lunedì 30 giugno 2014

Le radici atee del nazionalismo


Benito_Mussolini

Da Garibaldi, a Mussolini, a Corradini…

Anzitutto il nazionalismo, responsabile dello scoppio della I guerra mondiale, che con i suoi dieci milioni di morti, venti milioni di feriti, mutilati e nevrotici, e sette milioni di prigionieri e dispersi, rappresenta la più grande tragedia della storia sino a quel momento, senza alcuna possibilità di confronto. Ebbene il nazionalismo è figlio della Rivoluzione Francese, antitetico alla concezione cattolica, e cioè universale, che aveva caratterizzato l’Europa dell’Antico Regime.
E’ a tutti noto che la I Guerra mondiale nacque dalle frizioni tra i nazionalismi tedesco, inglese,
serbo, russo, inglese… Frizioni che esplosero anche per il desiderio di molti di un evento grandioso che portasse con sé un cambiamento, un vento nuovo, ritenuto da molti necessario per spazzare l’aria asfittica della società positivista, industrializzata e senz’anima del primo Novecento. Un nuovo mondo nascerà dalla catastrofe: lo credettero in tanti, socialisti e nazionalisti, di destra e di sinistra. Un vento che spazzasse il senso di vuoto, l’ansia che dominava molti animi e che è testimoniata dalla affannosa ricerca di sostituti della religione tradizionale; dall’affannosa brama, come si è visto precedentemente, di esperienze spiritiche, o di avventure occultiste: “I decenni che precedettero la guerra erano caratterizzati da un numero di adepti delle pratiche occulte comparabile a quello dei proseliti della New Age” ( M. Burleigh, “In nome di Dio”, Rizzoli, p. 30)
Nello stesso tempo la delusione post-bellica avrebbe determinato una speranza ancora più radicale, un messianismo ancora più patente e micidiale. Infatti il totalitarismo si fonda non soltanto sulla brama di potere dei dittatori autocrati, ma anche sul bisogno di sicurezza, sul bisogno di venerare e propiziarsi il favore degli uomini al potere da parte delle masse. “La pseudo-divinità dello Stato moderno non consiste tanto in una divinità che esso avrebbe usurpato con arroganza, quanto in una divinità che gli è stata attribuita da una massa di persone frustrate e insicure le quali richiedono insistentemente un potente e venerabile oggetto nei confronti del quale nutrire fede e speranza”.
Religione atea, secolare fu dunque il nazionalismo, generato da una brama di potenza che sembrava poter soddisfare gli animi assetati di qualcosa di grande; religione secolare i totalitarismi, che tentarono di porre rimedio alla delusione subentrata alle precedenti attese sfiorite e al disastro post-bellico.
Mi limiterò, per brevità, a qualche cenno al nazionalismo italiano, che fu interpretato da personaggi assolutamente nemici della Chiesa, e di ogni religiosità, come Giuseppe Garibaldi, il garibaldino Francesco Crispi, colui che diede vita al colonialismo italiano, alla fine dell’Ottocento, e Benito Mussolini. Di Giuseppe Garibaldi, che tanto male fece al meridione d’Italia, come ci hanno ricordato gli autori siciliani Giovanni Verga, Luigi Pirandello e Tomasi di Lampedusa, liberando i prigionieri dalle carceri e affidando il paese nelle mani della ricca borghesia piemontese e meridionale, si può ricordare che vantava con violenza ed orgoglio il suo ateismo. Nelle sue lettere, in occasione del Concilio Vaticano I, scriveva ai suoi amici e compagni di loggia massonica: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucaristia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX...” (Giuseppe Garibaldi, “Memorie”, Bur, Milano, 1982, p.367).
