mercoledì 25 giugno 2014

Il segreto del barrio Flores




Omar Abboud racconta la sua amicizia con Jorge Mario Bergoglio.

Dialogo interreligioso. Omar Abboud è presidente dell’Instituto del Diálogo Interreligioso de Buenos Aires. L’istituto, nato il 15 aprile del 2001, è stato fondato ufficialmente nel 2005, insieme al sacerdote Guillermo Marcó (responsabile della pastorale universitaria), e al rabbino Daniel Goldman (leader spirituale della comunità Bet El).
(Silvia Guidi) Alla domanda più scontata, sentita mille volte da quando Bergoglio è diventato Papa Francesco, risponde con una battuta: «In cosa è cambiato rispetto a quando era da noi? Non saprei, diciamo che forse era più magro; qui da voi si mangia bene» sorride Omar Abboud, presidente dell’Instituto del Diálogo Interreligioso de Buenos Aires, l’amico musulmano che ha accompagnato il Papa, insieme al rabbino Abraham Skorka, nel recente viaggio in Terra Santa. 
Di passaggio da Roma, è venuto a trovarci nella redazione del nostro giornale e ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda su di lui e sulla sua amicizia con l’arcivescovo di Buenos Aires. Per prima cosa ci mostra una foto del dicembre di due anni fa — un incontro di preghiera comune, con ortodossi, evangelici e altre confessioni religiose per la pace in Medio Oriente organizzato da Bergoglio nella capitale argentina — segno di una stima reciproca che si è consolidata nel tempo. Durante l’intervista, lo sguardo si concentra attento e cortese sull’interlocutore ma a poco a poco, lentamente, viene catturato dalla parete piena di libri oltre la scrivania della stanza in cui siamo — quella del direttore — abbastanza vicina per permettere di distinguere i titoli dei volumi; una tentazione troppo forte per un bibliofilo di lungo corso, nato in una famiglia in cui la passione per i libri è un tesoro tramandato da più generazioni.
Ci parli un po’ della sua storia.
Sono libanese da parte di padre e siriano da parte di madre: i miei nonni paterni sono arrivati in Argentina negli anni Trenta, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Mio nonno Ahmed Abboud fondò la casa editrice El Nilo e pubblicò la prima traduzione del Corano in spagnolo fatta da un musulmano direttamente dall’arabo, un’impresa durata sette anni che avrebbe poi avuto un impatto molto forte nella comunità ispanofona dell’epoca. Insegnava lingua francese, ma conosceva bene anche l’italiano e l’inglese oltre all’arabo e anche a un po’ di tedesco e di russo.
Un umanista... 
Sì, decisamente. La storia della presenza araba in America del Sud è affascinante, risale all’arrivo degli equipaggi islamici nelle prime spedizioni per mare; anche le parole della cultura equestre argentina risentono molto dell’influsso arabo. Oggi i musulmani in Argentina sono circa cinquecentomila, ma oltre un milione di argentini ha origini mediorientali.
Le pubblicazioni di El Nilo ebbero successo?
Molto; mio nonno ha curato l’edizione anche dei poeti arabi vissuti in Spagna e in Sicilia, e molti altri libri. Aveva una biblioteca sui settemila, ottomila volumi.
Come ha conosciuto l’arcivescovo della sua città?
Nel 2002, il 25 maggio, in occasione del Te Deum in cattedrale. Era un periodo difficile per molti motivi. Nella mia personale percezione della storia, l’11 settembre, a livello mondiale, è stato un evento ancora più decisivo del crollo del Muro di Berlino. Da allora è più difficile far emergere la voce della maggioranza silenziosa degli islamici che desidera solo vivere e lavorare in pace, soverchiata dalla violenza dei gruppi fondamentalisti. Solo un programma educativo a lungo termine può cambiare davvero questa situazione, dobbiamo puntare sull’educazione. Per questo è nato l’Instituto del Diálogo Interreligioso de Buenos Aires.
In collaborazione con Bergoglio. 
Che ha sempre denunciato con parole molto chiare e dure ogni tipo di terrorismo. È un uomo di una grande cultura, con una capacità di analisi delle situazioni sociali non comune; mi ha sempre colpito da quando lo conosco il fatto che non è legato alla politica, ma interessato a richiamare la politica sui temi della povertà e dell’esclusione. Le sue sono sempre omelie, mai comizi. Capisce il popolo, e non perde occasione per segnalare al potere temporale i suoi errori. È stato ed è tuttora un arricchimento molto grande essere suo amico. Lo sguardo sui poveri, su chi vede la sua dignità ridotta, mortificata o negata, trattata come spazzatura, la sua coerenza, l’identità fra quello che dice e quello che vive stupiscono il mondo, ma non noi argentini, che lo conosciamo da tempo. Ci ha sempre aperto le porte della cattedrale, ma mai mescolando i riti, rispettando la singolarità e la storia di ciascuno di noi, la nostra diversa identità religiosa con i fatti, non solo a parole.
