giovedì 2 febbraio 2012

Le ali della Torah


L'inizio del Vangelo di oggi, 2 febbraio, era il seguente:

"Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore".(Lc. 2, 22s)


Ma che cosa era questa  "Legge del Signore"? Era la Torah, quella che Dio consegnò a Israele ai piedi del Monte Sinai. Da pio ebreo quale era, Gesù costantemente si riferisce ad Essa. Ecco perchè è importante conoscerla un pò...
A tal fine consiglio questo libro, da cui traggo l' introduzione e qualche esempio di lettura cosiddetta "midrashica" (*) della Scrittura...



* * *






Chi mi darà ali come di colomba
per volare e trovare riposo?
(Sal. 55,7)

Quando Dio creò la colomba questa tornò dal suo creatore e si lamentò: «O Signore dell'universo, c'è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi ed io devo correre tutto il giorno con le mie zampe così corte». Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un'altra volta dal suo creatore e pianse: «O Signore dell'universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre con le ali addosso. Esse sono pesanti e non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli». Ma Dio le sorrise dicendo: «Non ti ho dato le ali perché tu le porti addosso ma perché le ali portino te». Così è anche per Israele, quando si lamenta della Torah e dei comandamenti, Dio risponde loro: «Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi» .

* * *

INTRODUZIONE

Israele ha considerato i dieci Comandamenti
come l’espressione principale della rivelazione
del Sinai. Durante gli anni del secondo
tempio, i dieci Comandamenti erano parte della
liturgia quotidiana che i sacerdoti celebravano nel
tempio di Gerusalemme.
Attualmente, nelle celebrazioni ebraiche di ogni
giorno, i dieci Comandamenti sono pubblicamente
letti tre volte all’anno: nei sabati a cui corrispondono
le letture di Esodo 20 e Deuteronomio 5 ed anche
nella festa delle Settimane o festa commemorativa
del dono della Legge. Ma nei libri di preghiera per
la devozione privata, e, pertanto, come parte della
celebrazione quotidiana, i dieci Comandamenti
sono letti dopo la preghiera mattutina di ogni giorno.
Le due tavole di pietra, con le Dieci Parole scritte
su di esse, che il Santo –benedetto sia– diede al
suo popolo, sono come un giardino di piante balsamiche
che producono spiegazioni e significati,
come un giardino produce erbe aromatiche. Le labbra
dei saggi, che studiano la Legge, distillano
ovunque significati, e i detti della loro bocca sono
come mirra purissima.
Il mondo si riempiva di aromi con ogni parola
che usciva dalla bocca del Santo, benedetto sia1.
Chi osserva e riflette sulle Sue parole, estrae da
esse fiori e fronde; come un bosco rigoglioso sono
le parole della Legge, chi le medita ne trae sempre
nuovi significati2.
Il derash, o studio midrashico3 della Legge, permette
all’uomo di conoscere i segreti della creazione
e la volontà del Creatore. Questi innumerevoli
significati sono dispersi negli scritti del Targum e
del Midrash.
Il Targum è una parafrasi aramaica del testo
biblico che non si prefigge di sostituire il testo, ma
solo di aiutare a comprenderlo meglio. I targumisti
sono innanzitutto interpreti della Scrittura. Non si
propongono una fedeltà al testo di tipo filologico,
ma desiderano, senza falsare il senso del testo, far
comprendere ciò che il testo vuol dire. Sono, dunque,
al tempo stesso, interpreti, omileti, testimoni e
portatori di tradizioni, rivelatori di misteri.
Attraverso il Targum il testo biblico manifesta i
suoi contenuti nascosti e si lascia penetrare nelle
sue più profonde intenzioni. Ciò che era occulto