Quanto a Benito Mussolini è assai noto il fatto che tutta la sua formazione umana e culturale fu influenzata da ideologie sostanzialmente atee. Il nome di battesimo, Benito, gli fu imposto dal padre in onore di Benito Juarez, il rivoluzionario messicano ferocemente avverso ai cattolici. La sua crescita culturale fu segnata dalla lettura di Rousseau, Spencer, Ardigò, Marx, Sorel, Nietzsche, Mazzini, Giosuè e Vittorio Carducci: una mescolanza di ideali socialisti, cui aderì per una parte molto importante della sua vita, anarchici, positivisti, e di aspirazioni risorgimentali, garibaldine ed anticlericali. I biografi raccontano la sua giovinezza irrequieta, fatta di ardenti passioni politiche ed amorose, di un vagabondare inquieto, tra diverse città, svariate donne, e incontri significativi, come ad esempio quello con Lenin, che più avanti avrebbe incolpato i socialisti italiani di essersi lasciati sfuggire l’unico capace di fare la rivoluzione. Sappiamo che nel suo peregrinare il futuro duce si scontrò spesso con figure di credenti: in Svizzera, ad esempio, ebbe un dibattito pubblico con il pastore evangelico Alfredo Tagliatatela, cui spiegò, togliendosi platealmente l’orologio, che se Dio fosse esistito, avrebbe dovuto dimostrarlo, fulminandolo entro cinque minuti.
A Trento, dove rimase qualche mese insieme al socialista anticlericale Cesare Battisti, entrò in conflitto con alcuni sacerdoti locali, da cui fu anche querelato. Spiegava, nei suoi scritti, che la religione è il fardello dell’umanità, e che occorreva liberarsi dalle “unghie dei preti”, definiti anche “vampiri” e “pipistrelli”. Avendo letto “La vita di Gesù” del seminarista rinnegato e razionalista Ernest Renan, una sorta di Dan Brown o di Corrado Augias ante litteram, arrivò a spiegare che forse Gesù non era neppure esistito, e che i Vangeli non potevano essere considerati documenti degni di fede. Salvo poi sostenere, in più occasioni, che in verità Cristo era stato un “socialista ante marcia”, e che il grave peccato dei papi era quello di non essere fedeli, loro, anzitutto, proprio a Cristo stesso.
Citando Darwin, affermava che il naturalista inglese aveva portato avanti, insieme a Marx, la lotta “contro la tradizione, l’autorità, il dogma”. Si distinse anche per aver abbattuto a picconate la statua della Madonna del Fuoco di Forlì. Tra i suoi scritti si possono ricordare una difesa dell’ateismo in 47 pagine, “L’uomo e la divinità”, un romanzo anticlericale a puntate, commissionatogli da Cesare Battisti, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”, il romanzo storico “Giovanni Hus il veridico”, esaltazione di un eretico boemo del medioevo, e scritti inneggianti a Giordano Bruno e alla ragione, definita come l’ “Anticristo” temuto dai papi. Il 24 dicembre del 1910 scriveva: “Il Natale cattolico è una mistificazione. Cristo è morto e la sua dottrina agonizza. Ma v’è un Cristo vivo, lo schiavo, che attraverso i millenni ha portato la croce della miseria. Questo schiavo non può celebrare il Natale cristiano… Il Natale Umano, verrà”.
Da buon socialista Mussolini conviveva senza matrimonio, neppure civile, con Rachele, sino a che non lo ritenne utile politicamente; analogamente si rifiutò di battezzare i figli Vittorio ed Edda. Erano gli anni in cui con echi carducciani definiva Cristo il “Rabbi vile dalle chiome rosse”, da prendere a calci insieme ai “suoi più vili rabbini dalle sottane nere”.
Divenuto sempre più nazionalista ed interventista, Mussolini inasprì lo scontro con la Chiesa, rea di essersi schierata per la pace e per l’Austria cattolica, l’Impero di diritto divino che egli considerava “il principio del Male”, l’ “anti-Uomo”. “Preti e gesuiti, scriveva, sono neutralisti per amore dell’Austria vaticanesca e temporalista”. Senza tema di cadere nel ridicolo, l’uomo che avrebbe via via accordato le sue idee alle circostanze, secondo la bisogna, con astuto pragmatismo, diceva: “La neutralità di Benedetto XV, è deicida, uccide Dio nel cuore degli uomini, Benedetto è l’apostolo dell’ateismo”.

