martedì 6 agosto 2013

Madonna povertà e Madonna economia




(Dionigi Tettamanzi) «Una Chiesa povera e per i poveri»: è un’espressione a un tempo semplicissima e formidabile che Papa Francesco ha fatto risuonare sin dall’inizio del suo pontificato e ripresa più volte con una continuità indubbiamente significativa. E non si tratta solo di parole, perché queste già stanno dicendo la loro fecondità attraverso diversi gesti e precise iniziative che le rendono ancora più concrete ed eloquenti. L’avvicinarsi dell’anniversario della morte di Paolo VI (6 agosto 1978) mi ha sospinto a cercare con particolare attenzione e a sottolineare una singolare corrispondenza, su questo preciso aspetto della realtà e della vita della Chiesa, tra l’appello di Papa Francesco e il magistero di Papa Montini. E così la mia appartenenza alla Chiesa ambrosiana, l’ordinazione presbiterale ricevuta da Montini e il servizio episcopale svolto a Milano mi hanno stimolato, ancora una volta, a riprendere e a rimeditare alcuni tra i tanti interventi magisteriali e pastorali del cardinale Giovanni Battista Montini su questo argomento.
Senza la pretesa di un’analisi ordinata, completa e approfondita, vorrei tentare una veloce corsa tra le numerose e preziose riflessioni in tema di «povertà della Chiesa» presenti soprattutto nelle sue omelie e nei suoi discorsi.
Inizio dalla Ecclesia pauperum riprendendo un importante rilievo teologico fatto dal cardinale Montini in un incontro con il clero ambrosiano, tenutosi a Varese il 6 febbraio 1963 e dedicato al concilio Vaticano II. L’arcivescovo si sofferma sul tema generale della “riforma”: «Il Papa l’ha detto non una volta sola: bisogna ringiovanire, bisogna ringiovanire i nostri cuori. Dobbiamo riprendere l’entusiasmo, la forza, i propositi, l’ingenuità — direi — dei primi giorni».
In questa prospettiva Montini parla della “dimensione ecclesiale» della povertà facendo riferimento al concilio e, in specie, all’intervento del cardinale Lercaro il 6 dicembre 1962. Citandolo a braccio, così osserva: «Il cardinal Lercaro ha fatto una bellissima affermazione sulla Ecclesia pauperum: “La Chiesa deve proprio prendere atto di questa coscienza, di essere lo strumento della Redenzione divina che Cristo ha operato nel mondo, deve sentirsi povera”». E l’arcivescovo di Milano aggiunge: «Ciò che di originale c’è nella sua affermazione è che questo è costituzionale, questo è essenziale, questo non si può dimenticare, che non è cosa secondaria, ma fa parte dell’essenza del meccanismo spirituale che Gesù ha creato per salvare».
E di seguito dice: «La prima beatitudine — Beati voi poveri di spirito perché vostro è il regno dei cieli — viene a ripercuotersi nelle anime, specialmente in quelle di coloro che divengono proprio i Suoi seguaci, i ministri di Cristo; bisogna cioè che le nostre speranze non siano fondate sui beni materiali, che pur son cose di Dio, ma che Dio non ha eletto a necessità indispensabile per il Suo Regno» (Discorsi e scritti milanesi, vol. III, p. 5576).
Sappiamo inoltre che al tema della Ecclesia pauperum sarà dedicata parte della Lettera pastorale del 1963 Il cristiano e il benessere temporale; così come sappiamo che Paolo VI fin dall’inizio del concilio chiederà al cardinale Lercaro, che gliela presenta nel novembre 1964, una relazione sul tema della Chiesa dei poveri.
Non è difficile rilevare, anche in rapporto alla situazione economico-sociale che stiamo vivendo, come la sottolineatura dell’ecclesia1ità della povertà evangelica sia quanto mai forza rigeneratrice per la vita spirituale e pastorale delle comunità cristiane e insieme per la testimonianza di servizio che la Chiesa può offrire per il cammino veramente e pienamente umano della società.
La Lettera pastorale ora citata sembra completare come in un cerchio le Lettere pastorali precedenti, quelle sul senso religioso e sul senso morale, inserendole nel contesto culturale in cui simili valori evolvono: è la civiltà del benessere che si configura nel segno di una profonda, drammatica ambiguità.
