sabato 25 ottobre 2014

Le parole del cielo e della terra

Le levatrici d’Egitto/12 - Solo una sinfonia di voci è adeguata al dialogo con Dio

di Luigino Bruni

Le montagne discutevano fra loro per avere l’onore di essere scelte come il sito della rivelazione. “Su di me dimorerà la presenza divina, mia sarà la gloria”, esordì una, e un’altra replicò con le medesime parole. Il monte Tabor disse all’Ermon: “Su di me si poserà la Šekinah, mio sarà questo onore…”. il Sinai, invero, fu prescelto non solo per la sua umiltà ma perché non era mai stato sede di culti idolatrici, diversamente dalle altre montagne che, in virtù della loro altezza, erano state scelte per i santuari pagani
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, IV
La prima riforma sociale e organizzativa del popolo di Israele arriva da un consiglio di Ietro, suocero di Mosé, uno straniero di fede diversa. Tra l’uscita dagli idoli dell’Egitto e il dono della Torah sul Sinai, l’Esodo ha voluto inserire una figura buona di credente non idolatrico, e lo ha posto al cuore di un evento di cruciale importanza per la vita del popolo. Un messaggio di grande apertura e speranza, che ci raggiunge anche oggi dove i credenti nel Dio della vita dovrebbero unirsi e stimarsi di più, per liberarci e proteggerci dai mille culti idolatrici del nostro tempo.
Gli anziani, Aronne, i sapienti di Israele, avevano senz’altro visto l’affaticamento di Mosè e le sue difficoltà nel gestire da solo un popolo numeroso e complesso. Ma perché si attuasse il nuovo assetto organizzativo che preparò il popolo alla grande teofania del Sinai, ci volle uno sguardo diverso di uno straniero, di qualcuno di un altro popolo e di un’altra fede che però rispettava YHWH sebbene non fosse il suo Dio.
Mosè non considera suo suocero un idolatra. Sa che non crede in YHWH, ma nonostante questo lo ascolta e gli ubbidisce, perché gli riconosce una sua verità. Mosè non avrebbe mai ascoltato e amato un idolatra, tantomeno gli avrebbe ubbidito. Non è l’avere una fede diversa dalla mia che ti fa idolatra. Ietro non è idolatra anche perché rispetta il Dio di Mosè. Il primo segnale che ci dice che abbiamo a che fare con una idolatria e non con una fede, è il disprezzo per le fedi degli altri. Anche oggi possiamo dialogare, incontrarci e persino pregare tra religioni e fedi diverse solo se nessuno di noi pensa che il Tu che l’altro accanto a me sta pregando è un idolo, e se ognuno di noi crede o spera che la fede dell’altro sia un riflesso autentico dell’unico Dio di tutti, che è troppo ‘altro’ per essere espresso o posseduto soltanto dalla ‘mia’ fede. La povertà spirituale del nostro tempo non dipende dalla moltiplicazione delle fedi nelle nostre città, ma dalla crescita impressionante degli idoli nello spazio lasciato vuoto dalle religioni e dalle ideologie. Abbiamo voluto combattere la pietà popolare e la fede semplice dei nostri nonni, ma quando ci risvegliati dal ‘sonno della ragione’ ci siamo ritrovati in un mondo popolato da nuovi totem, non nella terra della libertà. Le molti fedi fanno il mondo più bello e variopinto, e lo proteggono dall’idolatria.
La riforma di governance nel deserto di Refidìm, fu un evento cruciale per Israele. In essa si nascondono molti messaggi e molte verità. La sua importanza è testimoniata anche dalla pluralità di versioni che ritroviamo nei libri del Pentateuco. Nel racconto di quella riforma che troviamo nel libro dei Numeri, c’è un elemento che ci svela molto del significato profondo di quel decentramento organizzativo: “Mosè dunque uscì e riferì al popolo le parole del Signore; radunò settanta uomini tra gli anziani del popolo e li fece stare intorno alla tenda. Allora il Signore scese nella nube e gli parlò: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro quelli profetizzarono” (Numeri 11,24-25).
Qui c’è qualcosa di molto importante per ogni processo di decentramento e di delega. È lo stesso Spirito che viene donato a chi dovrà svolgere funzioni di governo del popolo. Il principio del potere e della sapienza non è il talento del profeta, ma è lo spirito che era stato donato prima a lui e che ora viene condiviso ad altri. Questo decentramento e questa delega richiedono che il ‘profeta’ (fondatore, responsabile) non si senta il detentore né tantomeno la fonte dello spirito, ma il beneficiario di un dono che non considera geloso possesso. Il profeta riconosce che gli altri chiamati a governare con lui/lei hanno la sua stessa luce e sapienza, perché tutti l’hanno ricevuta dalla stessa sorgente (lo spirito).
