sabato 21 marzo 2015

Scarpette rosse




Tracce dell’antica persecuzione dei cristiani in Giappone. 

(Cristian Martini Grimaldi) Correva l’anno 1868 quando in Giappone la rivolta contro lo shogunato portò alla restaurazione dell’imperatore. I fautori della svolta erano anche fanatici nazionalisti che intendevano elevare lo shinto a sacro culto nazionale, dunque ogni fede straniera era avvertita — se possibile ancor più di prima — come una minaccia allo spirito di patria.
Fu solo nel 1873 che, sotto le continue pressioni delle nazioni occidentali, il Giappone mise fine ufficialmente alla persecuzione dei cristiani non più tollerabile in una nazione che si avviava a essere pienamente integrata nella rete di scambi commerciali con il resto del mondo e nella diplomazia internazionale. 
Proprio per contrastare il sempre crescente dominio commerciale delle potenze straniere nell’area di Yokohama, nel 1887 le autorità giapponesi fondarono la Yokohama Specie Bank, specializzata nel commercio con l’estero. Con la sua bella cupola verde e le colonne corinzie è il simbolo della sincera infatuazione giapponese sul finire del XIX secolo per ogni artefatto di gusto europeo — visitando il museo Edo-Tokyo si possono osservare bellissime ricostruzioni dei quartieri di Tokyo di fine Ottocento.

La Yokohama Specie Bank è uno dei pochi edifici sopravvissuti al grande terremoto del Kanto del 1923, trovandosi così a rimpiazzare il primo vero segno architettonico della Tokyo moderna, la mitica torre Ryōunkaku, che invece crollò con il sisma.
Oggi il palazzo è diventato un museo di storia dove vengono conservate, tra le altre cose, anche le prime rappresentazioni giapponesi del “famigerato” commodoro Matthew Perry, non certo lusinghiere per l’americano: il nasone lungo quasi fosse un tengu — la leggendaria, diabolica creatura della mitologia giapponese — e lo sguardo arcigno lo fanno assomigliare a una sorta di temibile strega al maschile.
All’interno del museo c’è anche una ricostruzione del vecchio quartiere straniero che, con le sue ambasciate dai tetti a tegola e le strade a scacchiera, non appare affatto dissimile da un altro quartiere delle legazioni straniere in asia a quel tempo: quello di Pechino.
Passeggiando per la sala, ci capita di ascoltare la conversazione di due vecchiette sedute di fronte a un enorme cannone in bronzo dell’epoca. Una di loro pronuncia la parola «cristiani». Interpellata, ci dice di chiamarsi Yumiko, ha 81 anni e racconta che al tempo del liceo era fidanzata con un ragazzo cattolico che pensava di sposare. Il matrimonio non andò in porto «perché non capivo quella religione». Lei è cresciuta in una famiglia giapponese tradizionale, buddista e anche devota al culto shinto, per il quale esistono tante divinità: di conseguenza l’idea di un Dio unico è difficile da assimilare. 
Prima di salire in cima alla collina dove sorge il quartiere di Yamate, bisogna attraversare un altro quartiere, il Motomachi, originariamente un villaggio di pescatori. Tutto cambiò quando venne inaugurato il porto di Yokohama. Situato tra il distretto Kannai, dove risiedevano i centri del business e della diplomazia estera, e il quartiere residenziale per gli stranieri Yamate, divenne presto la zona dello shopping e delle coffee house. Ancora oggi il quartiere ha un carattere internazionale, con le boutique straniere e le pasticcerie dallo stile occidentale.
È da qui che si sale, attraversando l’Harbor View Park che ancora mostra i ruderi del vecchio consolato francese, sul quartiere collinare di Yamate. Come una risaia a terrazze si sviluppa, a ridosso della collina, il cimitero per stranieri. Tutt’intorno sorgono le grandi ville del vecchio notabilato europeo di oltre un secolo fa, ancora bellissime, ancora visitabili oggi.
Qui spunta, dopo aver percorso una serie di curve, anche la chiesa del Sacro Cuore, proprio quella prima chiesa costruita in Giappone dopo la fine delle persecuzioni. Ma questa non è la chiesa originaria, la quale venne rimossa da quartiere di Kannai e trasferita qui nel 1906, si dice perché il nuovo lotto assegnato corrispondeva al numero 44 che per i giapponesi è un numero portatore di sfortuna — il numero 4, shi, in giapponese ha lo stesso suono della parola morte.
Un’altra ragione sta nel fatto che non molto distante c’era proprio il cimitero degli stranieri (molti dei quali tra l’altro assassinati). La persecuzione dei cristiani era sì terminata ufficialmente da almeno trent’anni, ma due secoli e mezzo di sospetti nei confronti del «culto nemico» non si sradicano facilmente.
Nella nuova chiesa c’è una suora la quale spiega che i parrocchiani sono circa duemilacinquecento, molti dei quali vengono dal Sud America e dalle Filippine. La suora ci rivela, poi, un fatto singolare riguardo alla storia della chiesa originaria, quella che si trovava a valle a pochi passi dal porto. Racconta che poco dopo la sua inaugurazione, 33 giapponesi arrivarono in visita e il Governo, credendo che fossero dei cristiani, li fece subito imprigionare. In realtà si trattava di devoti shinto venuti a visitare la chiesa appena inaugurata. Solo tramite l’intercessione del consolato francese i 33 giapponesi vennero rilasciati due giorni dopo. Ciononostante ai preti cristiani venne fatto divieto di dire messa in lingua giapponese e di uscire dal territorio di concessione — per un raggio di circa 25 chilometri — senza un permesso speciale.
Nello scendere verso il parco Yamashita, a ridosso del porto, è possibile vedere una statua di bronzo che rappresenta una bambina seduta su un grande piedistallo rosso. Ha le mani giunte sulle ginocchia e un sorriso appena accennato, forse il simbolo più eloquente di quell’atteggiamento misto di ammirazione e biasimo che i giapponesi hanno nutrito verso l’occidente per lungo tempo.
Un vecchietto se ne sta seduto su una panchina proprio di fronte alla statua. Alla domanda sul significato di quest’opera risponde spiegando che c’è una poesia, dei primi anni del Novecento, che racconta di una mamma costretta dalla povertà ad abbandonare la figlia di soli tre anni a una coppia straniera. E il vecchietto intona una filastrocca che così recita: «È partita dal porto di Yokohama con uno straniero, e ogni volta che vedo delle scarpette rosse penso a lei, e quando sente la mancanza del Giappone lei volge lo sguardo al cielo blu e implora lo straniero di riportarla presto a casa».
L'Osservatore Romano