martedì 24 marzo 2015

Una sfida per l’Europa



Nel dramma dell’immigrazione

Anticipiamo, quasi integralmente, l’intervento che il cardinale arcivescovo di Agrigento, presidente della commissione dell’episcopato italiano per le migrazioni, tiene nel pomeriggio di oggi, martedì 24, al Consiglio d’Europa di Strasburgo in occasione del congresso su «Risposte locali alle sfide dei diritti umani. La migrazione, la discriminazione, l’inclusione sociale».
(Francesco Montenegro) Nel mondo si spostano circa 230 milioni di uomini (si può dire che costituiscono un altro continente). Quando i popoli si muovono nulla resta più come prima, sia sul piano politico che economico. Molti sono costretti a fuggire dai loro Paesi. L’esodo di queste popolazioni non è il “male”, ma il “sintomo” di un male: quello di un mondo ingiusto, in larga misura caratterizzato da conflitti e situazioni di estrema povertà, ed è anche denuncia dell’idea di un Occidente, fulcro della civiltà, che va indebolendosi.
D’altra parte, anche lo scambio di capitali finanziari, di merci, di servizi, di tecnologia sono frutto della globalizzazione, che porta con sé, ugualmente, il fenomeno delle migrazioni. Tuttavia, mentre favoriscono i flussi economici e commerciali, spesso i Governi scoraggiano il movimento di persone. Quando, poi, mancano o sono insufficienti normative adeguate per far fronte a situazioni inattese, non è difficile costatare le negative ricadute sugli enti locali e regionali, che non di rado si trovano disorientati nella gestione di una realtà tanto complessa che coinvolge donne e uomini, ma anche minori non accompagnati e persone in stato di vulnerabilità e, in modo crescente e drammatico, anche rifugiati, vittime di guerre, di violenze, di violazioni dei diritti umani, di tratta, di traffici illeciti.

Sono un vescovo che vive al confine sud dell’Italia e, pertanto, mi confronto con la situazione di questo Paese, dove, in meno di vent’anni, l’immigrazione è decuplicata e in soli cinque anni è più che raddoppiata. L’Italia, con gli Stati Uniti d’America, è stato negli anni scorsi il Paese a più alta pressione migratoria e ciò ha riflessi nella vita sociale, economica e culturale della nazione, in particolare negli ambiti del lavoro, della famiglia e della scuola. Questo e altri elementi cambiano le città, la nazione, l’Europa.
In questi anni sono stato testimone del percorso dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Lampedusa, che significa sia faro (dal latino lampas, fiaccola) sia pietra d’inciampo (dal greco lèpas, scoglio), è l’isola delle contraddizioni. In piccolo, è il mondo. Chi la abita vuole trasferirsi altrove, mentre per chi arriva dal continente africano è l’inizio del nord migliore. Sogno questo che per molti si trasforma in tragedia: sono sepolti nella tomba liquida, che è il Mediterraneo, più di 20.000 annegati. Eppure in queste acque, nel corso dei secoli, popolazioni diverse si sono incontrate e confrontate. Dall’altra parte del mare ci sono uomini e donne che vogliono vivere più dignitosamente. 
Di fronte a queste aspettative e ai tentativi di raggiungerle, c’è l’atteggiamento dei nostri Paesi che vedono con preoccupazione questi afflussi, non disgiunti da altre sfide, come, a esempio, il fatto che nuove politiche economiche nel continente africano ed eventuali nuovi assetti del Mediterraneo potrebbero destabilizzare consolidati equilibri economici, politici e sociali del vecchio continente. 
Tra i desideri di quella gente e la nostra paura c’è la gente di Lampedusa, modello nuovo e vecchio di convivenza e di rispetto possibili. I lampedusani ci insegnano che, come non si possono fermare i sogni e il vento, così non si può fermare la storia. È una storia che ha visto arrivare a Lampedusa, in Sicilia e Calabria, tra il 2011 e oggi, quasi 300.000 persone. Nel 2011 l’Italia aveva un piano-asilo centrato su grandi strutture di accoglienza e su un piano nazionale per l’integrazione, che prevedeva solo 3.000 posti, realtà insufficiente a garantire un’accoglienza dignitosa di fronte alla massiccia crescita del flusso migratorio. Il volontariato laico ed ecclesiale spesso ha supplito le istituzioni nell’accoglienza. Già da allora s’invoca un piano europeo e una modifica degli accordi di Dublino per favorire una maggiore e libera circolazione dei richiedenti asilo e rifugiati che hanno familiari e comunità di riferimento nei diversi Stati. La situazione è poi esplosa nel 2014, quando sulle coste e nei porti del sud Italia sono arrivate 170.081 persone, tre volte il numero delle persone arrivate negli anni 2012-2013 (56.192). Un ruolo importante in questi viaggi della speranza l’hanno avuto le forze armate di mare, diventate un grande strumento umanitario.
Dopo i 366 morti nella tragedia del 3 ottobre 2013, l’Italia ha iniziato l’operazione Mare nostrum che, diversamente da Frontex, non solo controllava i confini, ma presidiava il Mediterraneo fino a pochi chilometri dalle coste libiche e salvava i migranti. L’operazione ha salvato migliaia di migranti e, al tempo stesso, ha permesso di catturare oltre 700 trafficanti. Purtroppo, negli ultimi mesi abbiamo dovuto confrontarci, con profondo dolore e delusione, con la morte di oltre 300 persone. Ora l’Europa sta rivedendo la sua politica migratoria e si spera che ciò porti a una gestione delle frontiere nel Mediterraneo rispettosa dei diritti umani di quanti lo attraversano. 
La Santa Sede auspica che gli Stati membri europei possano condividere efficaci misure comuni per affrontare questioni di prioritaria importanza, come l’assistenza di emergenza ai richiedenti asilo e la creazione di canali umanitari per facilitare le procedure burocratiche e ridurre i centri di detenzione, la protezione dei minori non accompagnati, il ricongiungimento familiare e il contrasto alla migrazione irregolare per vincere la battaglia contro il contrabbando e il traffico di esseri umani, che il Santo Padre Francesco ha definito «piaga vergognosa del nostro tempo». Le misure normative, che l’Unione europea è chiamata oggi ad assumere in campo migratorio, possono diventare un modello per altre aree del mondo, se non dimenticano la storia di grande esperienza umanitaria del continente europeo e le sue radici nel rispetto della dignità di ogni persona. 
Inoltre, siamo tutti consapevoli che non si può abbassare la guardia sulle nuove fragilità e sulla povertà degli immigrati. La precarietà e l’irregolarità lavorativa esigono che si affronti il tema dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, dentro un quadro di regolamentazione dei flussi. È una prospettiva nuova che richiede un cambiamento legislativo, ma soprattutto chiede la consapevolezza che non possono esistere situazioni riconosciute di illegalità e di sfruttamento lavorativo, che non permettono la cittadinanza e la tutela, o alimentano mafie, corruzione e sfruttamento a danno del Paese ospitante, oltre che degli stessi immigrati.
La dignità della persona umana e la sacralità della vita richiedono una riflessione critica, che coinvolga tutte le componenti delle comunità più vicine ai migranti, nei Paesi di origine, di transito e di destinazione dei flussi migratori. Inoltre, va incoraggiata la molteplicità delle responsabilità, in cui le istituzioni internazionali, le autorità nazionali e locali, la società civile, le associazioni e i singoli individui si sentano chiamati a lavorare in sinergia per evitare che la migrazione diventi l’unica scelta possibile. Le migrazioni sono oggi, per l’Europa, la grande sfida umana.
L'Osservatore Romano