domenica 10 gennaio 2016

Preti tra cielo e terra




(Nicola Gori) Il prete non può fare a meno del confessionale, il «luogo santo» in cui la misericordia di Dio si incontra con la fragilità umana. A maggior ragione nell’anno giubilare, il sacerdote è chiamato a riscoprire questo aspetto del suo ministero e a viverlo con piena disponibilità. Lo sottolinea in questa intervista al nostro giornale il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero
«Un prete che non è misericordioso fa tanto male nel confessionale» ha ammonito di recente il Papa. Crede che i sacerdoti siano sufficientemente formati a questo ministero?
Basterebbe ricordare quanto lo stesso Francesco ha scritto nell’Evangelii gaudium: i credenti non smettono mai di essere discepoli in cammino e, perciò, «il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato».
Nessun prete può sentirsi esonerato dal dovere di una formazione permanente, che rinnovi il suo “eccomi” e lo riempia di nuovo slancio. E sulla misericordia, un po’ tutti abbiamo bisogno di essere continuamente evangelizzati. Nell’anno santo straordinario, questo significa tornare a imparare dal cuore di Cristo, volto della misericordia del Padre. Noi non siamo mai pronti a questo, perché nel pastore ritorna sempre la tentazione di dover “sistemare” le cose, di dover legiferare e stabilire norme. A volte l’ansia del controllo o della gestione delle cose conduce il prete a diventare un “uomo delle regole”, comodamente rassicurato dai propri schemi, invece che gioiosamente disponibile allo Spirito. Così, anche senza volerlo, egli può diventare incline a giudicare, fare fatica a essere animatore delle diverse sensibilità, non riuscire ad ammettere la diversità di opinioni e, alla fine, agire secondo criteri di giustizia umana, diventando così un rigido “controllore della grazia divina”, invece che uno strumento dell’amore di Dio. Ma la misericordia di Dio eccede i criteri del cuore umano e questa deve essere la scuola permanente del ministero sacerdotale.
Come può un prete esprimere concretamente la misericordia di Dio?
Il sacerdote, per il dono ricevuto e non certo per i suoi meriti, è un ministro della misericordia divina. Egli la manifesta al mondo anzitutto vivendo, nella propria carne, la bellezza e insieme il “dramma” di questo paradosso: è un peccatore chiamato a dispensare la misericordia di Dio agli altri, un uomo ferito che, una volta risanato dall’olio della grazia di Dio, fa scendere questa unzione sul popolo che gli è stato affidato. Dunque, per prima cosa, il prete deve vivere nella propria esperienza personale la grazia del perdono, altrimenti difficilmente riuscirà a comunicare il desiderio di Diodi rialzare la nostra vita dal fango del peccato. Sperimentando in prima persona la tenerezza di Dio, la misericordia può diventare il tratto distintivo del suo ministero. Questo si può esprimere in modi diversi. Ne vorrei sottolineare tre: il confessionale, gli effetti sociali, i rapporti personali.
Cominciamo dal primo. Oggi i sacerdoti dedicano tempo adeguato al ministero del confessionale?
Direi che è necessario, per i preti, innamorarsi nuovamente del ministero della riconciliazione, dedicando tempo, spazi e cuore ai penitenti che desiderano ritornare a Dio. Non sarà mai sprecato il tempo che un sacerdote passa nel confessionale, mettendosi a disposizione per l’ascolto, se possibile anche con orari e modalità precise. In questo luogo santo è possibile l’incontro tra le fragilità umane e la misericordia di Dio che tocca, risana e rialza. Per mediare la bellezza di questo incontro, il prete è chiamato ad accogliere con mitezza il penitente, avere delicatezza nel tratto e nelle parole, incoraggiare e sollevare le persone. Pur indicando con fermezza la via da seguire, mai deve scoraggiare o umiliare ma, piuttosto, permettere che le persone siano raggiunte dalla tenerezza di Dio che risana e guarisce. Papa Francesco, con un’immagine molto efficace, ha affermato che «il confessionale non deve essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore». In questo giubileo teniamo dunque le chiese aperte e spendiamo tempo nel confessionale. Invitiamo i fedeli a riconciliarsi con Dio, con se stessi e con i fratelli; attendiamoli con le braccia aperte e permettiamo loro di sperimentare la bellezza dell’abbraccio di Dio. Ricordiamoci che «ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo» ed essere «sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della misericordia». Questo è il primo modo per manifestare la misericordia di Dio al mondo. Ma ce nè un altro che riguarda gli effetti sociali di questo esercizio della misericordia.
Come si manifestano nella vita di una comunità?
