giovedì 2 febbraio 2012

Ad immagine della santa Umanità di Cristo


Al termine di questo giorno così importante  per tutti i consacrati, propongo il testo della 
Lectio magistralis che il Card. Piacenza ha tenuto al Camillianum lo scorso 21 novembre.

 

Camillianum – Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria
Fondazione “Ut Vitam Habeant”
Corso di formazione umana per il Sacerdozio e la Vita consacrata
Aula Magna dell’Istituto Camillianum
Lunedì, 21 novembre 2011 – ore 11.00

Lectio magistralis

di S. Em. il Card. Mauro Piacenza
Prefetto della Congregazione per il Clero

«Ad immagine della santa Umanità di Cristo»


Signor Cardinale,
Chiarissimo Preside,
Cari Sacerdoti, Consacrati e Consacrate,

grazie per l’occasione offertami di poter condividere con voi alcune riflessioni in questa sessione inaugurale del “Corso di formazione umana per il Sacerdozio e la Vita consacrata”. Non pochi di voi saranno impegnati – se già non lo sono – nella formazione umana, sia nel caso in cui ciò significhi: “capacità di relazione con la sofferenza”, sia nel caso in cui la Divina Provvidenza disponga, per alcuni di voi, specifici compiti formativi nelle vostre rispettive realtà ecclesiali.
Dopo un breve sguardo alla situazione culturale contemporanea, mi soffermerò sul rapporto tra “formazione umana e fede” e “formazione umana e castità”, per provare a trarre delle conclusioni, che possano, in certo modo, porre in luce l’alta Vocazione, che il Signore ci ha data, di essere: “ad immagine della santa Umanità di Cristo”.

1. La situazione attuale
È innegabile come, da più parti, ormai in maniera reiterata, si lamenti una crisi anche profonda di formazione umana.
Il fenomeno è così ampio e preoccupante, che lo stesso Magistero Pontificio, in differenti ed autorevoli occasioni, ha indicato, tra le priorità dell’attuale epoca, quella di rispondere alla cosiddetta: “emergenza educativa”.
Il deficit di formazione umana non riguarda, ovviamente, le sole realtà ecclesiali; anzi, ad essere sinceri, per quanto possa riguardare anche i nostri ambienti, esso è ben più ampio, radicato, promosso nel mondo, ed i suoi effetti, visibili a tutti, hanno ed avranno gravi conseguenze antropologiche, sociali e perfino teologiche, di rilevante portata.
Le radici storiche e filosofiche di una tale crisi di formazione umana sono ben note; non intendo, in questa sede, ripercorrere l’itinerario, che ha determinato l’attuale situazione; mi limiterò ad indicarne i fondamentali passaggi, già intravvedendone le conseguenze.
Un primo elemento, di sostanziale rilevanza, è rintracciabile nella crisi gnoseologica post-illuminista. Il movimento illuminista, infatti, ha determinato una ipertrofia della ragione, in conseguenza della quale l’uomo e la sua capacità di conoscenza si sono trasformati da “contemplatori”, conoscitori e cantori” della realtà, a “limitata misura” del reale. Un uso di ragione, che pretenda di limitare la conoscenza umana ai soli dati empirici (qualcuno direbbe “scientifici”) è mortificante per l’intelligenza umana e non permette alla conoscenza di relazionarsi con la realtà, secondo la totalità dei suoi fattori.
