giovedì 7 gennaio 2016

Fantadiritto



di Aldo Vitale
Su Repubblica dello scorso 4 gennaio Stefano Rodotà sostiene la tesi del matrimonio egualitario, cioè la necessità che il legislatore estenda la portata e l’applicabilità dell’istituto matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso.
Il ragionamento di Rodotà di fonda su tre punti principali: 1) il diritto in genere e il matrimonio in particolare devono seguire e adattarsi ai mutamenti delle dinamiche sociali, escludendo una natura immutabile del matrimonio; 2) il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità quando si contesta l’accesso delle persone dello stesso sesso al matrimonio; 3) si invoca impropriamente l’utero in affitto.
Sul punto occorre far chiarezza.
In primo luogo: tutto il ragionamento di Rodotà si imposta su un equivoco di fondo circa il principio di uguaglianza che dal noto “giuri-star” viene inteso in senso monolitico e formale, ignorando del tutto la dottrina (da Aristotele in poi) e proprio la giurisprudenza costituzionale che sul punto è sempre stata molto chiara: in base al principio di uguaglianza occorre trattare casi simili in modo simile e casi diversi in modo diverso.
La stessa Corte Costituzionale che ha auspicato l’intervento del legislatore verso il riconoscimento delle unioni civili (e non necessariamente del matrimonio) anche, e non solo tra persone del medesimo sesso, ha ribadito infatti nella celebre sentenza 138/2010 in cui si è chiarita la portata dell’art. 29 Cost. che pone « il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere). Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata».
Le stessa Corte Costituzionale, del resto, con l’ordinanza 4/2011 ha ribadito in modo espresso che, ferma restando la necessità di tutelare i diritti, non è tramite il matrimonio egualitario che ciò sarà possibile, poiché, scrive la Corte Costituzionale «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio».
In secondo luogo: ritenere che il diritto debba adattarsi e piegarsi alle dinamiche sociali significa sposare un’idea del diritto che nella storia è stata foriera di lesioni di libertà e diritti personali, poiché così si rende il diritto un mero strumento per la soddisfazione ora della volontà del sovrano, ora del sentire collettivo, ora del capriccio personale, disancorandolo da quella giustizia ultra-particolare, cioè universale, di cui invece dovrebbe essere il riflesso.
In terzo luogo: la visione strumentalistica (distorcente e distorta) del diritto come occasione di formalizzazione del proprio desiderio, qualunque esso sia, si esprime nell’idea per cui vi sia un paradigma eterosessuale, che per di più ciò sia oramai incostituzionale e che quindi non sia più invocabile per negare l’accesso al matrimonio.
Sul punto occorre far chiarezza. Come ha ben riconosciuto la stessa Corte Costituzionale con la suddetta sentenza 138/2010 e più di recente il Consiglio di Stato con la magistrale sentenza 4899/2015, infatti, l’istituto della famiglia fondata sul matrimonio è, in buona sostanza, di diritto naturale, cioè quel diritto che non solo precede l’ordinamento statale il quale non si può che limitare a prendere atto della sua esistenza, ma che dallo Stato non può essere manipolato senza ledere natura stessa del diritto, compiendo strafalcioni giuridici e arbitri legislativi. Il matrimonio, del resto, non è un cinema a cui si accede e al quale chiunque può accedere; se così non fosse, se cioè avesse ragione Rodotà, non si comprende perché non si possa o non si debba un domani estendere ancora l’accesso alla disciplina del cosiddetto “matrimonio egualitario” anche ai bigami, ai poligami, a chi pretende il poliamore o perfino l’amore incestuoso.
Insomma: quale è il limite dell’egualitarismo? E chi lo pone? E perché? Ad essere più che incostituzionale, ma più radicalmente antigiuridico, dunque, non è il “paradigma eterosessuale” di cui si duole Rodotà, ma il pensiero, di cui Rodotà è orgoglioso sebbene inconsapevole esponente, che il diritto consista nel poter fare tutto ciò che si vuole.
Vengono alla mente, per quanti dovessero condividere l’idea di Rodotà, le parole di uno dei padri autentici della cultura giuridica italiana come Piero Calamandrei che così ha scritto: «C’è il caso che l’inesperto e il dilettante di filosofia si metta a proclamare che il diritto consiste unicamente nel far tutti quanti il comodo proprio».
In quarto luogo: l’invocazione dell’utero in affitto non è impropria. Dopo l’eventuale e giuridicamente infausto riconoscimento del “matrimonio egualitario” che Rodotà si auspica, non si può non ritenere che il passo successivo sia la “genitorialità egualitaria”. La genitorialità, tuttavia, piaccia o meno, è legata inevitabilmente e soprattutto biologicamente a paradigmi eterosessuali, necessitando, dunque, il ricorso all’utero in affitto o in prestito (che non è meno moralmente problematico per ragioni che in questa sede per motivi di spazio occorre omettere, ma tenere ben presenti) per soddisfare il bisogno di genitorialità delle coppie a cui è stato consentito l’accesso al matrimonio egualitario.
Che così sia, del resto, lo dimostra non l’omofobia dell’ultraconservatorismo cattolico dedito al terrorismo psicologico, ma la Carta Etica delle stesse famiglie arcobaleno che, fissando addirittura un tariffario di massima in comparazione con quello estero, tanto dichiarano: «Noi pensiamo che la compensazione in denaro sia necessaria e auspicabile e che debba essere fatta all’interno di un sistema trasparente e legale, cioè tutelato dalle leggi dello Stato nell’interesse della donna stessa. Pensiamo che questo compenso debba essere equilibrato e proporzionato all’investimento psico-fisico della gestante. Portare in grembo un bambino vuole dire non solo nove mesi di gravidanza, ma almeno altri tre mesi di recupero fisico. Cioè un anno intero dedicato a questo progetto: vuole dire visite mediche, attenzione continua all’alimentazione e all’attività fisica, spese per i vestiti adatti, spostamenti presso cliniche per i controlli, rallentamento o sospensione alla vita lavorativa abituale, rischi per la salute, ecc… Merita dunque secondo noi un compenso adeguato, che comunque non sarà mai un saldo per la generosità e l’importanza dell’atto compiuto.  Le portatrici in America e in Canada ricevono un compenso di circa 19.000 euro, che ci sembra una somma adeguata e non tale da indurre donne in buone condizioni economiche a scegliere la GPA come un mestiere e basta».
In conclusione, parafrasando l’espressione finale di Rodotà, se davvero vogliamo tornare a parlare di diritto, ricordiamoci che esso per essere davvero giusto, prima ancora di essere legge o volontà del legislatore, deve essere espressione dell’immutabile diritto naturale.


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