giovedì 19 marzo 2015

Summus jus.............



Se il Diritto canonico ragiona più per principi che per regole


Un articolo di padre De Bertolis sull'ultimo numero di «Civiltà Cattolica»: l'esperienza giuridica non è mai astratta, bisogna tenere conto dei contesti. Perché attribuire alla lettera un valore irrinunciabile può portare «anche reali iniquità o ingiustizie, facendo valere la norma astratta più della vita reale»

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO


«Ciò che è davvero rilevante per il diritto non è la semplice macchina normativa, il che cosa costituisce materialmente la norma, o più banalmente il che cosa dice il Codice, ma piuttosto come ragiono a partire da esso... Il non detto è più importante di quello che è detto, anche nel diritto». È significativo il saggio di padre Ottavio De Bertolis pubblicato sul nuovo numero di «Civiltà Cattolica». L'articolo, intitolato «Il ragionamento giuridico e la pastoralità del Diritto canonico», s'inserisce anche nelle riflessioni in corso nell'ultimo anno dentro la Chiesa.


«Probabilmente tutti noi - scrive l'autore - pensiamo che il ragionamento giuridico sia in fondo abbastanza semplice: abbiamo uno schema generale e astratto, la norma o regola, che funziona come una griglia di lettura della realtà; abbiamo poi una fattispecie concreta, il caso particolare, che è disciplinato da quella norma; ne deriva una conclusione, l’applicazione della norma al caso. In tal modo, il ragionamento giuridico ha la forma di un imbuto — la norma, appunto —, nel quale viene versata l’acqua informe della vita reale; da lì essa uscirà determinata puntualmente».


In questa ottica, «l’interpretazione della norma sarà tendenzialmente letterale, volta a ridurre al massimo ogni possibile oscillazione legata alla soggettività, fingendo che le parole siano chiare in se stesse e nel loro significato, mentre, al contrario, il significato proprio dei termini è il vero problema dell’interpretazione e non la chiave di risoluzione di esso».


Questo «ragionare per regole», aggiunge De Bertolis, ben s'innestava «nel contesto culturale del razionalismo, della costruzione cioè del diritto come una grande geo­metria. Come tutte le geometrie, anch’essa sorge da princìpi, o assiomi, dai quali, con un procedimento deduttivo sillogistico, proprio come il sillogismo del quale abbiamo parlato sopra, si dipana tutto l’albero del diritto». Ma, ricorda l'autore, nel mondo antico e medievale, del quale Aristotele, da un lato, e san Tommaso d’Aquino, dall’altro, possono essere considerati «esponenti sommi, il diritto era considerato una scienza pratica, non teorica. Mentre la scienza teorica, o teoretica, come appunto la geo­metria, si costruisce a partire da princìpi o assiomi, quella pratica si costruisce a partire dal fine che si persegue». Lo schema del ragionamento pratico non è: «poiché questa è la regola, o il principio, allora si deve fare questo», ma: «poiché questo è il fine, come debbo regolarmi?». «Il fine - fa notare "Civiltà Cattolica" - non è altro che il bene che vogliamo perseguire».


«Naturalmente, in tal modo si perde la certezza propria del ragionamento deduttivo, o "per regole", che in effetti permette di giungere a conclusioni certe. Queste tuttavia rimangono sempre le stesse, in qualunque tempo e con qualunque destinatario - scrive De Bertolis - con il rischio inevitabile di creare reali iniquità o ingiustizie, facendo valere la norma astratta più della vita reale, e attribuendo alla lettera un valore irrinunciabile. Ne consegue un diritto a fotocopia, irrigidito, con i paraocchi, e si verifica il detto fiat iustitia, pereat mundus (sia fatta giustizia e perisca pure il mondo, ndr). In questo contesto è sottinteso che la giustizia coincide con la legge».


Comprendere invece il diritto nell’ambito del sapere pratico, «permette di costruire un diritto più a misura d’uomo. Questo modello di ragionamento è classico: è quello della prudentia iuris già romana e medievale, cioè della ricerca volta per volta della soluzione più giusta per la situazione concreta che si ha davanti, che non è solamente una fattispecie, ma un caso, persone e non numeri, uomini e non sudditi».


«Nel ragionare "per regole" - osserva ancora "Civiltà Cattolica" - potremmo dire che la giustizia è fatta semplicemente coincidere con la legge; la procedura, ossia le modalità con le quali una proposizione qualsiasi diventa una proposizione normativa, è più importante del contenuto oggettivo o sostanziale. Banalmente: se è una legge, è buona e basta; possiamo solo applicarla. Si può dimostrare che questa è una vera secolarizzazione di concetti originariamente teologici: la voce del legislatore è la voce di Dio.


