martedì 6 agosto 2013

La guerra delle due croci



Bonhoeffer. La guerra delle due croci
di Pietro Citati
in “Corriere della Sera” del 6 agosto 2013
Quella di Dietrich Bonhoeffer era una delle grandi famiglie aristocratiche della Germania luterana. I
von Hase, a cui apparteneva la madre, avevano stretti legami con la corte imperiale: la casa di
Berlino, vicino al Tiergarten, aveva i muri in comune con il parco di Bellevue, dove giocavano i
figli dell'imperatore. Non c'era ramo della cultura tedesca a cui i Bonhoeffer e i von Hase non
fossero legati: teologia, musica, filosofia, psicologia, psichiatria, fisica, pittura, scultura. Il padre di
Dietrich, Karl, neurologo e psichiatra, non si dichiarava cristiano. Ma tutta la famiglia era imbevuta
dal profondo sentimento religioso della madre, il cui nonno, Karl August von Hase, era stato un
teologo famoso. Quando i genitori e i figli si riunivano nella casa spaziosissima di Breslavia e poi di
Berlino e nelle belle case alpine, si avvertiva sempre — scriveva Dietrich alla nonna — quale dono
fosse l'essere una grande famiglia, che viveva nel respiro e nell'abbraccio del Signore.
Dietrich, che nacque nel 1906, aveva sette fratelli: Sabine era sua sorella gemella. A otto anni
cominciò a ricevere lezioni di piano e a leggere con grande abilità gli spartiti. A 10 anni eseguiva le
sonate di Mozart; a 14 compose una cantata sul sesto verso del Salmo 42, «l'anima mia è
abbattuta»; poi sedeva al pianoforte e improvvisava Il cavaliere della Rosa. Per molto tempo pensò
di dedicarsi alla carriera musicale; e la musica continuò sempre a rappresentare una parte essenziale
della sua vita, che legava nel pensiero alla famiglia. A 14 anni, ebbe l'impressione che Dio l'avesse
colto; e dichiarò che avrebbe fatto il teologo. Studiò un anno a Tubinga: sette semestri a Berlino,
conseguendo il dottorato nel 1927, a 21 anni. La sua tesi fu intitolata Sanctorum Communio. Fin
dalla giovinezza subì la profonda influenza di Karl Barth, che nel 1922 aveva pubblicato il
commento all'Epistola ai Romani: amava la sua focosa e analitica arte di discutere. Malgrado
qualche polemica, rimase sempre suo amico e confidente: mentre nel dopoguerra Barth recensì
entusiasticamente i libri di Bonhoeffer.
Aveva appreso dai suoi famigliari un ferreo autocontrollo: gli avevano insegnato che abbandonarsi
alle emozioni «era un eccesso di indulgenza verso se stesso»; e si difendeva da se stesso con la
precisione e il rigore del linguaggio. Si sentiva dominato da una specie di oscura ambizione, che
vinse soltanto con la Bibbia. La sua vita era piena: concerti, teatri, mostre d'arte, viaggi nello
Schleswig-Holstein, nelle Dolomiti e a Venezia. Era vitale, fresco, ardente, impulsivo, curioso,
pieno di comunicativa: «annunciava davvero — disse un amico — il Vangelo alla gente della
strada»: si apriva parlando a tutte le persone; amava e pronunciava la verità; affascinava gli amici e
gli studenti; rideva volentieri. «Quando c'era in giro Bonhoeffer — disse un altro amico — c'era
sempre una quantità di humour». Ma non abbandonava il rigore del linguaggio, perché sapeva che
anche nel riso deve nascondersi una sovrana precisione. Via via che la Bibbia lo possedeva, si
sentiva invaso dalla felicità cristiana. Mentre avanzava nell'incomprensibile rivelazione, nel mistero
del Cristo, si rendeva conto che «la gioia autentica è sempre qualcosa di incomprensibile, sia per gli
altri sia per chi la sperimenta».