Quando le è arrivato l’invito ad accompagnare il Papa in Terra Santa?
In maniera del tutto inaspettata alla fine di febbraio quando Bergoglio ha accolto a Santa Marta una delegazione interreligiosa argentina composta da 45 persone (15 ebrei, 15 musulmani e 15 cattolici). Eravamo di ritorno da un pellegrinaggio di diversi giorni in Giordania, Israele e Palestina. Tutti i membri di quella delegazione, in un modo o nell’altro, erano legati da una particolare amicizia o vicinanza spirituale con il Papa, cosicché abbiamo voluto concludere quel pellegrinaggio a Roma. In quell’occasione è nata l’idea di invitare nella delegazione ufficiale un rabbino e un musulmano. Per me è stato un onore inaspettato. Nessuno è pronto a essere invitato a partecipare a un evento con queste caratteristiche, di scala mondiale. Penso che sia un segno dell’importanza che il Papa dà, nella sua visione, al dialogo interreligioso come strumento per costruire la pace.
Cosa significa per lei questa parola tanto consumata dall’uso?
Il dialogo non è un ambito per discutere di teologia o trovarsi a bere il tè e scambiarsi semplicemente delle cortesie. Si tratta di una costruzione quotidiana che serve per superare i pregiudizi e cercare di immedesimarsi con l’altro. Quando era arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio è stato sempre sinceramente interessato alle tradizioni religiose che sono minoranza in Argentina. È stato l’attore principale nella costruzione di luoghi di dialogo con le altre fedi. Il rapporto sia con ebrei che con i musulmani di Argentina è sempre stato rispettoso e cordiale. L’ho ascoltato tenere conferenze in molte occasioni. Sono stato sempre molto colpito dalla sua capacità di immedesimarsi con l’interlocutore.
La Terra Santa è una terra martoriata da secoli. Come può diventare un simbolo di pace?
È vero, l’iter della pace in Medio oriente è una storia fatta di speranze frustrate. La pace non è qualcosa che si può decidere per decreto. Si tratta di una costruzione che è nelle mani degli uomini e che si costruisce a partire da come le persone affrontano le situazioni. I leader religiosi hanno in questo secolo un ruolo centrale. Molti popoli nel mondo stanno ridefinendo la propria identità a partire da una visione religiosa o spirituale del vivere; in questo senso il contributo della religione è centrale. E la soluzione del conflitto in Medio oriente influirà sul mondo intero. Per questo è così importante che ci sia anche una “diplomazia spirituale” all’opera. In questo, il viaggio in Terra Santa del Papa ha superato ogni aspettativa.
Un’immagine vale più di mille parole.
Ma è anche vero che mille immagini non valgono un unico concetto, un singolo giudizio chiaro, in mezzo a una situazione politica di rara complessità. E in questo caso Papa Bergoglio, che prega davanti al muro di Betlemme e che bacia la mano alle vittime della Shoah, ha unito insieme immagini e concetti in un linguaggio simbolico tanto semplice quanto efficace. Ogni passo, dalla veglia di preghiera per la Siria in poi, è stato una piccola, grande opera d’arte politica; e una grande occasione di dialogo per il mondo islamico, una porta che si apre verso il mondo non musulmano. Dobbiamo cogliere quest’occasione, lasciando al passato la logica delle parole vuote, dei convegni di rappresentanza in cui si scambiano solo parole senza conseguenze reali e investire invece tempo ed energie nella conoscenza reciproca, cercando di non essere strumentalizzati da nessuno, perché talvolta la politica è più fondamentalista della religione. Nel barrio Flores a Buenos Aires musulmani, ebrei e cattolici sono abituati a vivere insieme, in pace, nel rispetto reciproco, e noi vorremmo esportare questa esperienza di convivenza. Abbiamo accompagnato per dieci anni Bergoglio in questo, lo accompagniamo anche adesso.
La conversazione si allarga e slitta lentamente su argomenti più privati, dalle discussioni in famiglia sulla migliore marca di cioccolato italiana all’ultimo incontro a cui ha partecipato insieme a Christopher Hitchens, dalle leggende sui jinn “buoni” presenti nella tradizione islamica alle ultime edizioni dell’opera di Borges, e lo sguardo si sofferma sempre più di frequente sulla parete tappezzata di libri, e in particolare, com’è naturale, sui libri che parlano di dialogo tra islam e cristianesimo. Volumi — come Louis Gardet: Philosophe chrétien des cultures et témoin du dialogue islamo-chrétien (1904-1986) di Maurice Borrmans (Les Éditions du Cerf, 2010) e Le Père Antonin Jaussen, o.p. (1871-1962). Une passion pour l'Orient musulmane di Jean-Jacques Pérennès (Les Éditions du Cerf, 2012) — che al termine dell'intervista finiranno nello zaino dell’intervistato, con la promessa di una nuova visita e di un nuovo incontro di altri incontri tra bibliofili.
L'Osservatore Romano