguardo a Gesù di Nazaret rimane però in qualche modo “sospeso” davanti alla questione della sua risurrezione dai morti, come già sottolineava con grande forza l’Apostolo Paolo: “se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione e vuota è anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Anche oggi “la fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti”, come ha scritto Benedetto XVI nel secondo volume del Gesù di Nazaret (p. 269).
Terminata questa integrazione, posso riprendere il filo delle mie conclusioni. Gran parte dell’evento è stata giustamente dedicata non a quanto è accaduto a Gesù in Palestina bensì alla presenza attuale di Gesù nella storia e nella vita degli uomini.
Anche qui si tratta di tenere unite le due facce o le due dimensioni: quella della realtà storica e quella per la quale nella storia è presente, in Gesù Cristo, la salvezza che viene da Dio. Da Gesù è scaturito cioè un grande movimento, una comunità di uomini e donne, che poi, certo, si è divisa e anche frammentata, conservando però una inestirpabile tendenza a ritrovare in lui la propria unità.
Questa comunità ha dato vita a una “storia efficace”, perché è stata e rimane la forza in grado di incidere più in profondità sui modi di pensare e sui comportamenti, sulla cultura e sul vissuto delle persone come dei popoli. Storia efficace ma anche paradossale, perché si svolge secondo la forma della croce-risurrezione, della sconfitta che diventa vittoria: questo paradosso che si rinnova è il segno, o l’indizio, della presenza di Dio.