Nel 1919, fondando i fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano, indicò ai suoi uomini un programma in vari punti che contemplava, tra le altre, l’idea di confiscare “tutti i beni delle Congregazioni religiose”. Accanto a lui arditi, futuristi, numerosi massoni, ex socialisti, nazionalisti, dannunziani e anarchici…tutti accomunati da una matrice anticattolica e spesso consapevolmente atea.
Col tempo Mussolini si sarebbe accorto che per governare l’Italia avrebbe dovuto essere più accorto, più pragmatico e meno impulsivo: iniziò così pian piano a non attaccare più con la violenza di un tempo né la monarchia, né la Chiesa. Scriveva, con grande astuzia politica, nel 1920: “Il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi in tutto il mondo ed una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici. Nessuno in Italia, se non vuole scatenare la guerra religiosa, può attentare a questa sovranità spirituale” (Gianni Vanoni, “Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica”, Laterza, Bari, 1979, p. 19, 28, 38. Si veda anche Luigi Sardi, “Battisti, Mussolini, Degasperi” Curcu & Genovese, Trento, 2004).
Per questioni di tattica, di strategia politica, dunque, Mussolini arrivò anche a sposarsi in Chiesa, mentre tradiva giornalmente la povera Rachele, e a strizzare l’occhio ai cattolici italiani, con esiti alterni, sino ai Patti Lateranensi. Cesare Maria De Vecchi, uno dei quadrumviri, ambasciatore fascista in Vaticano e strenuo difensore della buona fede del duce nella Conciliazione, ricorda che subito dopo la firma dei Patti Lateranensi Mussolini scriveva al re “di aver lasciato alla Santa Sede tanto territorio quanto bastava per seppellire in maniera definitiva il plurisecolare dominio temporale dei papi”. Davanti al Gran Consiglio del fascismo il duce ebbe anche a dire: “Come avete udito, abbiamo fatto la pace con la Chiesa…Ora che la pace è fatta, si può pure riprendere la guerra!”. In effetti immediatamente dopo i patti, il governo italiano e la santa Sede entrarono continuamente in conflitto.
Pio XI si sentiva ingannato da Mussolini, che oltre a limitare la libertà d’azione e di pensiero dei laici cattolici, lanciava sovente frecce avvelenate, sostenendo ad esempio pubblicamente che “se il Cristianesimo anziché trasferire a Roma con Pietro e Paolo il suo centro di azione universale, fosse rimasto in Galilea, vi avrebbe subito la sorte di una delle varie sette ebree del tempo”.
La voce che correva in Vaticano e in buona parte del mondo cattolico, all’indomani della ufficiale Conciliazione, fu che il papa era stato ingannato. Personalità importanti, come il cardinal Merry del Val e altri influenti uomini di curia, incolpavano soprattutto il segretario di Stato Gasparri, che effettivamente si trovò sempre più in difficoltà di fronte ai rapporti che giungevano in Vaticano, da parte di reparti di polizia e carabinieri ostili al regime, sulle persecuzioni, i sequestri e le angherie subite dall’associazionismo cattolico. L’Osservatore Romano e la Civiltà cattolica sparavano le loro pallottole di carte sul duce e sui suoi tentativi di monopolizzare l’educazione della gioventù, sui seimila Circoli cattolici chiusi con la forza e sottoposti a devastazioni e violenze di studenti facinorosi protetti dalla polizia, sui bollettini parrocchiali censurati e osteggiati, sugli ex Popolari spiati di continuo dal regime come oppositori, o fatti incarcerare come Degasperi…ma l’impotenza vaticana di fronte alla forza del regime era evidente.