Un prete che confessa, anche senza saperlo, rigenera l’ambiente in cui le persone vivono perché, attraverso la grazia sacramentale, le restituisce a un coraggio nuovo, a una disponibilità più generosa verso il bene, a un rinnovato desiderio di carità verso i fratelli. Forse spesso si sottovaluta la valenza sociale e pubblica di questo sacramento e gli effetti reali e concreti che può avere per l’ecologia umana della comunità. La vita nuova ricevuta nel sacramento, infatti, si trasmette e si riflette in ogni situazione della vita quotidiana. La segretezza della confessione non impedisce a questa realtà di essere anche “pubblica” e “sociale”, con ricadute che intervengono positivamente nel risanamento dei conflitti e giungono fino alle periferie esistenziali della povertà, del dolore, delle preoccupazioni umane e della solitudine. È impressionante il bene che la società può ricavare dal sacramento della riconciliazione; infatti le persone riconciliate portano questa pace ritrovata negli ambienti in cui vivono, nelle case, nei quartieri e nei posti di lavoro.
Qual è lo stile che deve caratterizzare l’atteggiamento del prete verso gli altri?
Un prete manifesta la misericordia di Dio quando assume uno stile sereno e generoso nelle relazioni personali. Quando sa uscire da se stesso per andare incontro alla vita reale delle persone, sa percepire la stanchezza o la solitudine nel cuore dell’altro, sa spendersi per condividere l’emarginazione e la sofferenza, sa aiutare le persone a superare l’odio e l’indifferenza. Allora il prete diventa segno della vicinanza di Dio per il suo popolo. In questo senso il prete è chiamato a superare chiusure ed egoismi, narcisismi e pretese di dominio. E quando è sereno nelle relazioni e disponibile al perdono, ha il cuore libero da interessi personali ed è capace di mediazione tra le differenze, diventa un esempio luminoso della misericordia di Dio.
Il 2015 è stato l’anno della «Laudato si’». Esiste una sensibilità ecologica da parte del clero?
Dai sacerdoti si esige sempre di più un ministero capace di abbracciare tutte le dimensioni della vita personale, sociale e spirituale. Tante volte Papa Francesco ci ha ricordato che i preti “asettici” non fanno un buon servizio al Vangelo. Se i cristiani credono che Dio è creatore e ci ha posti nel giardino per custodirlo, farlo crescere e fiorire per il bene comune, allora il prete deve avere una sensibilità ecologica. Prima ancora che nell’azione ministeriale, questa deve diventare un’attitudine vissuta in prima persona. Il prete evangelizza assumendo uno stile di vita radicato in una solida disciplina e in una ferma austerità verso se stesso; concretamente, significa imparare a essere sobri, ad avere un rapporto libero con le cose, a non sprecare, a non abusare dei beni pubblici — anche parrocchiali oppure offerti — e a non eccedere nelle comodità personali o della propria casa, soprattutto quando si trova in contesti segnati dalla povertà. LaLaudato sì’ ci ricorda che bastano piccoli gesti quotidiani. Nella vita del prete, questo significa vigilare perché le necessità personali non diventino dei comfort esagerati o dei lussi sproporzionati.
Che ruolo hanno i presbiteri nella «conversione ecologica» invocata dal Papa?
Un aspetto fondamentale dell’enciclica riguarda l’approccio integrale al tema dell’ecologia. Francesco parla di ecologia umana e della vita quotidiana, intendendo la qualità della vita, negli spazi in cui si svolge l’esistenza delle persone. Anche se vivessimo senza inquinamento atmosferico — cosa certamente importante — ma i ritmi di vita fossero inumani, le attività segnate dal disordine e dal caos, gli spazi pubblici privi di bellezza, le scelte personali e comuni dettate dal consumismo e, soprattutto, se le nostre relazioni fossero ferite dalla divisione, dall’egoismo e dall’odio, allora saremmo comunque in presenza di un “inquinamento” non meno pericoloso per le persone e le nostre città. Per favorire processi di trasformazione e di risanamento dell’ambiente vitale, il prete può fare davvero molto. Può animare la comunità perché diventi seme di concordia e di bellezza nello spazio in cui vive, può educare e formare le coscienze, può risanare le profonde ferite dell’anima che si generano a causa di relazioni spezzate, di ingiustizie subite, di dignità violate. Penso, ancora, alla possibilità che egli ha di conoscere in profondità il territorio e le sue fragilità, sapendone portare i pesi e le fatiche. Immagino il contributo che può offrire a tutta la comunità, conoscendo la storia dei singoli e delle famiglie da vicino, e condividendone i momenti più difficili e i passaggi segnati dalla malattia o da altre problematiche. Penso a come può sostenere — educando, esortando e ammonendo — la battaglia della comunità civile per superare le situazioni di degrado fisico o morale. Il prete può contribuire a creare un clima di serenità, di fraternità e di speranza, aiutando le persone a superare conflitti ed egoismi che spesso generano odio e divisione, e risanando, così, tutte le ferite che inquinano l’ambiente in cui viviamo e lo rendono torbido e poco ospitale.

L'Osservatore Romano