L’arcivescovo così scrive: «Il cristiano è a priori ottimista dinnanzi alla visione dei beni temporali. Non è ostile, è amico; non è scandalizzato, è ammirato; non impaurito, è simpatizzante. Sarà prudente, ma per dovere di rispetto e per istinto di superiorità. Parimenti il cristianesimo non è un ostacolo al progresso moderno, perché non lo considera nel solo aspetto tecnico ed economico, ma nel suo integrale sviluppo» (ibidem pp. 5613-5616). Montini sottolinea «il dramma del contrasto fra il cristiano e le realtà temporali», contrasto dovuto al fatto che «nelle cose di questo mondo, nell’organizzazione specialmente che vi ha dato la malizia umana (o diabolica) vi può essere, anzi spesso vi è un disordine profondo e misterioso. Il distacco, che la scienza e la prassi moderna hanno operato fra l’economia e la morale, e conseguentemente dalla religione, è uno degli errori più gravi del tempo nostro (...) Il benessere economico tende ad assumere il primo posto nella scala dei valori. Sembra che sia il sommo bene, l’unica salute, il fine che giustifica ogni sforzo e appaga ogni aspirazione. Questa tendenza a sovra-estimare il benessere economico può assumere carattere antireligioso, o almeno areligioso» (ibidem, pp. 5616, 5621, 5627).
La conseguenza di questa tendenza è la corruzione del senso morale e dunque la trasformazione del benessere in fenomeno antisociale: non solo nelle persone, ma anche nelle stesse realtà istituzionali. Ne viene l’urgenza, prima ancora che di riforme sociali, economiche, giuridiche, politiche, di una profonda conversione morale. Scrive Montini: «Vi sono capitali enormi, che hanno bisogno di purificarsi del modo discutibile o troppo facile con cui sono stati accumulati; vi sono ricchezze ingenti e stagnanti, che attendono di diventare provvide e benedette aprendosi a scopi caritativi e sociali (...) Resta sempre vera la parola del Maestro Divino: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta”» (ibidem, p. 5638).
La conversione morale secondo la specificità cristiana, dice Montini, si radica e si sviluppa considerando «il mistero della povertà nel grande disegno della Redenzione». L’arcivescovo è pienamente consapevole che «fare oggi l’elogio della povertà sembra assurdo», ma non teme di vivere il «profetismo» che è proprio d’ogni discepolo di Cristo. E così si esprime: «La povertà sarà l’abito di Cristo e quello dei suoi, quando lo vogliono imitare, rappresentare, predicare. I poveri saranno i primi nel regno di Dio, e la società che da Cristo nascerà non sarà fondata sul fasto, sulla potenza, sulla fiducia nei beni temporali, ma piuttosto sul vuoto terreno della povertà, a cui supplisce una virtù tutta spirituale, che dall’alto soccorre e sostiene. È l’economia del Vangelo, che si perpetua nell’Ecclesia pauperum, come ha detto il regnante Pontefice» (ibidem, p. 5633).
Il campo di riflessione sulla «Chiesa povera e per i poveri» negli interventi magisteriali e pastorali del cardinale Montini si fa sempre più largo e certamente abbisogna di ulteriori spazi per poter raccogliere, stimare e valorizzare tutta la loro ricchezza teologica e spirituale.
Vorremmo, in riferimento alla comunità cristiana come tale e dunque a tutti i Christifideles nelle loro diverse vocazioni e stati di vita, rimandare in particolare a due omelie: la prima tenuta ad Assisi il 4 ottobre 1958 dal titolo «Essere poveri, cioè liberi» (ibidem, vol. II, pp. 2370-2377) e la seconda tenuta a Milano nella celebrazione del Santo Natale 1959, intitolata «Ricchezza del Natale» (ibidem, vol. II, pp. 3226-3231).