Pio XI non poteva far altro che promulgare qualche enciclica, che veniva regolarmente silenziata, come “Non abbiamo bisogno” e “Dell’educazione cristiana della gioventù”, senza che il loro effetto fosse veramente tangibile. Non di rado si sfogava con De Vecchi o altri diplomatici del regime, con affermazioni come questa: “Ecco cosa avete fatto, avete imbrogliato il Papa! Lo dicono tutti, lo sanno tutti, lo scrivono dappertutto, dentro e fuori l’Italia”. Oppure: “L’Azione Cattolica è la pupilla degli occhi del papa ed è perseguitata con sistemi che non voglio qualificare perché la qualifica sarebbe troppo grave…Gli vada a dire (al duce, ndr) che con i sistemi che usa e con i fini che si propone, mi fa schifo…nausea, vomito…” (Cesare Maria De Vecchi, “Il quadrumviro scomodo”, Mursia, Milano, 1983, p.129-164.)
La lotta tra Chiesa e regime si svolse sempre secondo questi canoni: colpi proibiti, piccole vendette, tentativi di boicottaggio, senza che nessuno dei due contendenti, certamente non la Chiesa, avesse la forza per distruggere o condannare totalmente l’altro. All’indomani dell’enciclica “Non abbiamo bisogno”, ad esempio, Mussolini, vedendosi attaccato spiegò machiavellicamente ai suoi: “Intanto io darò un giro di vite alla situazione per quanto riguarda le scuole cattoliche condotte da religiosi. Tutto questo sul piano tattico, mentre sul piano strategico manterremo la nostra linea di perfetta osservanza religiosa e di rispetto nei confronti del papa e della Chiesa” (Cesare Maria De Vecchi, op. cit., p. 208)
Tornando alle idee religiose di Mussolini, si può ricordare che uno studioso ha parlato di una conversione alla fine della vita, dopo l’arresto del 25 luglio 1943. Renzo De Felice, nella sua biografia di Mussolini in quattro volumi (Einaudi), nega che sia successo qualcosa di veramente nuovo nel rapporto del duce con la fede religiosa, benché sia inevitabile immaginare che nella sconfitta anche in lui si siano fatti largo dubbi e domande sul destino ultimo della sua anima. Per il grande storico del fascismo il fatto che in quelle circostanze Mussolini abbia letto “La vita di Cristo” del Ricciotti “è un risvolto del suo stato di isolamento, direi un percorso più intellettuale che religioso”.
In ogni modo resta innegabile quanto scrisse a sua tempo Armando Carlini, discepolo di Giovanni Gentile, suo successore sulla cattedra di filosofia teoretica a Pisa, deputato fascista e membro dell’Accademia d’Italia: Mussolini “della religione comprende e sente il lato umano e storico in generale: non ha mai lasciato trapelare un interesse a questioni dogmatiche, anzi s’è guardato accuratamente dall’entrarvi anche quando l’occasione gli veniva offerta naturalmente. E’ vero che con lui il nome di Dio risuonò, forse per la prima volta, solenne e ammonitore, nella fredda e grigia aula del Parlamento. E’ vero che si deve a lui la distruzione in Italia della Massoneria e la Conciliazione col Vaticano. Ma queste imprese non furono da lui eseguite, e di fatto giustificate, con ragioni che non fossero essenzialmente politiche e sociali. E se pure si ha da concedere qualche valore religioso alla invocazione di Dio, essa non va al di là di una fede in un principio del tutto indeterminato, troppo più vicino al vago principio di una fede di stile mazziniano, che a quello ben definito, preciso e impegnativo, del cristianesimo, anzi del cattolicesimo…la morale del fascismo da lui fondato è tutta una esaltazione di principi fondamentalmente pagani, come molti hanno messo in rilievo” (Armando Carlini, “Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini”, Il Settimo Sigillo, Brescia, 1983)
Il fascismo infatti si nutriva dei miti pagani della nazione, della rievocazione della grandezza di Roma: la Roma degli imperatori, non quella dei papi. Utilizzava un linguaggio, simboli, riti, cerimonie, tutti tipici di una religione civile, per sacralizzare lo Stato, come “educatore del popolo nel culto della nazione”, e per celebrare il duce come il grande sacerdote della Patria. Divise per tutti, littori, sabati fascisti, feste laiche della patria, patrioti celebrati come “martiri”, creazione di una “storia sacra del partito”, corsi di “mistica fascista”, usanza di contare gli anni dall’inizio dell’ “era fascista” invece che dalla nascita di Cristo, leggi razziali, liturgie di Stato, culto della bandiera, giuramento di fedeltà al fascismo, pellegrinaggi obbligati al Milite Ignoto, celebrazione di eroi fondatori…dicono chiaramente che il nazionalismo fascista fu una religione. Una religione laica, politica, senza Dio, senza redenzione divina, senza aldilà.
