domenica 10 gennaio 2016

Il concilio della Misericordia. Sui sentieri del Vaticano II



La sinodalità cuore del Vaticano II. Camminare insieme
L'Osservatore Romano
Sui sentieri del concilio. Fino a che punto, dopo cinquant’anni da quella grande assise ecumenica, la Chiesa cattolica si è fatta plasmare dagli insegnamenti e dal rinnovamento del Vaticano II? È questo l’interrogativo di fondo del volume Il concilio della Misericordia. Sui sentieri del Vaticano II (Roma, Città Nuova, 2015, pagine 407, euro 18) a firma del teologo preside dell’Istituto universitario Sophia di Loppiano. Pubblichiamo ampi stralci tratti dal capitolo intitolato «Per un risveglio della coscienza sinodale del Popolo di Dio».
(Piero Coda) Grazie al concetto di sinodalità s’intende sottolineare oggi la dinamica specifica della vita e del cammino della Chiesa di Gesù Cristo nella storia quale espressione di quel soggetto comunitario che viene escatologicamente istituito, in Cristo Gesù crocifisso e risorto, come Popolo di Dio votato all’annuncio, alla testimonianza e alla promozione dell’avvento del Regno tra gli uomini. L’attenzione alla figura e alla dinamica della sinodalità nella Chiesa, dunque, non intenziona, in prima istanza, una forma istituzionale di governo della Chiesa stessa, ma, in forma più originaria e pervasiva, quello specifico spirito e quello specifico metodo e stile di vita e di testimonianza del Vangelo che non possono non assumere anche una specifica configurazione pratica.
In questo senso, il concetto di sinodalità copre un significato più ampio e articolato, anche se sinora di fatto meno preciso nella letteratura teologica, di quello di collegialità. Esso non intende esprimere semplicemente infatti — nella teologia cattolica — un esercizio di discernimento e di governo della Chiesa quale espressione del collegio episcopale e dunque per sé distinto, anche se a esso intrinsecamente congiunto, rispetto al ministero petrino dell’unità: ma, piuttosto, quel «camminare insieme» dell’intero Popolo di Dio che in sé comprende e attiva l’esercizio articolato dei diversi carismi e ministeri, esercitati secondo lo spirito e il metodo della comunione. E ciò nella logica di un’ordinata ma insieme creativa “pericoresi” ecclesiale che plasmi la comunità cristiana come adeguato luogo di ascolto e incarnazione della Parola di Dio, nell’apertura a «ciò che lo Spirito dice oggi alle Chiese» (Apocalisse, 2, 7). Si tratta, dunque, quando si valorizzi adeguatamente l’istanza della sinodalità, non solo di ritrovare e dar spazio a quel soffio capace di rinnovare interiormente la vita e la missione della Chiesa, ma anche di riconoscere e promuovere quei luoghi e quegli strumenti di esperienza ecclesiale che, secondo lo spirito e le direttive del concilio Vaticano II, sono deputati ad assicurare e promuovere la comunione e la missione della Chiesa.
L’istanza della sinodalità — anche se esplicitamente il termine non vi ricorre nell’accezione ampia e articolata di cui prima —, in verità, è al cuore della grande opera di rinnovamento promossa dal Vaticano II. Ma non è riuscita sinora a tradursi decisamente e persuasivamente nelle forme storiche adeguate a esprimerla e a veicolarla. Tanto che oggi, per molti aspetti, la spinta verso una figura sinodale di Chiesa, benché auspicata e condivisa dai più, appare nei fatti frustrata quando non bloccata. Le conseguenze sono percepibili, soprattutto, su tre fronti: l’illanguidimento (in particolare in Occidente) della vita delle comunità cristiane, con la tentazione di rispondervi con il ritorno a una figura accentuatamente clericale di Chiesa; l’impasse sulla via del cammino ecumenico verso la piena unità, dove la questione del rapporto tra primato e sinodalità (nel senso ampio dei due termini) si mostra con sempre maggiore chiarezza — penso, in particolare, al dialogo tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse — come il vero e decisivo punctum dolens e saliens che è assolutamente indispensabile affrontare e sciogliere; la difficoltà crescente dell’annuncio e della testimonianza di Gesù Cristo, da parte dei cristiani, per diventare ciò che essi sono in Cristo e hanno da mostrarsi al mondo: sale e lievito di orientamento e trasformazione degli ingenti processi di cambiamento culturale e sociale che investono il nostro tempo.