viene alla luce, permettendoci così di entrare in
comunione col segreto disegno di Dio. Spesso queste
parafrasi sono ammirevoli per la loro profondità
e freschezza. Con i loro giochi di parole ci
inducono a glorificare la Parola del Signore, facendola
penetrare nel nostro cuore. Questi precetti che
oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore (Dt 6,6). «Queste
parole debbono restare sempre come le avete udite
oggi, sempre fresche, sempre nuove».
Il Targum, oltre a rendere intelligibile il testo
biblico, lo attualizza affinché serva all’edificazione
spirituale del popolo. Esso si rivolge infatti alla
comunità dei credenti. Fin dal tempo di Esdra,
scriba esperto nella Legge di Mosè (Esd 7,6), il popolo
di Israele è stato invitato a leggere la Scrittura,
per cercare in essa il Signore, Dio d’Israele (cfr. Esd
6,21), a studiare la Legge del Signore e a praticarla
(Esd 7,10). Avvicinarsi alla Torah ha senso solo se
si cerca di comprendere la Parola di Dio per viverla:
così si cerca il Signore.
La Scrittura è considerata come un’opera unitaria
e coerente, in modo che ogni testo è spiegabile con
un altro e ogni parola include molteplici significati.
La Bibbia non si può ridurre a semplice evocazione
del passato, ma conserva un senso e un valore reale
e vivo nel presente, oltre ad essere una costante prefigurazione
del futuro. Per questo la si interpreta
come se in essa non ci fosse né un prima né un
dopo. La Scrittura illumina il presente del popolo e,
grazie ad essa, i credenti possono conoscere in ogni
momento la volontà di Dio. Così il targumista traduce
e interpreta il testo sacro nella liturgia.
Il Targum infatti nasce e si sviluppa per la celebrazione
liturgica. Perciò la sua finalità è l’istruzione
e l’edificazione dei partecipanti. La libertà e la
creatività del Targum, come quella del Midrash,
non è mai arbitraria. In primo luogo, la libertà si
basa sulla convinzione dell’infinita ricchezza della
Parola ispirata, il cui significato è inesauribile:
«Ogni testo della Scrittura ha innumerevoli significati
». In secondo luogo, tra i moltissimi, possibili
significati della Parola, non si tratta di scegliere
quello che piace di più all’autore, ma quello che
corrisponde alla tradizione e serve all’edificazione
dell’assemblea. Per Israele è evidente che tutto ciò
che concerne la fede deve essere ricevuto: nessuna
interpretazione ha valore se non è integrata nell’alveo
della tradizione. Nella celebrazione liturgica,
che è il momento santo della convocazione del
popolo di Dio, niente deve turbare la semplicità
della preghiera.
Targum e Midrash non sono mai opera di uno
solo, bensì il risultato di una tradizione. Coscienti
dell’insondabile ricchezza della Scrittura e dei limiti
di chi ascolta, si crea una catena interpretativa,
qualcosa come “una conversazione ininterrotta”,
che non finisce mai. In sintonia con la Torah e
rispondendo ad essa, si ricrea l’esperienza della
Voce di Dio udita da Israele sul Sinai. “Allora” Dio
ha parlato, ma questo “allora” è sempre. Col metodo
midrashico possiamo udirla ancora oggi viva e
fresca. Scrutando la Scrittura, le poniamo domande
e troviamo sempre una risposta esistenziale. Il
Midrash ci aiuta a mettere il vino vecchio in vasi
nuovi e, così, a gioire e celebrare il tempo e la vita
in ogni situazione personale che Dio ci offre. Forse
la nostra è una generazione di nani, ma un nano
che sale sulle spalle di un gigante può vedere orizzonti
vastissimi. Così, sostenuti e portati dall’alveo
della tradizione, anche noi possiamo scoprire
nuovi aspetti del mistero di Dio e della sua volontà
su di noi.
Ascoltare la Torah, e in concreto il Decalogo, non