Leggeva incessantemente la Bibbia, perché credeva che soltanto la Bibbia fosse la risposta a tutte le
nostre domande. «Se ci attendiamo dalla Bibbia una risposta definitiva, essa ce la fornisce… Dio ci
dona la sua parola; e con questa ci spinge a cercare una conoscenza sempre più ricca e un dono
sempre più splendido. Quanto più riceviamo, tanto più dobbiamo cercarlo; e quanto più cerchiamo,
tanto più riceviamo da lui. Una volta che la parola di Dio ci ha raggiunto, possiamo dire: ti cerco
con tutto il cuore. Egli ci vuole per intiero». Leggeva la Bibbia la mattina e la sera, spesso anche
durante la giornata: ogni giorno sceglieva un testo, che teneva presente durante la settimana,
cercando di calarsi in esso totalmente. A volte, si fermava ore e giorni su un'unica parola prima di
essere illuminato con la giusta conoscenza. Leggeva i Salmi, e li faceva leggere e recitare ai suoi
allievi. Gesù era morto sulla croce con le parole dei Salmi sulle labbra: questo era il fatto decisivo.
Già nella giovinezza, fu un grande teologo. Sequela (1937), il suo capolavoro, è uno dei pochissimi
veri testi teologici del secolo scorso. Ma, mentre studiava, pensava, costruiva un sistema teologico,
si sentiva insofferente e prigioniero. La sua vocazione più profonda era quella di pastore: predicava,
predicava a un gruppo di persone, raccolto attorno a lui come un caldo nido. «Gli esseri umani —
scriveva — hanno bisogno di pastori: Cristo era il pastore, noi dovremmo essere pastori di uomini
mediante lui e come lui». Predicava ai bambini, soprattutto durante l'anno che passò a Barcellona,
durante quello di New York; e poi di nuovo a Berlino, dove tenne un memorabile corso ai
cresimandi di un povero quartiere operaio. «Se non riusciamo a comunicare ai bambini — proclamò
— le idee più profonde su Dio e la Bibbia, allora c'è qualcosa che manca». «Quando lo vedevate
predicare — ricordava una vecchia amica — vedevate un giovane irresistibilmente preso da Dio».
* * *
Il 6 settembre 1930 partì per gli Stati Uniti, dove rimase circa dieci mesi: questo lungo soggiorno
ebbe una influenza decisiva sulla sua fede. Bonhoeffer si chiedeva: «ma qui, negli Stati Uniti, esiste
ancora il Cristianesimo? Non ha alcun senso aspettare dei frutti dove la Parola di Dio non è più
predicata». In apparenza, si parlava di tutto; ma c'era solo una cosa di cui non si parlava, cioè del
Vangelo di Gesù Cristo, della croce, del peccato e la remissione dei peccati, della morte e la vita.
Non esisteva una teologia: si imbastivano chiacchere inconsistenti, senza il minimo fondamento
oggettivo. Gli studenti non avevano cognizioni dogmatiche: si imbevevano di frasi su liberalismo e
umanesimo, parlavano di idealismo etico e sociale, di progresso cristiano, senza che ci fosse la
minima traccia della figura viva del Cristo. Ma proprio lì, in America, dove Cristo sembrava
scomparso, Bonhoeffer scoprì un segno vivissimo della sua parola: nelle chiese dei negri, dove sentì
predicare con forza il Vangelo vissuto. Amava moltissimo gli spiritual: andava ad ascoltarli ad
Harlem; poi comprò le incisioni dei canti che lo avevano affascinato e le fece conoscere ai suoi
amici europei. Lì ritrovò la voce della Bibbia e di Lutero.
Il suo pensiero era completamente imbevuto nell'idea di incarnazione: quella cristiana era una
religione della vita, del corpo, della terra, del qui — non di un inconcepibile e poetico altrove, di un
aldilà distante e irraggiungibile. «Vorrei — diceva Bonhoeffer con la sua voce alta, drammatica e
sonora — parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nella debolezza, ma nella forza, dunque non
in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell'uomo. La Chiesa non sta dove
vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del nostro villaggio. Così dice l'Antico
Testamento, e noi leggiamo il Nuovo Testamento ancora troppo poco a partire dall'Antico… Non
esistono due realtà, ma solo una realtà, e questa è la realtà di Dio nella realtà del mondo».