Il Premio Nobel per la Medicina Alexis Carrel scriveva: «Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità; molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore»[1], intendendo, in tal modo, descrivere la conoscenza come quella fondamentale adesione al reale, che, da sempre, ha caratterizzato l’uomo.
Adesione al reale, ed è il secondo passaggio cruciale, che si perde quasi completamente quando, dall’illuminismo, si passa all’idealismo. Se l’uomo non conosce più la realtà per ciò che essa è, ma tenta di misurarla (razionalismo) o solo di pensarla (idealismo), egli si auto-confina in una oggettiva possibilità di rapportarsi con altro-da-se-stesso e tale atteggiamento ha evidenti conseguenze antropologiche.
Come se ciò non bastasse, la crisi del positivismo ottocentesco, determinata dai due conflitti mondiali del secolo scorso, ha portato ad una sorta di “resa della ragione”, facendo passare l’uomo dal mito infondato del super-uomo alla situazione attuale, altrettanto infondata, del più radicale relativismo.
Non c’è da stupirsi se ad una scorretta idea di ragione di tipo razionalista, che si è infranta contro la oggettiva impossibilità da parte dell’uomo di controllare se stesso e il cosmo, ha fatto seguito una altrettanto scorretta ed ingiustificata sfiducia nella reale capacità di ciascuno di conoscere se stesso, il mondo e Dio.
Il Santo Padre Benedetto XVI ha più volte richiamato l’attenzione della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà sulla necessità di superare il relativismo che caratterizza la nostra epoca e che, inevitabilmente, giunge a toccare anche le nostre persone e i nostri ambienti.
Ad un uomo incapace di conoscere la realtà, che cosa rimane? Lo stretto e asfissiante orizzonte delle proprie emozioni, della propria istintività, veicolata dalla corporeità; da qui il dirompente edonismo, narcisismo, pansessualismo, nel quale si smarriscono gli uomini del nostro tempo e dal quale è necessario, con ogni mezzo, aiutarli a sottrarsi.
Perfino il materialismo, indicato come orizzonte esistenziale in taluni movimenti ideologici del secolo scorso, è andato in crisi ed è stato, da un lato, piegato al soddisfacimento dei desideri e delle passioni, dall’altro, compensato in varie fughe “spiritualistiche” o new-age che nulla hanno a che vedere con l’umana spiritualità e, men che meno, con la fede cristiana.
In una tale, apparentemente irrisolvibile situazione, quali possibilità ci sono per riprendere in mano le fila di una formazione umana e, ancor di più, di una formazione umana, per il Sacerdozio e la Vita consacrata, ad immagine della santa Umanità di Cristo?