Tutto ciò denuncia la necessità di un ulteriore scavo specificamente teologico del significato e dei connotati essenziali della figura sinodale della Chiesa. In effetti, il messaggio conciliare indirizzato a dischiudere l’orizzonte, nella coscienza dei credenti, di un’esperienza rinnovata nell’essere e nel camminare come Popolo di Dio condotto dal Signore risorto nella storia, e dunque di un’attivazione in tutte le espressioni della vita della Chiesa della forma dinamica della communio, ha incontrato non poche difficoltà e non pochi ostacoli. Certo, molti passi in avanti si sono fatti, ma non direi che si è riusciti a voltare pagina, come auspicava la “nuova pentecoste” invocata da Giovanni XXIII. Il motivo radicale di ciò mi pare vada riconosciuto precisamente nel fatto che il rinnovamento promosso dal Vaticano II, per diventare carne e sangue del Popolo di Dio, chiedeva e chiede, appunto, una adeguata e determinata concentrazione d’impegno sulla formazione della coscienza sinodale dei credenti e della comunità cristiana. La sinodalità, come determinazione della coscienza e come forma e stile di prassi, chiede infatti una profonda ristrutturazione dell’esperienza della fede e della sequela di Gesù Cristo. Non si tratta solo di un fatto operativo, ma neppure soltanto di un fatto intellettuale, bensì, in prima istanza, di un fatto spirituale o, meglio detto, pneumatico. Si tratta, cioè, di immergere la coscienza credente nell’esperienza del vivere in Cristo, sotto l’azione dello Spirito, nella concretezza di quella communio che è il Popolo di Dio. Molto opportunamente, con una punta anzi di sano realismo profetico, Yves Congar, uno dei grandi protagonisti del rinnovamento conciliare, sottolineava a suo tempo che come la concezione e la struttura societaria e piramidale della Chiesa, prima del concilio, trovavano il loro punto di forza, a livello esistenziale, in una spiritualità dell'obbedienza al principio gerarchico, così, in sintonia con la figura di Chiesa Popolo di Dio delineata dal Vaticano II, si mostra oggi necessaria una spiritualità della comunione. Qualcosa di simile, anni dopo, scriveva anche Karl Rahner. Non si tratta di pensare alla spiritualità come a un fatto decorativo e accessorio, ma come a quella vita nello Spirito in cui la coscienza credente è attivata e plasmata secondo il “pensare e agire” (phrónesis) di Cristo Gesù. La coscienza credente, secondo la sua intrinseca forma cristica, deve cioè riguadagnare oggi il profilo eccentrico e concentrico che essenzialmente la qualifica nell’esperienza vissuta e praticata dello Spirito: e cioè la capacità — responsabilmente esercitata a partire dalla grazia dello Spirito — di attingere il suo essere in Cristo non solo come punto di partenza del suo esercizio (e, dunque, “in sé”), ma anche, e di conseguenza, come punto di approdo nella sua costitutiva relazione agli altri nello spazio della communio e della missio Ecclesiae (e, dunque, “fuori di sé”). Questa esperienza di coscienza sinodale in atto se, in passato, è stata custodita e focalizzata (non senza, per il vero, derive anche pesanti) nelle comunità di vita monastica o, per esempio, nell’ispirazione di vita di fraternità come quella francescana, oggi — come auspica il concilio, interpretando i “segni dei tempi” alla luce della Parola di Dio — chiede di diventare patrimonio comune del Popolo di Dio. Formazione teologica dell’intelligenza della fede e formazione spirituale della coscienza credente debbono andare di pari passo, insieme a un più chiaro e determinato orientamento strategico in questa direzione da parte di chi, in seno alla Chiesa, esercita il ministero della guida e dell’unità.
L'Osservatore Romano