Cristo era l'Incarnato, così come noi siamo incarnati. Egli era completamente uomo. Niente di
umano gli era stato estraneo. «L'uomo che io sono — diceva — lo è stato anche Gesù Cristo». Con
l'umiliazione, Cristo entrò liberamente nel mondo del peccato e della morte. E vi entrò in modo da
nascondersi in esso, in modo da non essere più visibilmente conoscibile come Dio-uomo. Non andò
tra gli uomini nella forma di Dio, ma vi andò in incognito, come mendicante, come emarginato tra
gli emarginati, come senza peccato tra i peccatori e anche come peccatore tra i peccatori. Questo —
Bonhoeffer insisteva — era il problema centrale della Cristologia. Dove il nostro intelletto si
indigna e dove la nostra natura si ribella, proprio lì stava Dio. Lì egli disorientava e scandalizzava
l'intelletto dei sapienti; lì voleva essere presente, e nessuno poteva impedirglielo. Dio amava ciò che
è piccolo e basso; ciò che è perduto, ciò che non è considerato o è insignificante, ciò che è debole e
affranto. Non si vergognava della bassezza dell'uomo: penetrava dentro di essa, usava una creatura
come suo strumento, la afferrava, e compiva meraviglie dove nessuno le attendeva.
Così il mondo si trasformava. Non esisteva alcuna parte di esso, per quanto empia e perduta, che
non fosse stata accolta da Dio in Gesù Cristo, e non fosse stata riconciliata con lui. Chi guardava
con fede il corpo di Gesù Cristo, non poteva più parlare del mondo come se fosse stato perduto, e
separato da Cristo. Cristo era morto per il mondo, e solo dentro il mondo Cristo era Gesù.
Bonhoeffer non credette mai che esistesse un luogo dove il cristianesimo potesse rifugiarsi, né
esternamente, in qualche sfera ideale, né interiormente, nell'intimità del cuore. Proprio lui, che
pensava soltanto al Cristo, visse tutta la vita nelle bassezze del mondo, nelle quali infuriava il nazismo. Non fuggì mai il reale: la sola volta in cui lo fuggì — nell'estate del 1939 quando andò per
breve tempo negli Stati Uniti — si affrettò a tornare in Germania, nell'orrore. Sapeva che per lui
esisteva una sola via: quella che lo avrebbe portato all'impiccagione, come la strada di Cristo lo
aveva portato alla croce. Ma non pensò mai che Dio lo avesse abbandonato.
Per quanto fosse così appassionato ed ardente, Bonhoeffer comprese che egli stava nella più
profonda solitudine: la solitudine in cui vive un uomo al cospetto del Dio vivente. Qui nessuno
poteva assisterlo: nessuno poteva sollevarlo da qualcosa. Qui Dio gli imponeva un peso che lui
doveva portare da solo. Soltanto grazie all'appello di Dio egli diventava «io»: isolato da qualunque
altro, chiamato da Dio a rendere conto, consapevole di essere solo al cospetto dell'eternità. Era la
situazione in cui gli si rivelava l'aspetto tremendo del sacro. Come nell'antica Israele chi toccava
l'arca dell'alleanza moriva, poiché da essa promanavano forze a cui nessuno era in grado di reggere,
così se egli si avvicinava troppo alla Parola odierna, era destinato a perdere la vita. Ma da questa
Parola promanava uno splendore così stupendamente silenzioso, che egli non riuscì mai a staccare
gli occhi da lei.
Molti credevano che la Parola divina scaturisse in noi dall'interno: dal più profondo anelito, dai
desideri e dalle speranze più recondite del nostro cuore. In realtà, Bonhoeffer aveva compreso che la
Parola divina sopraggiungeva in noi, o almeno in lui, dall'esterno; era la Parola sconosciuta,
inattesa, violenta, sconvolgente del Signore, che chiama al suo servizio chi vuole e quando vuole.
Ma era, al tempo stesso, la Parola paurosamente conosciuta e vicina, affascinante e seducente, che
esprime l'amore per noi del Signore.
Bonhoeffer ritrovò una parte di se stesso nel libro del profeta Geremia. Tutti avevano trattato
Geremia da sognatore, ostinato, seccatore, nemico del popolo, come sono stati trattati in ogni tempo
coloro che vengono conquistati da Dio. Quanto volentieri Geremia avrebbe taciuto le sue
amarissime verità. Ma non poteva farlo; era costretto: come se qualcuno gli stesse alle calcagna, e lo
spingesse da una verità all'altra, da una sofferenza all'altra. Non era più padrone di sé stesso: non
poteva disporre di sé; un altro si era impossessato di lui e lo aveva invaso. Geremia aveva detto:
«Signore, mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto forza e hai prevalso». Anche
Bonhoeffer sapeva di essere alleato di Dio; questa alleanza rendeva la sua vita una tragedia
serissima e gravissima, proprio perché si trattava di un'alleanza con Dio. Così le parole di
Bonhoeffer diventavano strane e inflessibili, a volte incomprensibili dal punto di vista umano e
psicologico.