2. Formazione umana e fede
Due sono i poli, i protagonisti o – se preferite – i luoghi teologici della risposta a questa domanda: l’uomo in quanto tale e l’Uomo-Dio Gesù di Nazareth.

2.1 L’uomo in quanto tale
Partiamo dal primo luogo teologico.
In qualunque situazione storica, sociale o umana ci si possa trovare, esiste sempre la possibilità di ripartire, di compiere un’opera educativa e di lavorare nell’ambito della formazione. Anche nella contemporanea crisi epocale, le cui radici storiche e filosofiche ho appena accennate, la possibilità concreta che si ha di educare è sempre rappresentata dall’uomo: dall’uomo concreto che sono e dall’uomo concreto che ho di fronte.
Cruciale, a tale riguardo, prima di ogni percorso di formazione umana, è la risposta umile e concreta alla domanda: «Chi sono io?», «Chi è l’uomo?».
E non intendo, in tal modo, indicare percorsi di descrizione fisio-psicologica dell’essere umano, né, tantomeno, riaprire la porta all’idealismo, che si domanda: «Che cosa penso dell’uomo», e non chi esso sia.
Ogni uomo, qualunque sia la sua condizione e qualunque sia l’epoca in cui vive, si auto-percepisce ed è percepito dagli altri, come “bisogno”, come “domanda”.
E se tutta la cultura dominante congiura a soffocare le domande fondamentali che costituiscono l’uomo, non è perché esse non siano gravide di significato e non esigano una risposta, ma, semplicemente, perché, incapace di offrire risposte umanamente percepibili e soddisfacenti, la cultura dominante non ha altra possibilità, non ha altra “via di fuga” che quella di soffocare le domande.
È come se il paragone evangelico del padre, che pur cattivo, non dà pietre ai figli che gli chiedono pane o serpi se gli chiedono uova (cfr. Mt 7,9-10), fosse stato radicalmente svuotato nell’atteggiamento, filosoficamente ed antropologicamente assurdo, di un potere dominante, che continua a ripetere: «Non dovete avere fame!».
Spero che il menzionato paragone evangelico, nello sconcertante paragone con la cultura dominante, dia, almeno in parte, la misura della drammaticità della situazione in cui siamo.
E, tuttavia, l’uomo è e rimane “domanda”! è e rimane irriducibilmente caratterizzato dall’evidenza del proprio essere, e dell’essere del mondo, e da quelle domande fondamentali, che troppo spesso chiamiamo valori, senza ricordare che sono valori solo perché esigenze fondamentali dell’io.
La giustizia, la verità, la bellezza, la ragionevolezza, la libertà, sono valori? Certamente, e nessuno tra noi oserebbe misconoscerlo; ma sono valori umani universali, e non confessionali, perché sono, prima, antecedentemente, sia dal punto di vista ontologico che pedagogico, esigenze fondamentali dell’uomo.
Ritengo semplicemente impossibile, ogni azione educativa, che non parta dalle esigenze fondamentali dell’uomo, che non metta a tema ciò che l’uomo è, ciò che egli profondamente desidera e quale sia l’anelito ultimo del suo cuore.
Lo stesso senso religioso umano, che non pochi studiosi della storia delle religioni relegano ad uno sviluppo più o meno strutturato delle varie culture e civiltà, è in realtà una caratteristica antropologica universale ed insuperabile. Non solo perché storicamente non esiste alcuna civiltà, anche la più primitiva e remota, che non abbia espresso una qualche dimensione religiosa, ma anche perché, posto di fronte alla realtà e a se stesso, come dati, cioè come non provenienti dalla propria opera, l’uomo e la sua intelligenza sono costretti a domandarsi: «Che senso ha tutto?».
In questa domanda (che senso ha tutto?), nella ricerca, cioè, del senso ultimo della totalità - quindi di se stessi e del reale – consiste l’autentico senso religioso.
Permettetemi, a questo punto, una piccola digressione. Molti di voi incontreranno, nel proprio servizio ecclesiale, centinaia, forse migliaia di donne e uomini, spesso in condizioni di salute precaria, nei quali questa domanda, in modo consapevole o meno, vibrerà in tutta la propria forza. Quale grande differenza c’è nel porsi di fronte a tali fratelli condividendone esistenzialmente il medesimo anelito di significato, pur se in circostanze differenti e sollecitato da diverse storie, oppure incontrarli senza la capacità di condividerne fino in fondo la domanda e, conseguentemente, di indicare una risposta. Si indica solo la risposta che si è incontrata partendo dalla propria domanda! Altrimenti anche la risposta teologicamente più corretta (ammesso che la si conosca) diviene una formula ripetuta, ma non vissuta, e tutti sappiamo come non ci sia nulla, per l’uomo, di più inconcepibile, di più distante della risposta alla domanda che egli non si pone, alla domanda che, chi risponde, non condivide.
La stessa missione della Chiesa deve continuamente essere rinvigorita, rafforzata e rilanciata da questa autentica passione per l’uomo; passione, che, come dice l’etimologia del termine, è innanzitutto condivisione partecipata della medesima condizione di “domanda di significato”.