Tornando ad analizzare il fenomeno nazionalista italiano in generale, occorre ricordare il movimento degli interventisti, contro cui Benedetto XV si batté in ogni modo, prima con la diplomazia e poi denunciando “l’inutile strage”. Erano tutti uomini delle élites, avversi alla visione cattolica dominante nel paese: il già citato Mussolini, Gabriele D’Annunzio, il socialista nazionalisteggiante ed anticlericale Cesare Battisti, i nazionalisti Giovanni Papini ed Enrico Corradini, i futuristi di Marinetti, che predicavano lo “svaticanamento” d’Italia e l’amore libero”… Molti di questi, esattamente come nel resto d’Europa, utilizzarono Darwin per sacralizzare la selezione naturale e la lotta per la vita come legge della storia.
Scrive H. Schulze, nel suo “Aquile e leoni. Stato e nazione in Europa” (Roma-Bari, 1995): “Alla base di tale concezione c’era la legge della natura, secondo la quale la lotta era di tutti contro tutti, la pace una illusione dei deboli, nel migliore dei casi un momento di respiro nel conflitto perenne per l’esistenza; a sopravvivere sono destinati solo gli esseri moralmente e fisicamente superiori. Per tutti i raggruppamenti politici e sociali valeva l’assioma che l’umanità non aveva come scopo la pace; ciò era vero per il concetto marxista della lotta di classe, come per l’idea nazional-popolare di un eterno antagonismo tra popoli e per la nuova ideologia emergente del conflitto tra le razze…politica vuol dire guerra, e la guerra è necessaria per bruciare i mali dell’epoca….non si tratta di una visione estremistica, ma è quanto si ricava dalla lettura di giornali e periodici, sia seri che a larga diffusone, pubblicati nell’arco di tempo tra il 1880 e il 1914 e che offrono al moderno osservatore una fonte inesauribile di dati relativi alla struttura fondamentalmente darwinistico-sociale del nazionalismo popolare del tempo nell’area anglosassone, in Francia, in Germania o in Italia. Quando, durante la guerra contro i Boeri, il maresciallo britannico Roberts dichiarava che la lotta spietata tra le nazioni non era altro che una necessità biologica…ciò non era che un’eco di quanto scrivevano numerosi altri autori del tempo”, spesso biologi darwinisti prestati alla politica, come ha ben raccontato il celebre paleontologo evoluzionista S.J. Gould.
Per tornare in Italia, Giovanni Papini, prima che la vita lo portasse a convertirsi e a rinnegare il suo passato, sulla rivista nazionalista “Lacerba” nel 1914 scriveva: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima delle anime per la ripulitura della terra….Siamo troppi. La guerra è una operazione maltusiana. C’è un troppo di qua e un troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla tavola…”. EdEnrico Corradini, interpretando la stessa concezione ateistica e socialdarwinista, su Il Regno del 28 febbraio 1904, allo scoppio del conflitto russo giapponese, descriveva la guerra come “un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l’uomo civile è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura”.
I frutti del nazionalismo, già condannato da diversi papi, inutilmente, nelle loro encicliche, avrebbe dunque portato dapprima alla guerra e poi, nel dopoguerra, al fascismo, al nazismo e al “socialismo nazionalista” di Stalin, secondo la celebre definizione di Troskij.
Francesco Agnoli