Come scrisse in Sequela, Bonhoeffer ascoltava la parola di Gesù, che gli diceva: «Seguimi!». Non
aveva nessuna importanza se chi ascoltava questa parola fosse Levi, il pubblicano, seduto al banco
della gabella: oppure qualche fedele di Gesù che doveva seppellire il padre, come comandava la
Legge; oppure Bonhoeffer stesso, pastore della Chiesa Confessante, nella Germania nazista. La
parola di Gesù aveva una autorità immediata: essa esigeva ubbidienza, accettazione incondizionata,
sequela; e invitava a violare la Legge e qualsiasi comandamento divino ed umano. Nulla doveva
frapporsi tra Gesù e colui che era chiamato a seguirlo: fosse pure il motivo più grande e più sacro.
Nel vangelo di Luca, Gesù aveva detto: «Se uno viene da me e non odia suo padre, sua madre, la
moglie e i figli, i fratelli e le sorelle, e anche la sua propria vita, non può essere mio discepolo». La
domanda di Gesù faceva del suo discepolo un singolo: un uomo senza padre, senza madre, senza
figli, fratelli e sorelle, e anche senza se stesso; e lo gettava nella più assoluta solitudine, precarietà e
insicurezza. La domanda di Gesù era una rottura: si frapponeva tra Bonhoeffer e il mondo, tra
Bonhoeffer e tutti gli altri uomini; violava ogni amore e ogni amicizia. Qualsiasi vincolo tra lui e gli
altri doveva passare attraverso la mediazione di Cristo, altrimenti era destinato al fallimento, perché,
tranne Cristo, non esiste nessuna strada che ci conduca verso il prossimo. Così, proprio per questo,
le amicizie di Bonhoeffer erano così totali ed appassionate: perché nascevano da una freddezza
originaria, e perché Cristo era il mediatore nascosto che le rendeva possibili ed ardenti.
Un altro, doppio sentimento rendeva drammatico il cristianesimo di Bonhoeffer. Per un verso, egli
pensava che ormai, nell'anno 1933 o nell'anno 1939, fosse troppo tardi. La Chiesa di Cristo era
finita; e tutte le sue preghiere, le sue prediche e le sue azioni non potevano far altro che rendere
meno pesante il congedo, creando qualche illusione. Ma, per un altro verso, il Nuovo Testamento
avvicinava la vita al morente, e affermava l'identità di morte e di vita della croce di Cristo. Da un
lato, la Chiesa era un pezzo di mondo: mondo perduto, empio, vano, posto sotto la maledizione,
perché vi si abusava del nome di Dio. Ma, d'altro lato, la Chiesa era una parte qualificata del
mondo, perché, attraverso la persona di Cristo, Dio entrava personalmente dentro di esso.
* * *
Il sinodo nazionale luterano del 5 settembre 1933 venne dominato in modo preponderante dai
cosiddetti «cristiano-tedeschi»: l'ottanta per cento dei delegati indossava la camicia bruna. Due mesi
dopo, ventimila «cristiano-tedeschi» si riunirono allo Sport-Palast di Berlino, in una grande sala
decorata con bandiere naziste e striscioni che dicevano: «Un solo Reich. Un solo Popolo. Una sola
Chiesa». Il capo dei «cristiano-tedeschi» di Berlino domandò che la Chiesa luterana si liberasse per
sempre dai lugubri resti dell'Antico Testamento, «con la sua moralità giudaica fatta di quattrini e le
sue storie di mercanti di vacche e di magnaccia». Anche Gesù doveva corrispondere «interamente
alle esigenze del nazionalsocialismo». Il simbolo della croce era «una ridicola rimanenza di
giudaismo, inaccettabile per i nazionalsocialisti». L'anno dopo tutti i gruppi giovanili della Chiesa
protestante dovettero fondersi con la gioventù hitleriana; e i nuovi pastori furono obbligati a giurare
davanti a Dio che «sarebbero stati leali ed obbedienti al Führer del popolo dello Stato tedesco,
Adolf Hitler».