significa porsi davanti a un libro o a un codice per
esaminarlo freddamente, ma penetrare nella corrente
vitale che sgorga dalla Scrittura e che, attraverso
i secoli, arriva fino a noi. Una cosa è
l’atteggiamento dell’esegesi critica, che si pone
davanti al testo e lo esamina dal punto di vista filologico,
testuale, storico, archeologico, strutturale.
In tal modo si corre il rischio di porre il testo della
Scrittura, per così dire, all’accusativo, cioè di farne
un oggetto analizzato dal soggetto, ossia dall’esegeta:
il critico parla del testo sentendosi più intelligente
del testo studiato. Cosa ben diversa è
l’atteggiamento di chi si colloca al di sotto del testo
biblico, lasciando che il testo gli parli con la sua
inesauribile ricchezza. Questo è l’atteggiamento
dei rabbini, i cui commenti ho raccolto, e che non
sono altro che l’eco della voce potente e misteriosa
del Signore da essi ascoltata. È qualcosa come la
voce silenziosa e leggera (cfr. 1Re 19,12) udita dal profeta
Elia sull’Oreb, davanti alla quale il profeta si
coprì il volto, avendo la certezza di trovarsi di fronte
a Dio.
In questi commenti rabbinici del Decalogo raccolgo
una selezione di detti tanto dal Targum
quanto dal Midrash. Ho aggiunto dei titoli e delle
brevi spiegazioni al solo scopo di collegare i differenti
testi e di renderli più intelligibili4.
Sono testi in gran parte antichi. Nei primi sei
secoli della nostra èra, i più creativi della letteratura
ebraica extrabiblica, fiorì un particolare genere
letterario chiamato “letteratura rabbinica”. Si tratta
di testi definiti Torah orale per distinguerli dalla
Torah scritta. Questa Torah orale, ricevuta oralmente
come istruzione divina, è stata trasmessa da
maestro a discepolo nelle scuole o nella Sinagoga.
Solo a partire dal terzo secolo fu messa per iscritto
nelle collezioni di testi conosciuti come Talmud e
Midrash. In questi testi troviamo la Tradizione
viva di Israele; sono il frutto di un’esperienza di
fede e la loro finalità è la trasmissione fedele della
fede come esperienza di vita. Il loro linguaggio
narrativo, poetico, a volte anche ludico, pieno di
emozione, popolare, vivo e umoristico, rende partecipe
l’ascoltatore dell’esperienza di fede narrata.
In questo modo, la Scrittura, che è sempre la fonte
di detti o narrazioni, attraverso i Maestri si conserva
viva e sempre nuova. È la cassa da dove lo scri-
ba trae cose nuove e cose antiche. È la roccia da cui
il martello trae migliaia di scintille di luce.
Un antico racconto narra che un pagano promise
ad un rabbino che si sarebbe convertito al giudaismo
se gli avesse concesso di visitare, almeno in
sogno, il paradiso giudeo per sapere se gli conveniva.
Il rabbino accettò e gli promise di condurlo
quella stessa notte. Attraverso sentieri deserti e
pieni di fango e buche, in sogno, lo condusse fino
ad una piccola casa sperduta, illuminata da una
piccola lampada, dove si riusciva appena a scorgere
un vecchio macilento, intento alla lettura di un
indecifrabile documento. Il rabbino, con emozione
ed orgoglio, gli disse: «Ãˆ rabbi Aqiba, il più grande
dei nostri maestri, dopo Mosè. Egli è in paradiso».
Il pagano esclamò: «Mi sta prendendo in giro!
Questo paradiso è miserabile! E questo vecchio, che
ha studiato per tutta la sua vita, continua a farlo!».
«Ãˆ così, e questa è la sua ricompensa! Ora egli
comprende ciò che legge»5.
Che il nostro orecchio sia un imbuto che lascia
penetrare il vino vecchio e il vino nuovo della
Parola di Dio, versato lungo i secoli dai Saggi di
Israele, benedetta sia la loro memoria, che non
hanno perso nessuna delle sue parole.