La delega e la corresponsabilità, allora, prima di essere faccende tecniche o pragmatiche, sono cose molto serie, eventi spirituali; e lo sono sempre, ma soprattutto quando si ha a che fare con organizzazioni a movente ideale e con realtà carismatiche. Senza interpretare la delega come partecipazione e condivisione dello stesso dono-carisma, chi decentra non fa altro che rafforzare le gerarchie della comunità, perché la delega aumenta l’asimmetria tra chi delega e il popolo. In queste deleghe senza dono e senza spirito, la creazione di gradi gerarchici intermedi aumenta soltanto la distanza tra il capo e la base – il numero di caste e di ranghi in una società o in una organizzazione è sempre proporzionale al grado di gerarchia. Nelle comunità umane la creazione di livelli intermedi di potere non è garanzia di maggiore democrazia e partecipazione al governo. Se chi delega è convinto (o è stato convinto) che il suo ‘spirito’ sia diverso e più puro di quello che riceveranno coloro scelti per collaborare con lui, il processo di decentramento crea soltanto nuove caste e nuovi sciamani, che diventano semplici sgabelli per aumentare l’altezza del trono del sovrano supremo. L’aumento dei collaboratori accanto ai capi spesso finisce per rendere i capi più potenti e più distanti dalla gente, moltiplicando i veli tra loro e i sudditi. Ci sono molti responsabili di comunità che creano ordini intermedi di governo al solo scopo di aumentare l’altezza della propria piramide, al cui vertice c’è sempre l’unico vero faraone.
Dopo il passaggio di Ietro, lo spirito condiviso, la riforma, il popolo arriva finalmente alle pendici del Sinai: “Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte” (19,1-3). YHWH parlò di nuovo a Mosè, su quello stesso monte dove lo aveva chiamato per la prima volta,  dove gli aveva rivelato la sua vocazione di liberatore del popolo oppresso in Egitto – la Bibbia sa che i luoghi non sono tutti uguali per ascoltare e capire bene le voci. Ora, dopo le piaghe, la liberazione, il mare aperto, gli inni, le fame, la sete, la guerra, Mosè ritorna su quello stesso monte, e, ancora una volta, la Voce gli parla: “Il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano per sempre anche a te»” (19, 9). E gli parla coinvolgendo, ancora, nel suo discorso anche la natura. YWHW gli aveva sempre parlato ricorrendo al linguaggio della natura: il roveto, le rane, la grandine; e poi il mare aperto e il legno a Mara. Ora, prima del grande evento dell’Alleanza, con la voce di YWHW arrivano anche la nube, i tuoni, i lampi, il fumo, il fuoco, il suono forte del corno. Suoni naturali che diventano parole, tonalità di quella stessa voce che lo aveva chiamato per nome, che gli aveva continuato a parlare durante la liberazione e l’Esodo; che continua a rispondergli: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell'accampamento fu scosso da tremore. … Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce” (19,16-19).
All’uomo biblico, quell’Adam figlio del cielo (Elohim) e della terra (Adamah), non bastano le voci umane per poter parlare e vivere. Nel suo dialogo vuole coinvolgere tutto l’universo e le sue tante voci. Nelle grandi teofanie – e questa del Sinai è certamente una delle più grandi teofanie dell’umanità - solo una sinfonia di voci è adeguata per dialogare con il Dio della voce. Per raccontare che cosa stava accadendo su quel monte, le sole parole umane non bastavano. Non bastavano nemmeno quelle di YHWH: occorrevano anche le altre parole della terra.
La natura partecipa agli eventi degli uomini. Non abbiamo altro ambiente dove dar vita alle nostre storie. Ma è particolarmente presente durante la celebrazione delle alleanze (Mosè e il popolo qui stanno per rinnovare l’alleanza con YWHW), che sono eventi troppo grandi per poter essere espresse solo con le nostre parole. Il discorso della vita è un incontro tra le parole del cielo, quelle degli uomini e quelle della terra.
Un matrimonio, un patto ricomposto dopo anni di dolore, coinvolgono la natura, la terra, il cielo. E tutto parla e ci parla, e tutto entra nelle foto, nei ricordi: e ricordiamo tutto, dettagli umani e naturali. L’arcobaleno dopo la pioggia che bagnò la sposa fu un linguaggio forte come le parole e le lacrime che ci eravamo scambiate quel giorno. La fraternità nel mondo è più grande della fraternità tra gli umani: fratello sole, sorella luna.
Se la natura è creazione, allora è viva, viva come noi; e se è viva comunica, parla, partecipa, accompagna tutte le vicende umane. Ma occorrono occhi capaci di vedere i segni e orecchi capaci di riconoscere questi altri suoni, troppo semplici e veri per essere capiti dalla nostra cultura del virtuale e del consumo. Reimpariamo a guardare la natura con gli occhi dei bambini, dei poeti, dei profeti, dei mistici, che sanno vedere e udire diversamente e di più. Perché la terra e il cielo non hanno smesso di parlarci, attendono solo di incontrare di nuovo le nostre parole.