Nella Domenica della Riforma del 1932, Bonhoeffer aveva predicato, evocando un passo
dell'Apocalisse: «Ma ho questo contro di te: che hai lasciato il tuo primo amore. Ricordati da dove
sei caduto, e ravvediti, e fa' le opere di prima: se no, verrò a te, e rimuoverò il candelabro dal suo
posto, se non ti ravvedi». La Chiesa protestante — disse Bonhoeffer — era giunta alla sua
undicesima ora: stava morendo, se non era già morta. Anche Lutero era morto, ed era «un segno di
inescusabile leggerezza e superbia» appropriarsi un'ultima volta delle sue famose parole: «Qui
rimango, e non posso fare altrimenti». L'anno dopo insisté: «Credo che tutta la cristianità debba
pregare con noi che venga la resistenza fino al sangue, e che si trovino uomini capaci di sostenerla».
Non ci fu nessuna resistenza fino al sangue. Gli uomini della Chiesa Confessante, nella quale erano
confluiti gli avversari di Hitler, non avevano né chiarezza né coraggio intellettuale; e persino un
grande teologo come Karl Barth pensava che si potesse discorrere e trattare con Hitler. Solo
Bonhoeffer e pochi amici sapevano che non c'era la minima possibilità di compromesso: erano
disperatamente soli; bisognava abbandonare il corpo violento e marcio della Chiesa luterana. «Noi
— diceva Bonhoeffer — con questo tipo di Chiesa non abbiamo nulla in comune, e, se è così,
dobbiamo dirlo. Abbiamo aspettato abbastanza a lungo». Con Hitler, il male si era tolto la maschera,
e aveva occupato il cuore della scena del mondo. Ora la malvagità assoluta del male si mostrava
chiaramente, e rivelava il fallimento dei tentativi di fare i conti con esso. La sola soluzione era
compiere la volontà di Dio: radicalmente, coraggiosamente e gioiosamente. Così Bonhoeffer
accettò tutti i mezzi di lotta, per quanto potessero dispiacere alla sua coscienza di pastore; e si
impegnò nei due tentativi di cospirazione, quella dell'Abwehr dell'ammiraglio Canaris, e quella
raccolta attorno al generale Beck, che culminò nell'attentato di Klaus von Stauffenberg. Se gli fosse
stato possibile — disse —, avrebbe ucciso Hitler con le sue mani.
Prima della morte, la vita gli offrì un ultimo dono. Alla fine del 1942, conobbe Maria von
Wedemeyer: una diciottenne, che apparteneva anch'essa alla aristocrazia luterana. Lui aveva già
trentasei anni, ma non aveva rinunciato alla passione. Quando poté scriverle, le disse: «Posso
parlare semplicemente, così come sento nel cuore? Capisco e sono sopraffatto dalla consapevolezza
che mi è capitato un regalo senza uguali, dopo tutta la confusione delle ultime settimane non avevo
più osato sperarlo, e ora questa cosa incredibilmente grande e gioiosa è qui, e il cuore si apre e si
gonfia e straripa di gratitudine e di vergogna, e non riesce ancora a rendersi conto di questo "Sì",
che deciderà tutta la nostra vita». Finalmente, in mezzo alle rovine della Germania, tra i morti in
Russia, i bombardamenti e i campi di concentramento e le fucilazioni, proprio adesso, mentre gli
sembrava di essere cacciato dalla terra, Dio gli aveva donato uno spazio di felicità sulla terra.
Maria era fresca, intelligente, sensibile. Attendeva le lettere di Dietrich con una felicità estrema: le attendeva tutta sola nella sua stanza, dove ogni libro le raccontava qualcosa di lui. «Se potessi una
volta descriverti — gli diceva — quale festa e quale giorno di gioia sia per me quando arriva una
tua lettera. È quasi impensabile che possa diventare ancora più grande. Forse è bene che la felicità
di averti divenga avvertibile lentamente, altrimenti non potrei sopportarla». Bonhoeffer amava
molto la sua natura. «Tu — le diceva — per fortuna non scrivi libri, ma fai, senti, riempi con la vita
reale ciò di cui io ho solo sognato. Conoscere, volere, fare, sentire e soffrire in te non sono divisi,
ma sono una grande unità, e l'uno è rafforzato dall'altro. Tu non lo sai, e questa è la cosa migliore:
forse non dovrei nemmeno dirtelo».