Note.

1 bShabbat 88b.
2 Rashi a Cant 5,15.
3 Cfr. la presentazione del midrash in Detti dei saggi di Israele, Napoli
20103.
Il midrash, soprattutto l’haggadico, narra gli eventi salvifici, attualizzandoli;
interpreta la storia alla luce del presente e, in questo modo, trae da
tale storia le conseguenze morali per l’uomo di oggi.
4 Per aiutare il lettore nella numerazione del Decalogo, seguo quella del
libro Il Decalogo. Dieci parole di vita, Napoli 20012, la quale non coincide
con quella dei rabbini, che dividono in due il primo comandamento e
unificano il nono e il decimo della mia divisione, che è quella usuale nella
Chiesa cattolica a partire da sant’Agostino.
 5 Citato da G. HADDAD, L’enfant illégitime, Hachette 1981, p. 48


* * *

DAL "PROLOGO"

1. Dio cerca un popolo che accolga la Legge.

A tutti i popoli del mondo fu proposta la Torah, affinché non potessero dire, di fronte alla Shekinah: «Se ci fosse stata proposta, noi l'avremmo accettata», mentre fu proposta loro, come sta scritto: «Il Signore è venuto dal Sinai, è spuntato per loro da Seir, è apparso dal monte Paran» (Dt 33, 2). Si rivelò ai figli dell'empio Esaù e chiese loro: «Accettate la Torah?». Risposero: «Che cosa vi sta scritto?». Egli disse: «Non uccidere!». Gli risposero: «Ma è proprio questa l'eredità che ci ha lasciato nostro padre, come sta scritto: Vivrai della tua spada!» (Gn 27, 40). Si rivelò ai figli di Ammon e di Moab, e chiese loro: «Accettate la Torah?». Risposero: «Che cosa vi sta scritto?». Egli disse: «Non commettere adulterio!». Gli risposero: «Ma noi tutti siamo figli di un adulterio, come sta scritto: Le due figlie di Lot concepirono dal padre loro (Gn 19, 36). Come potremmo accettarla?». Si rivelò ai figli di Ismaele e chiese loro: «Accettate la Torah?». Risposero: «Che cosa vi sta scritto?». Egli disse: «Non rubare!». Gli risposero: «Ma è proprio questa la benedizione con cui fu benedetto nostro padre, come sta scritto: Egli sarà un uomo selvaggio, la cui mano è su tutto (Gn 16, 12). E inoltre si dice: Sono stato rubato dalla terra degli Ebrei (Gn 40, 15)». Quando giunse invece presso Israele, dalla sua destra veniva il fuoco della legge per loro (Dt 33, 2) e tutti risposero con una sola voce:«Tutto ciò che ha detto il Signore, noi lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24, 7). (Rabbi Eliezer, XLI, 1 - 3)


2. Gioia ad effetto ritardato.

Quando Dio diede la Torah a Israele "vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di shofar" (Es. 19, 16). In questo contesto Dio concesse a Israele il prezioso dono della Torah. Israele non la conosceva, ma tutti si sentivano obbligati ad accettarla per il timore di irritare il Signore che si mostrava tanto potente. Solo più tardi scoprirono le meraviglie della Torah e la cantarono con giubilo. E' ciò che esprime l'antico racconto ripreso in Irak da Humateli e raccolto negli archivi di Israele dell'Università di Haifa, che attualmente comprendono più di 1500 racconti popolari:

C'era un re che aveva una sola figlia, bella e virtuosa. Il re non voleva certo darla in sposa al primo pretendente, principe o delfino che si presentasse a chiederne la mano. Pensava infatti: questi giovani educati nei palazzi, tra onori e ricchezze, sono bambini viziati, cercano solo il loro piacere e non saranno capaci di governare il mio regno. Ciò che desidero per mia figlia è una persona degna di fiducia, fosse anche un contadino o un artigiano.
Tra i pretendenti di sua figlia, che si presentarono a chiedere la mano al re, alcuni erano davvero stupidi, altri scortesi e altri poco intelligenti. Il re decise allora di cercare egli stesso tra gli artigiani uno che fosse degno di sua figlia, lavoratore e previdente. Cominciò a girare per il suo regno in cerca di un uomo di aspetto gradevole. Si soffermava davanti ad ogni casa in costruzione e si informava, attraverso il proprietario e il capomastro, se qualcuno degli operai rispondesse ai suoi desideri, se potesse diventare suo genero e fosse degno di ereditare il suo regno.
Un giorno il re passò davanti ad una casa in costruzione e vide alcuni operai che trasportavano mattoni su un'impalcatura. Uno di essi attirò la sua attenzione. Cercò il proprietario dell'edificio e gli chiese informazioni a suo riguardo. Il proprietario gli disse:
E' un operaio che lavora per me senza ricevere salario. Mangia e beve alla mia mensa, dorme in casa mia, ma non riceve salario. Suo padre era un importante commerciante. Quando morì mi doveva centomila denari d'oro. Allora presi con me il ragazzo e gli insegnai il mestiere. Lavora dall'alba al tramonto; in questo modo paga il debito di suo padre.
Il re allora gli disse:
- Pago io il debito.
Il proprietario accettò e ricevette il denaro dal tesoro del re. Questi condusse il giovane artigiano nel palazzo reale. I servi lo spogliarono delle sue vesti sporche di calce e di polvere; gli tagliarono i capelli e la barba e lo vestirono con abiti ricamati che il re aveva fatto preparare per lui. Poi mangiò e bevve, sebbene si sentisse confuso da tutto ciò che gli stava accadendo. I servi del re lo condussero in una delle stanze del palazzo, precedentemente preparata per lui, e il giovane, stanchissimo, crollò sul letto e si addormentò.
Il giorno seguente il re ordinò che lo conducessero alla sua presenza e gli disse:
- Mi compiaccio con te e desidero darti mia figlia in sposa. Se accetti di sposarla così com'è, sarà tua. Se non accetti, ti ucciderò. Nella stanza accanto ci sono le mie guardie: se rifiuti la mia offerta, ti legheranno mani e piedi e ti taglieranno la testa.
Il giovane non aveva scelta. Temendo di perdere la vita, disse al re:
- Accetto.
Alle nozze il re invitò tutti i suoi ministri e i notabili del regno. La festa si sarebbe svolta tre giorni dopo. Venne celebrata con grande sfarzo. Il vino scorreva a fiumi. Tutti gli invitati erano allegri e si divertivano. Solo lo sposo era triste e preoccupato, poichè dentro di sè pensava: "Forse la mia sposa è cieca o zoppa, muta o malata. Altrimenti perchè mai il re mi avrebbe obbligato a sposarla? Ci sarà senza dubbio qualcosa che non va".
Dopo il banchetto di nozze, gli invitati tornarono alle loro case e gli sposi restarono soli. Il giovane si rivolse alla ragazza e le disse:
- Vieni, avvicinati.
La ragazza si avvicinò al marito, che le disse:
- Preparami qualcosa da mangiare. Ho fame, poichè non sono abituato alla cucina del palazzo reale.
Gli preparò della frutta e del latte. Poi egli disse:
- Scrivi per me una lettera alla mia anziana madre.
Ella si sedette e scrisse la lettera. Egli le chiese ancora:
- Raccontami una bella storia; le storie mi incantano.
La figlia del re fece tutto quello che il marito le chiese, sentendosi conquistata dal suo fascino e dalla sua bellezza.
Il giovane sposo trascorse la notte con lei e scoprì la perfezione del suo corpo. La ragazza era bella e intelligente. Il giovane si rallegrò profondamente che gli fosse toccata in sorte la bella figlia del re.
Un mese dopo,  il genero del re invitò tutti i ministri del regno ed offrì loro un grande banchetto. Era contento, allegro e felice. Ballò per tutta la festa, bevve vino e assaggiò tutte le squisite pietanze della cucina reale. Il re e i suoi ministri gli chiesero:
- Come mai eri tanto triste il giorno delle tue nozze e sei tanto felice adesso?
Il genero ed erede del re rispose:
- Il re mi aveva obbligato, sotto pena di morte, a sposare sua figlia. Allora io pensavo: "Forse la figlia del re è malata, forse è cieca o zoppa"; per questo ero triste e preoccupato. Ma ora, dopo aver vissuto con lei per un mese, so che possiede tutte le virtù: è buona e bella. Ecco perchè sono così contento: mi è stato concesso il privilegio di possedere una perla, la figlia del re, una sposa buona e fedele.

La stessa cosa è successa quando il Signore ci parlò ai piedi del monte Sinai:
- Se accettare la mia Torah, sarà vostra. Altrimenti sarete subito sterminati.
Allora accettammo la Torah nella tristezza, perchè non ne conscevamo i pregi nè i contenuti. Sentimmo solo i tuoni e vedemmo i lampi, ma non ci fu detto cosa ci fosse scritto nella Torah nè quali fossero le leggi del Santo, benedetto Egli sia. Ma ora conosciamo la Torah e festeggiamo per il dono che ci è stato fatto. Ecco perchè oggi è festa e si mangia e si beve con gioia e si balla con la Torah, benedicendola e studiandola.