Dunque, mentre nel ragionamento per regole «vengono sviluppati solamente a partire da queste in un processo interpretativo binario tra la legge e l’interprete, nel ragionamento per princìpi invece vengono sviluppati in una dialettica più ampia, in un processo interpretativo a tre, tra la norma, l’interprete e il contesto in cui si svolge l’interpretazione, proprio come dispone, ad esempio, il can. 17 del Codice di diritto canonico». Il contesto non è il testo scritto, ma «la situazione vitale, cioè la persona destinataria della norma. Non si tratta di un’applicazione graduale o diversificata della norma, che è un controsenso, poiché la norma o è applicata o non lo è; ma è un diverso modo di ragionare, di argomentare e di giustificare una determinata conclusione». Al contrario, «il ragionare per regole finisce col tutelare un solo particolare bene, astraendo dalla complessità della realtà: se la legge è una misura dell’agire umano, dobbiamo sempre domandarci se sia la giusta misura».


Questo sguardo mira a evitare che l'applicazione «supina» della norma porti all'asservimento dell'uomo, perché «la legge è per l'uomo, e non viceversa». L’interpretazione per princìpi «non nega dunque quella per regole, e sarebbe fuorviante contrapporle», ma si tratta «di dare piena attuazione alla volontà stessa del legislatore». «Civiltà Cattolica», ricordando che nel diritto canonico il ragionamento per princìpi assume una rilevanza ancora maggiore che in quello statuale, cita come esempio la giurisprudenza della Rota e in particolare del cardinale Aurelio Sabattani (sacerdote, parroco, poi giurista alla Rota, arcivescovo e quindi cardinale Prefetto della Segnatura apostolica, scomparso nel 2003). «Da vero giurista, egli argomentava, pure nella vigenza del Codice del 1917, non soltanto applicandone le regole, ma, senza negarle, comprendendole e integrandole in un contesto più ampio. Egli partiva dal presupposto che il diritto naturale e divino hanno pieno vigore, essendo sovraordinati al diritto puramente ecclesiastico, ossia di derivazione umana, e avendo di fronte a sé casi reali, persone che attendevano di essere comprese e tutelate, non soltanto come semplici destinatarie delle decisioni, ma facendole rientrare nel ragionamento stesso». Così, Sabattani «ha elaborato criteri per valutare la nullità del matrimonio che andavano oltre i semplici canoni». In questo modo «ha oltrepassato il dettame normativo, ma non lo ha tradito», tant'è vero che la codificazione successiva, promulgata da Giovanni Paolo II nel nuovo codice recepisce la sua giurisprudenza.


Questa interpretazione sulla base dei princìpi e dei fini rappresenta la «pastoralità» del Diritto canonico. Significativamente, anche Benedetto XVI, nel discorso alla Rota romana del 21 gennaio 2012 diceva: «Qualora si tendesse a identificare il diritto canonico con il sistema delle leggi canoniche, la conoscenza di ciò che è giuridico nella Chiesa consisterebbe essenzialmente nel comprendere ciò che stabiliscono i testi legali... Ma risulta evidente l’impoverimento che questa concezione comporterebbe: con l’oblio pratico del diritto naturale e del diritto divino positivo, come pure del rapporto vitale di ogni diritto con la comunione e la missione della Chiesa, il lavoro dell’interprete viene privato del contatto vivo con la realtà ecclesiale». Qui l’invito, commenta De Bertolis, è a «oltrepassare il ragionamento basato su regole, per interpretare queste in riferimento a quei princìpi che informano l’ordinamento canonico, il diritto divino e naturale».


«Per cogliere il significato proprio della legge - aggiungeva Papa Ratzinger - occorre sempre guardare alla realtà che viene disciplinata, e ciò non solo quando la legge sia prevalentemente dichiarativa del diritto divino, ma anche quando introduce costitutivamente delle regole umane. Queste vanno infatti interpretate anche alla luce della realtà regolata, la quale contiene sempre un nucleo di diritto naturale e divino positivo».

«Papa Francesco - conclude "Civiltà Cattolica" usa spesso il termine "autoreferenzialità", radice della "corruzione" delle persone e dello stesso sistema, e con esso indica quel grande pericolo psicologico, e intellettuale al tempo stesso, per il quale ognuno di noi, se è troppo innamorato delle proprie idee, finisce per confondere il mondo con la propria interpretazione del mondo o, se preferiamo, i libri (di diritto, o di morale) con la realtà: questo è un problema anche per il diritto. Non si tratta di abolire i libri e ciò che insegnano, ma piuttosto di creare, tra essi e la vita reale delle persone, quella osmosi senza la quale non c’è vita. Si vorrebbe, in fondo, solamente evitare l’idolatria delle idee, perché, secondo san Tommaso, non è la ragione misura delle cose, ma è piuttosto il contrario. È vero anche per quelle costruzioni del tutto particolari che sono i nostri ragionamenti ciò che dice il diacono Stefano: "L’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo" Noi possiamo, e dobbiamo, fare costruzioni, anche giuridiche, ma dobbiamo costantemente ricordarci che Dio è più grande, se non altro per non confondere il tempio con Dio stesso».