Il 15 aprile 1943, Bonhoeffer, che da tempo veniva spiato dalla Gestapo, venne rinchiuso nel
carcere militare di Tegel, presso Berlino. La sua vita non mutò. Ogni mattina meditava mezz'ora su
un versetto della Scrittura; e recitava preghiere di intercessione per gli amici, i genitori, i parenti e i
pastori della Chiesa Confessante, che erano nei campi di concentramento, o morivano sul fronte
orientale. In pochi mesi, lesse due volte e mezzo l'Antico Testamento. Era affabile e gentile con le
guardie, che gli portavano i libri della biblioteca del carcere, e gli permettevano di scrivere alla
fidanzata, ai genitori e agli amici, sebbene ogni riga venisse controllata dal giudice. Nei primi
tempi, protetto da Canaris, e dallo zio Paul von Hase, comandante militare di Berlino, non veniva
ritenuto colpevole; e recitava con accortezza la parte del pastore semplice ed idealista, che non si
interessava di politica. Tutto gli dava gioia: le visite di Maria, i fiori d'autunno, la lettura di Stifter,
uno sguardo dalla finestra della cella, la mezz'ora di moto nel cortile del carcere, tra i castagni e i
tigli. Anche in prigione continuava ad amare la realtà dell'universo, che era il luogo
dell'incarnazione; e proteggeva la gioia con la pazienza, e la gioia e la pazienza con la speranza.
«Non delle nostre speranze — scrisse — ci dovremo un giorno vergognare, bensì della nostra
meschina ed ansiosa mancanza di speranza, che si contenta di questa terra».
Questo periodo di «carcere felice» precipitò dopo l'attentato fallito di Claus von Stauffenberg. L'8
ottobre 1944 Bonhoeffer fu trasferito segretamente nella prigione sotterranea della Gestapo a
Berlino, in una piccola cella senza finestra: non c'erano più le passeggiate nel cortile tra i tigli né le
visite di Maria né quelle dei genitori. Ma, negli ultimi giorni di dicembre, scrisse una lunga poesia,
il «saluto natalizio» per Maria, i genitori e i fratelli:
Circondato fedelmente e tacitamente da benigne potenze,/ meravigliosamente protetto e consolato,/
voglio questo giorno vivere con voi/ e con voi entrare nel nuovo anno;/ del vecchio, vogliono
ancora lamentarsi i nostri cuori,/ ancora ci opprime il peso di brutti giorni;/ oh Signore, dona alle
nostre anime impaurite/ la salvezza per la quale ci hai creati./ E tu ci porgi il pesante calice/ della
sofferenza, ripieno fino all'orlo,/ e così noi lo prendiamo grati, senza tremare,/ dalle tue buone ed
amate mani.../ ... Da potenze benigne meravigliosamente soccorso,/ attendiamo consolati ogni
futuro evento./ Dio è con noi alla sera e al mattino,/ e certissimamente, in ogni nuovo giorno.
Le potenze benigne non seppero o non vollero proteggerlo: forse il suo sacrificio, come credo che
Bonhoeffer supponesse, era necessario, sebbene non sappiamo per quale ragione. Il 2 febbraio 1945
fu condannato a morte; il 7 febbraio, dopo un pesantissimo bombardamento americano che distrusse
la prigione della Gestapo, venne condotto nel campo di concentramento di Buchenwald, dove
rimase sette settimane. Aveva sempre avuto paura di non essere abbastanza forte per affrontare una
simile prova, ma adesso — arrivato all'estremo — comprese che nella vita non c'è nulla che
dobbiamo temere. Aveva nostalgia di casa, aspettando e anticipando colla mente il momento di
essere liberato dall'esistenza. «La morte — aveva scritto qualche anno prima — non è cattiva, se
non siamo diventati noi stessi cattivi. La morte è la grazia, il più grande dono di grazia che Dio
concede alle persone che credono in lui. La morte è mansueta, la morte è dolce e gentile...».
Insieme ad altri prigionieri, il 3 aprile 1945 Bonhoeffer venne chiuso in un furgone che lo condusse,
dopo un lungo, tortuoso e faticoso viaggio nella Germania Meridionale, a Flössenburg, dove arrivò
l'8 aprile, la prima domenica dopo Pasqua. Quel giorno, recitò la messa. Tra i fedeli c'erano un
cattolico e un russo, nipote di Molotov; egli lesse un passo di Isaia e un passo della prima lettera di
Pietro; e li spiegò con la sua robusta voce armoniosa, toccando il cuore di tutti. Non sappiamo se
dormì, la notte della domenica. All'alba del 9 aprile fu impiccato.