2.2 L’Uomo-Dio Gesù di Nazareth
Di fronte a questo uomo, che è domanda di significato e che vive i valori non come imposizioni esterne alla propria coscienza, ma come il fiorire vigoroso delle proprie domande fondamentali (vivo la giustizia perché sono bisogno di giustizia; vivo la verità perché sono bisogno di verità, etc.), si pone Cristo.
Prima di qualunque atto di fede in Gesù di Nazareth Signore e Cristo, è necessario sottolineare come l’Evento-Cristo abbia una propria irriducibile dimensione storica.
Lo ha efficacemente ricordato il Santo Padre Benedetto XVI nell’incipit della sua prima Enciclica Deus caritas est, nella quale l’essere cristiano è definito come: «Incontro con un Avvenimento, una Persona» (n. 1).
L’incontro, dunque, presuppone qualcosa-qualcuno di “altro” da me, che mi si fa incontro e che io posso incontrare. Le conseguenze di questa chiarificazione sull’essenza del Cristianesimo sono immediatamente recepibili da tutti: da un lato la fedeltà al dato storico esclude ogni auto-referenzialità soggettiva, intimistica o auto-proiettiva nel rapporto con Cristo e, dall’altro, ancora più profondamente, la dimensione storica risulta radicalmente incompatibile con ogni concezione idealista e relativista, che affermi l’impossibilità dell’uomo di conoscere la realtà.
È possibile dunque affermare – ed è in fondo la traduzione che ne fa l’Evangelista Giovanni – che la risposta a ciò che l’uomo è, che non è dentro di lui, si è resa incontrabile, ci è venuta incontro, si è rivelata in quello che era l’ambito più prossimo all’uomo: l’uomo stesso.
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], noi lo annunziamo anche a voi, […] perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1-4).
Tale incontro tra l’umanità, come domanda, e l’Avvenimento di Cristo, come risposta, costituisce la possibilità di ogni formazione umana autentica.
Con due corollari.
Il primo: è possibile vivere un intenso senso religioso, cioè una profonda domanda esistenziale, senza ancora avere incontrato Cristo, la risposta. Ed è necessario riconoscere ed affermare come già il senso religioso autenticamente vissuto rappresenti e costituisca un fattore fondamentale di formazione umana.
Per contro, secondo corollario, nella maggior parte dei casi accade - e probabilmente tutti potremmo darne testimonianza - che proprio l’incontro con Cristo determini il ridestarsi di un senso religioso assopito, il risvegliarsi dell’umanità; pertanto, con altrettanto realismo, è possibile affermare che l’avvenimento dell’incontro con Cristo è il primo fattore educativo dell’umano, proprio perché lo educa a stare in quella posizione di grato stupore, tipica del senso religioso, che costituisce l’essenza dell’uomo di fronte a Dio.
In tal senso, la santa Umanità di Cristo, che, in forza dell’unione ipostatica, vive permanentemente alla Presenza del Padre nello Spirito, è per noi insuperato modello di formazione umana.
Ciò che Cristo vive per natura, noi possiamo vivere per grazia. Il percepire se stessi alla Presenza del Mistero permette all’umano di vivere secondo l’alta Vocazione alla quale il Creatore lo ha chiamato: essere immagine e somiglianza di Dio.
A nessuno penso sfugga come tale “immagine e somiglianza” abbia in Gesù Cristo il proprio unico modello.

