Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio. Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco
La Repubblica
È MOLTO difficile e per me in particolare che sono da tempo arrivato a considerare Berlusconi un disastro non solo per la nostra vita pubblica ma anche per i pensieri e i rapporti dell’Italia a livello internazionale, interessarmi a quanto scrive Zygmunt Bauman su Papa Francesco. Pochi giorni fa abbiamo pubblicato un suo articolo su Repubblica che tratta a fondo di questa questione ed ha un titolo estremamente significativo: "Se il Papa ama il dialogo vero più della verità". È tratto da una dissertazione tenuta alla Bocconi di Milano ed è chiarissima l’intenzione dell’autore che il titolo fedelmente rispetta: il dialogo vero ha più senso della verità assoluta.
Questo tema solleva com’è evidente una quantità di problemi che pongono in discussione "l’assoluto" e appunto la Verità che lo rappresenta. Si era mai sentito un pontefice che rappresenta il Vicario di Cristo in terra mettere in discussione la Verità assoluta? Il testo di Bauman descrive con molta chiarezza il gruppo di questioni che il suo articolo, ma soprattutto quello che ha detto papa Francesco, solleva. Cito la parte essenziale di quel testo: "La verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro con il suo contrario, con un antagonista. Verità è a suo agio in un lessico monoteistico e in ultima analisi in un monologo ed effettivamente usare 'verità' al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola. Con una mano sola si può soltanto dare un ceffone o una carezza, ma non applaudire. Papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo ma la pratica. Di un dialogo vero tra persone con punti di vista esplicitamente diversi che comunicano per comprendersi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica rappresentata con Eugenio Scalfari da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è dunque una questione di vita o di morte".
Ringrazio l’amico Bauman per la citazione che peraltro è pertinente al tema. È un tema infatti o meglio un gruppo di temi che domina o dovrebbe dominare il mondo intero ma purtroppo non è così perché una parte rilevante di popoli, pur essendo colti e notabili nella politica, nell’economia, nelle scienze sociali, nella medicina, è tuttavia indifferente a queste questioni. Indifferente nel senso che li rimuove perché richiamano l’inevitabile appuntamento con la morte e la morte è qualche cosa di comprensibilmente preoccupante. Alcuni pensano che sia la fine di tutto, altri sperano che sia l’inizio d’una nuova vita sia pure in forme assai diverse da quella precedente e ben conosciuta. Comunque è un pensiero inquietante, quale che sia il modo in cui si definisce e quindi viene rimosso, nascosto in qualche interiore caverna dalla quale comincia a sbucare soltanto quando l’età incalza e quell’appuntamento si avvicina. Non se ne conosce né il come né il quando ma si sa che avverrà e la rimozione diventa da un certo punto di vista ancor più necessaria ma da un altro punto di vista sempre meno possibile.
Papa Francesco è dunque, tra i numerosissimi vicari di Cristo che guidano la Chiesa da ormai duemila anni, uno dei pochissimi, secondo me addirittura l’unico, che affronta in questo modo il problema della Verità e quindi dell’assoluto. In una nostra recente conversazione gli chiesi che mi spiegasse che cosa è per lui la Chiesa missionaria, della quale parla in continuazione e ne incoraggia la crescita.
La risposta fu anzitutto una premessa: "Io sono religiosamente cresciuto nella compagnia di Gesù e sono tuttora interamente gesuita. Lei di recente l’ha scritto ma molti ne dubitano, se non altro perché pur potendo scegliere come nome pontificale quello di Ignazio, mai usato finora da nessun pontefice, ho scelto invece quello del Santo di Assisi. Anche quello non era mai stato scelto prima ma perché un gesuita che tale si sente dalla testa ai piedi non sceglie il nome di Ignazio ma quello di Francesco?"
Gli dissi che credevo di saperlo e cioè perché Francesco era un mistico e lui ama i mistici pur non essendolo affatto.
"È vero, questa è certamente una delle ragioni e forse la prima, ma non la sola. Francesco amava una confraternita itinerante di frati che avevano fatto rinuncia a tutti i piaceri della vita ma non alla gioia, non all’allegrezza, non all’amore. Alcuni di essi e lui soprattutto erano profondamente mistici in ogni atto, in ogni istante della loro vita, nel senso che si identificavano con nostro Signore, dimenticavano il loro io. Sentivano l’amore verso di lui e verso le creature che lui insieme al Padre aveva creato: le stelle, i tramonti, i fiori, gli animali, le donne, i bambini, i vecchi e insomma tutto ciò che ci circonda e al quale noi possiamo offrire soltanto l’amore in tutte le sue manifestazioni filiali, fraterne, paternali. Questo è stato il Santo di Assisi. La sua vicinanza a Santa Chiara è uno dei segnali più significativi, ma quello che lo identifica nel misticismo permanente sono le stimmate che a un certo punto comparvero su di lui com’erano comparse sulle mani del Signore. Ciò non significa che lui non si occupasse anche di questioni pratiche, concrete e vorrei dire politiche. Voleva che la sua confraternita avesse delle regole e passarono molti anni perché il papa gliele concedesse. Fu posta tuttavia una condizione: una parte dei frati francescani doveva predisporre e alloggiare in appositi conventi e soltanto un’altra parte sarebbe stata missionaria e itinerante. Francesco accettò. Quelli nei conventi riscoprirono San Benedetto, lo studio, il lavoro e la questua; ma la vera chiesa francescana missionaria fu quella itinerante".
