sabato 7 marzo 2015

Il grembo di Rachele



Presenze femminili nella prima comunità cristiana. 

(Isabella Farinelli) «Essendo donna sono consapevole, come dice san Paolo, che alle donne in chiesa conviene il silenzio». Così scriveva nel 1872 una nobile signora al vescovo Gioacchino Pecci, postillando una sua proposta iconografica per la pala d’altare che intendeva finanziare. Si trattava in realtà di «un silenzio tutt’altro che muto», per usare una delle icastiche espressioni di Marinella Perroni nel suo recente saggio Le donne di Galilea. Presenze femminili nella prima comunità cristiana (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2015, pagine 96, euro 9,50).
La benefattrice di Pecci, pur dichiarandosi pronta all’anonimato, era sottilmente consapevole del futuro della sua proposta, cui annetteva un forte valore emblematico: il quadro, raffigurante san Pietro liberato dal carcere, fu in effetti eseguito e si trova ancora in una delle tante chiese ricostruite dal futuro Leone XIII nel territorio perugino.
Marinella Perroni, dal canto suo, spinge uno sguardo analitico alla radice bimillenaria del ruolo femminile nella Chiesa, tra l’itineranza alla sequela di Gesù e le comunità protocristiane, dove occorre farsi spazio tra edulcoranti luoghi comuni e silenzi storiografici, questi sì, pesanti a tal punto da rivelarsi, a loro volta, fonti da indagare.
La docente ed esegeta parte da un interrogativo apparentemente “maschilista”: se sia realistico pensare che, nella Palestina del 1 secolo, delle donne si unissero a un profeta e al suo gruppo di discepoli uomini. «Anche se la società dell’epoca non era del tutto estranea a fenomeni di itineranza femminile e il movimento di Gesù era più vicino a Giovanni il Battista che a gruppi discepolari rabbinici, gli indizi sono molto pochi». La questione da reimpostare «non riguarda tanto la sequela post-pasquale delle donne, ma il loro discepolato al seguito del Gesù terreno».
Confrontando le tradizioni sinottiche a livello storico-letterario oltre che storico-sociale, la studiosa mette in luce gli indizi di una possibile continuità tra discepolato gesuano e cristianesimo nascente anche e proprio in absentia. La distanza — che, su tale argomento, separa Marco (e Matteo) da Luca — aiuterebbe «almeno in parte a rendere ragione del progressivo processo di marginalizzazione delle donne dall’esercizio di ruoli e funzioni ecclesiali che segna il passaggio dalla prima alla seconda generazione cristiana».
In Marco, è evidente anche linguisticamente — le forme verbali pongono l’accento sulla continuità — che «le donne presenti sotto la croce hanno fatto parte del seguito di Gesù e lo hanno servito per tutto il tempo che egli ha operato in Galilea», annunciando in ciò il kerygma di sequela di croce e, successivamente, di Resurrezione. Luca «trasforma la ricca e ben strutturata informazione marciana in una generica notazione narrativa di scarsa portata teologica»; per l’autrice, la maggior genericità di questo evangelista sul ruolo delle donne, in particolare nell’annuncio pasquale, non è né puramente letteraria né casuale.
Quanto al quarto Vangelo, proprio le narrazioni sulle donne «confermano il carattere peculiare dell’impostazione ecclesiologica giovannea e contribuiscono anche a rafforzarne, forse, il carattere alternativo», rinviando «a un modello ecclesiologico fondamentalmente inclusivo». Quattro donne nel Vangelo di Giovanni — la samaritana, Marta, Maria di Magdala, Maria di Betania — intervengono dialetticamente nello sviluppo di rivelazioni dottrinali decisive. Per contro, nelle lettere giovannee e nell’Apocalisse, il silenzio sulle donne, in un contesto esterno potenzialmente ereticale, induce la studiosa a chiedersi se i loro ruoli vengano ormai piegati al rafforzarsi di un ordinamento patriarcale.
All’incrocio delle numerose coordinate di rilettura dell’intera questione, la “presenza” delle donne come snodo decisivo, kerygmatico della Resurrezione trova modulazioni ancora più profonde, veterotestamentarie, nel riconoscimento del rapporto particolarissimo, femminile ovvero viscerale tra la morte e la vita, anche nel brutale rovesciamento prefigurato da Rachele. Per Matteo, alle soglie dell’era messianica, sarà ancora una volta il ricordo di Rachele che piange i suoi figli a fare da spartiacque tra il vecchio e il nuovo eone. «Né è un caso», prosegue Perroni in una nota, «che i rabbini assimilino il grembo di Rachele alle tombe da cui avrà inizio la Risurrezione».
L'Osservatore Romano