Nell’omelia tenuta ad Assisi troviamo una singolare preghiera rivolta a san Francesco. La trascriviamo, almeno in parte: «Francesco, aiutaci a purificare i beni economici dal loro triste potere di perdere Dio, di perdere le nostre anime, di perdere la carità dei nostri concittadini. Vedi, Francesco, noi non possiamo straniarci dalla vita economica: è la fonte del nostro pane e di quello altrui; è la vocazione del nostro popolo, che sale alla conquista dei beni della terra, che sono opere di Dio; è la legge fatale del nostro mondo e della nostra storia. È possibile, Francesco, maneggiare i beni di questo mondo, senza restarne prigionieri e vittime? È possibile conciliare la nostra ansia di vita economica, senza perdere la vita dello spirito e l’amore? È possibile una qualche amicizia fra Madonna Economia e Madonna Povertà? O siamo inesorabilmente condannati, in forza della terribile parola di Cristo: “È più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli?” (Matteo, 19, 24). Anche il nostro sant’Ambrogio ci aveva detto parole tremende: “O ricco, tu non sai quanto sei povero!” (De Nabuthae, 2, 4), ma non le ricordiamo più, e non le abbiamo mai bene comprese. E anche tu, Francesco, non hai insegnato ai tuoi figli a lavorare, a mendicare, e a beneficare, cioè a cercare e a trattare quei beni economici, di cui la vita umana non può essere priva?».
Nell’ambito della Chiesa un dono e un compito specifici circa la «Chiesa povera e per i poveri» sono propri dei presbiteri e delle persone di vita consacrata. A questo riguardo sono frequenti e precise le riflessioni e le esortazioni dell’arcivescovo. Mi limito qui, a titolo d’esempio, a qualche citazione in riferimento ai presbiteri. Così leggiamo nella Lettera pastorale Il cristiano e il benessere temporale del 24 febbraio 1963: «Questa raccomandazione alla semplicità e all’austerità della vita e al distacco dal denaro, dagli agi superflui e da ogni vanitosa esteriorità noi vogliamo fare in modo particolare a noi stessi ecclesiastici: vi siamo più degli altri obbligati per i più stretti vincoli che a Cristo ci uniscono, per l’esempio che ogni altro si attende da noi, per l’efficacia che la nostra linea di povertà conferisce al nostro ministero, e per la sterilità che invece lo colpisce quando appare rivestito da qualche vanità o governato da qualche venalità. Se vogliamo essere autentici ministri di Dio dobbiamo guardarci da ogni avarizia, da ogni affarismo, da ogni mondanità. Anche la ricerca dei mezzi per le opere di bene e di ministero non deve diventare pesante e indiscreta, e non deve apparire prevalente sui fini stessi a cui i mezzi sono destinati, ma deve mostrarsi sempre limpida e disinteressata, quasi una prova della povertà che la promuove e della carità a cui soltanto deve servire...» (ibidem, vol. III, pp. 5631-5632).
In un’altra omelia, del 14 novembre 1957, leggiamo: «La ricerca dei mezzi che tanto impegna il nostro ministero (...) non attenui la ricerca dei fini. Quante volte l’esserne privi è più forte e più efficace che l’esserne troppo provveduti! Spesso l’apostolato si arresta proprio perché è diventato pesante dei mezzi con cui si è caricato. Il sacerdote, allora, passa dalla ricerca dei fini allo studio dei mezzi: il problema amministrativo soverchia quello apostolico e il desiderio di conservare i beni della terra, anche se destinati al servizio di Dio, appesantisce la libera ricerca dei beni superiori» (ibidem, vol. I, p. 1793). E ora non trovo migliore conclusione che riportare alcune parole de Il Pensiero alla morte, con la seguente raccomandazione fatta da Paolo VI alla Chiesa: «E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dire? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte e amorosa verso Cristo».
L'Osservatore Romano

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L'Osservatore Romano
«Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce»; il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, ha scelto un brano tratto dal Pensiero alla morte per ricordare Papa Montini durante la messa del 6 agosto nella basilica di San Pietro, presso l’altare della Cattedra, in occasione del trentacinquesimo anniversario del suo dies natalis.

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In morte di Paolo VI
Vatican Insider
(Gianni Gennari) Quel giorno, il 6 agosto 1978, aprì la strada a diverse novità. I ricordi del teologo-giornalista tra Giovanni Paolo I e don Germano Pattaro. 6 agosto 1978, festa liturgica della Trasfigurazione di Cristo, 35 anni orsono…E’ il giorno della morte in qualche modo (...)