Perché Santo Padre - gli chiesi - la Chiesa deve essere soprattutto itinerante e comunque missionaria? La risposta di Francesco fu immediata: "Noi dobbiamo parlare le lingue di tutto il mondo il che non significa soltanto e necessariamente i linguaggi veri e propri. Pensi che in Cina esistono almeno cinquantamila diversi linguaggi. La chiesa missionaria deve soprattutto capire le persone che incontra, il loro modo di pensare, la loro sintonia. Questa è la premessa che come vede è al tempo francescana e gesuitica perché la nostra Compagnia ha sempre fatto questo: capire gli altri, che siano miserabili socialmente, impreparati culturalmente, oppure colti, notabili nella vita sociale; e ancora meno rilevante per questa conoscenza degli altri sono le loro posizioni politiche, importanti per la vita pubblica dei popoli ma non per la religione. La religione aborre il politichese, non è e non dev’essere cosa nostra. Se per politica s’intende una visione del bene comune che per noi è quella contenuta nella nostra religione, allora sì, anche la politica diventa importante, le istituzioni diventano importanti per il bene di tutti, poveri e ricchi, colti o ignari, donne o uomini o bambini o vecchi. Il popolo si deve dedicare e realizzare queste istituzioni ma non innalzando il nome di un dio. Nessuno può appropriarsi del nome di un dio che è ecumenico e creatore".
E la Chiesa missionaria verso la quale lei ha così grande attenzione che cosa deve dunque fare? "La Chiesa deve entrare in sintonia con i linguaggi delle persone che incontra, capire come la pensano, quali sono le modalità dei loro rapporti con gli altri e con se stessi e una volta capito questo la Chiesa esorta le persone che ha incontrato verso il bene, fermo restando il libero arbitrio che il Creatore ha concesso a noi esseri umani".
Ricordo queste conversazioni con Sua Santità, cominciate circa otto mesi fa e più volte ripetutesi, l’ultima delle quali nello scorso settembre. Le riflessioni dell’amico Zygmunt Bauman mi hanno indotto a riprendere questi concetti che anche lui a quanto leggo dai suoi vari interventi e in particolare nell’ultimo su Repubblica segue con interesse e in gran parte, credo, condivide. Certo converrà con me su un aspetto peraltro essenziale: i papi hanno sempre riformato la Chiesa, all’interno ed anche all’esterno. Ma soprattutto all’interno, nelle regole che si danno ai vari ordini, nei modi con i quali i loro membri convivono tra loro e nei poteri che hanno nei confronti della Chiesa-Istituzione. All’esterno questi aggiornamenti sono stati molto più rari. Il cardinale Walter Kasper ha paragonato la Chiesa ad un castello con un ponte levatoio quasi sempre alzato. Papa Francesco ha ripreso questa frase e l’ha commentata dicendo che se il ponte levatoio non è abbassato e non consente quindi l’entrata e l’uscita, allora la Chiesa rischia di morire. Il Concilio Vaticano II avvenuto più di mezzo secolo fa, ha concluso, in totale dissenso con il Vaticano I, esortando la Chiesa a prendere contatto col mondo moderno. Se capisco bene, prendere il contatto significa capirlo, entrare, come dice il Papa, in sintonia con esso.
E la verità? Il Papa rifiuta la parola relativismo cioè un movimento vero e proprio con caratteristiche di politica religiosa; ma non rifiuta la parola "relativo". Il relativismo no ma che la verità sia relativa questo è un dato di fatto che il Papa riconosce e il titolo e la dissertazione con Bauman ne fanno piena fede. Naturalmente c’è la dottrina elaborata dai pensatori religiosi della patristica e da quelli che si succedettero nei secoli fino ad arrivare a Domenico e a Tommaso e perfino a Carlo Borromeo. Essi elaborarono, ciascuno a suo tempo e a suo modo, la dottrina la cui fonte principale però fu Paolo, apostolo per autodesignazione. La dottrina fu elaborata principalmente da lui e in parte dalla comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme guidata a suo tempo da Pietro e da Giacomo.
La dottrina che noi leggiamo, cristiani o non cristiani, è il racconto che gli evangelisti fecero della vita e della predicazione e più della predicazione che della vita della quale i punti culminanti furono il discorso della montagna, l’ultima cena, la meditazione solitaria del Getsemani e infine e soprattutto la crocifissione. Questi racconti, l’ho già ricordato più volte ma credo sia utile ripeterlo, furono scritti da persone che non conobbero e non videro mai Gesù di Nazareth; racconti di seconda mano se non addirittura di terza che non di meno hanno fornito nei secoli, sia pure con continui rimaneggiamenti, una struttura dottrinaria che ha dato sostegno alla religione. Allo stesso modo altre religioni monoteiste sono nate su racconti poiché dio non parla con la sua voce. Dio non ha voce così come non ha nome e non ha figura immaginabile. Il Figlio ce l’ha e forse proprio per questo i cristiani lo inventarono così come le altre religioni monoteistiche inventarono le loro figure rappresentabili e immaginabili, a cominciare da quella di Mosè e a chiudere con quella di Maometto e dei suoi successori.
A me piacerebbe molto che l’amico Zygmunt Bauman, se avrà tempo e voglia, esprimesse la sua opinione su questi ed altri pertinenti problemi.
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La "Evangelii gaudium" del papa emerito Benedetto
Chiesa - L'Espresso
(Sandro Magister) Ratzinger ha rotto un'altra volta il silenzio. Per avvertire che un dialogo che rinunci alla verità "è letale" per la propagazione della fede cristiana. E quindi anche per la diffusione di quella "gioia del Vangelo" che è nel programma di papa Francesco (...)