mercoledì 14 agosto 2013

Aspetta. Eccomi. Arrivo. Sono pronta...

ORSAY-clock++

 di Andrea Torquato Giovanoli
Aspetta.
È questa una delle parole chiave nel vocabolario di mia moglie.
Ma anche “eccomi”, “arrivo” oppure un pernicioso e fuorviante “sono pronta”.
Tutti slogans che sfoggia quando abbiamo i tempi contati, quando dobbiamo rispettare una scadenza o più semplicemente quando abbiamo un appuntamento di qualsiasi natura.
Naturalmente tutti annunci inattendibili, poiché puntualmente (questo sì) il sottinteso minuto da aspettare diventa un quarto d’ora; l’eccomi è l’esatta nemesi della risposta di Maria all’annauncio dell’Angelo, visto che anziché proclamare una presenza informa su di un’assenza certa (almeno per altri dieci minuti); “arrivo” va tradotto con: “mettiti pure comodo che tanto di uscire, almeno per ora, non se ne parla”; mentre l’essere pronta, per la mia consorte, significa che c’é ancora il tempo necessario per iniziare una partita a Risiko.
Mi dicono gli amici dell’androgeo che è una caratteristica consueta alla donna in genere, perciò non mi preoccupo; tuttavia confesso che, il più delle volte, tale atteggiamento della mia dolce metà mette a dura prova la mia pazienza.
L’altro giorno, però, mi sono reso conto di una cosa nuova.
Eravamo andati insieme a prendere nostro figlio all’asilo e, come da copione, io ed il mio bambino eravamo già all’ascensore, mentre mia moglie era ancora entusiasticamente sprofondata in un vivace ciaccolìo tra mamme, maestre e forse anche bidelle. Al secondo genitore in uscita che ci è passato davanti il mio sguardo si è deposto malinconico e rassegnato sulla mia consorte, ancora là, in fondo al corridoio, ma lontana anni luce da ogni proposito di congedarsi e raggiungerci.
È lì che una consapevolezza è venuta a galla tra i pensieri annacquati dallo sconforto di quel momento: il mio matrimonio è la storia di un’interminabile attesa.
Poi però un rimasuglio di lucidità mi ha preso per mano e mi ha condotto ad un livello più profondo di quell’affermazione in apparenza tanto triste e deludente, verso un senso compiuto e misterioso: l’attesa della mia sposa mi pare quasi, invero, la figura ed il veicolo di un’altra attesa, anzi, dell’attesa di un Altro.
Quello Sposo che ha promesso di ritornare; per la cui assenza, in gioventù (quando ero io a restargli lontano), mi sentivo l’anima lacerata, e per la cui presenza nascosta, ora che mi ha ritrovato, il mio cuore ha talvolta provato una lancinante nostalgia.
Anche Lui, come mia moglie, mi dice “aspetta” e poi ritarda, lasciandomi lì, a riceverlo in forma di caparra, ma non sazio, bensì desideroso di quell’altra comunione, quella che sarà soltanto “dopo”.
E così non mi rimane che attenderlo, scrutando quei segni che potrebbero annunciarlo vicino, ed in ciò vedo come la mia sposa involontariamente mi ammaestri, incoraggiandomi col suo modo d’essere sempre in ritardo, a vigilare, e diventando così ignaro strumento della mia crescita, perché io venga spronato a perseverare in quella tensione a Lui che è mio destino.
Perciò ti ringrazio moglie mia, perché col tuo farti aspettare mi ricordi che questa vita è come una tavola imbandita a cui manca l’ospite d’onore e a cui non ci si deve sedere finché non giunga l’ora in cui Egli venga.