3. Formazione umana e carisma della castità
Analizzata la situazione storica in cui ci troviamo e posto lo sguardo sul rapporto essenziale tra formazione umana e fede, come persone chiamate a vivere il carisma della castità per il Regno dei Cieli, sia nella vita consacrata, sia nel ministero sacerdotale, è necessario porsi, in maniera autentica, in ascolto di ciò che il carisma ricevuto dice al personale cammino di formazione umana.
Innanzitutto nessuno, men che meno chi è chiamato alla castità, è dispensato dal lavoro su se stesso, sul proprio carattere, sulle proprie qualità, e dall’affinamento del proprio tratto umano.
Come sottolineato dal secondo corollario del punto precedente, ritengo che la distinzione tra formazione umana, professione di fede e vita sacerdotale e religiosa, sia didatticamente fondata ma, esistenzialmente, sempre da integrare.
Mi spiego. È l’incontro con Cristo a ridestare l’umanità di ciascuno ed è il nuovo orizzonte nel quale Egli ci introduce, non disgiuntamente dalla nuova direzione che la vita prende dopo l’incontro con Lui (cfr. DCE n.1), a determinare anche la fioritura del carisma della castità e la sua fedele accoglienza dalla libertà umana.
Se interpretiamo la vita come domanda di significato, alla quale Cristo risponde, ne deriva, come immediata conseguenza, che il primo compito di una donna e di un uomo di fede, sia testimoniare al mondo la risposta incontrata: testimoniare Cristo Salvatore dell’uomo.
In quest’ottica di viva domanda esistenziale e di vivificante risposta incontrata in Gesù di Nazareth Signore e Cristo, si colloca l’accoglienza del carisma della castità. Se la Vocazione non è compresa ed accolta come testimonianza a Cristo e, in essa, la castità non è compresa come suprema testimonianza, che, dopo il martirio, è possibile darGli, allora non c’è formazione umana sufficiente per accogliere il soprannaturale dono della chiamata.
Nessuno di noi aveva, prima dell’incontro con Cristo, un’umanità capace di accogliere il grande dono della vocazione. Possiamo e dobbiamo testimoniare, anche in vista di una rinnovata azione evangelizzatrice e di un’autentica pastorale vocazionale, come, insieme al dono della vocazione, il Signore ci abbia donato una rinnovata umanità. Egli ci ha chiamati, ci ha plasmati, ci ha resi capaci di accogliere un dono nuovo. Dio non chiama i “capaci” o i “perfetti”, ma rende capaci coloro che chiama!
Lavorare per la propria formazione umana, allora, non è una premessa per poi poter lavorare sulla fede, sulla vocazione e sulla fedeltà ad essa (anche nella dimensione del celibato e della castità consacrata), ma è l’opera di Dio, compiuta dalla Sua grazia, nella nostra umanità, che progressivamente si dilata, nella misura in cui la libertà accoglie il dono della chiamata e vive alla Presenza del Mistero.
Anche dal punto di vista del rapporto tra formazione umana e carisma della castità, il modello è e rimane sempre la santa Umanità di Nostro Signore Gesù Cristo. Un’umanità nella quale i Suoi contemporanei hanno potuto riconoscere, per lo straordinario fascino che esercitava su di essi, per l’autorevolezza dell’insegnamento e per i prodigi compiuti, la Presenza del Mistero, di Dio.
Forse noi non compiremo prodigi o miracoli, ma possiamo domandare ogni giorno a Dio il dono di un’umanità che sia trasparenza di Lui, il dono di un’autorevolezza nell’insegnamento della Sua Parola, che faccia sorgere, in tutti i nostri fratelli uomini, la domanda che ha attraversato i primi decenni dell’era cristiana e che, fino alla consumazione della storia, deve sorgere ogni qual volta si incontra un cristiano: «Perché costui è così?», «Perché mi ama così?», «Perché ha questa passione per la vita?», «Perché prende così sul serio la propria ed altrui esistenza?».

Conclusione
Desidero concludere, per indicare quale sia il vero rapporto tra formazione umana e formazione al Sacerdozio e alla Vita consacrata, con un citazione di San Tommaso d’Aquino, in un suo pensiero che ritengo normativo per quel sano e permanente equilibrio, che deve caratterizzare ogni persona consacrata
Scrive l’Aquinate:
«Quando di due cose l’una è la ragione dell’altra, l’attenzione dell’anima verso l’una non impedisce né riduce la sua attenzione per l’altra. […] E poiché Dio viene contemplato dai Santi come la ragione di quanto essi compiono e conoscono, il loro interessamento per le cose sensibili o per le altre cose da considerare o da compiere, in nessun modo impedisce la loro contemplazione di Dio, né viceversa».
(S. Tommaso d’Aquino, S. Th., Supp., Quaestio 82, art. 3, ad 4).
Allo stesso modo la nostra attenzione alla formazione umana non impedisca né riduca l’attenzione a Cristo, che né è la causa!


[1] A. Carrel, Riflessioni sulla condotta della vita, Milano, Bompiani, 1953, pp. 27.