* * *


X.
NON DESIDERARE

Imitazione di Dio
In una delle pagine più decisive e incisive del Talmud, nel trattato Sotah 14a, Rabbi Chama, un maestro del terzo secolo, si chiede: «Che cosa significa il testo (Dt 13,5): "Seguirete il Signore vostro Dio"? Può un uomo seguire Dio di cui sta scritto (Dt 4,24): "Poiché il Signore tuo Dio è un fuoco divoratore"?». E risponde:
«Seguire il Signore» può quindi significare soltanto imitare le sue qualità. Così come Egli veste gli ignudi -- poiché sta scritto (Gn 3,21): «Il Signore Iddio fece ad Adamo e alla sua donna tuniche di pelli e li vestì» -- vesti anche tu gli ignudi. Il Santo, benedetto sia, visitava gli ammalati, poiché sta scritto (Gn 18,1) dopo la circoncisione di Abramo: «E il Signore gli apparve alle Querce di Mambre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda». Così anche tu devi visitare gli ammalati. Il Santo, benedetto sia, consolava i sofferenti, poiché sta scritto (Gn 25,11): «E dopo la morte di Abramo, Dio benedisse Isacco suo figlio». Così consola anche tu i sofferenti. Il Santo, benedetto sia, ha seppellito i morti, poiché dopo la morte di Mosè si legge (Dt 34,6): «Ed Egli lo seppellì nella valle, nella terra di Moab». Così anche tu da' sepoltura ai morti. Rabbì Simlaj spiegò: «La Torah inizia con un atto d'amore e termina con un atto d'amore. All'inizio si legge che Dio vestì Adamo ed Eva (Gn 3,21). Alla fine si legge che Egli seppellì Mosè (Dt 34, 6)».

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(*): Per spiegare un pò come gli ebrei leggono la Scrittura riporto i due articoli che seguono.

Come gli ebrei leggono la Scrittura

http://www.bicudi.net/analisi_narrativa/debendetti.jpg

di Paolo de Benedetti
Il mio discorso sarà suddiviso in due parti: comincerò con un'esposizione su cosa l'Ebraismo intende per Bibbia, per poi soffermarmi sulla lettura e il commento di alcuni testi particolarmente significativi.
Partiamo dalla parola lettura. In italiano questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un'insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi invece leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Ora, quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima di tutto tener presente che in ebraico la Scrittura si chiama miqrà, che significa "lettura". Ma che tipo di lettura? Il termine miqrà deriva dalla radice qarà e dal verbo qarà, che significa "leggere, chiamare, gridare, nominare". Tutti, come si vede, fatti acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono due che contano e una che non conta: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l'interpretazione sì.
A questo proposito, vorrei proporre un testo molto importante. Si tratta dei primi otto versetti del cap. 8 di Neemia: "Come fu giunto il settimo mese e i figlioli di Israele si furono stabiliti nella loro città, tutto il popolo si radunò come un sol uomo nella piazza che è davanti alla porta delle Acque, e disse a Esdra, lo scriba, che portasse il libro della legge di Mosè che il Signore aveva data a Israele. E il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti alla radunanza, composta di uomini, di donne e di tutti quelli che erano capaci di intendere. E lesse il libro sulla piazza che è davanti alla porta delle Acque, dalla mattina presto fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di tutti quelli che erano in grado di intendere; e tutto il popolo teneva tese le orecchie a sentire il libro della legge. Esdra, lo scriba, stava sopra una tribuna di legno, che era stata fatta apposta, e accanto a lui stavano, a destra, Mattithia, Scema, Anania, Uria, Hilkia e Maaseia; a sinistra, Pedaia, Mishael, Malkia, Hashum, Hashbaddana, Zaccaria e Meshullam. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava in luogo più eminente; e, come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedì il Signore, l'Iddio grande, e tutto il popolo rispose: Amen, amen, alzando le mani; e si inchinarono e si prostrarono con la faccia a terra davanti al Signore. Jeshua, Bani, Scerebia, Jamin, Akkub, Shabbethai, Hodia, Maaseia, Kelita, Azaria, Jozabad, Hanan, Pelaia e gli altri leviti spiegavano la legge al popolo, e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano nel libro della legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo quel che s'andava leggendo".
Questa scena, avvenuta verso il 444 prima dell'era volgare o circa cinquant'anni prima (vi sono rilevanti problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già (era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più antiche sinagoghe erano le piazze). Ci sono già, infatti, i due elementi fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa solenne seduta non è l'altare, ma il libro, il séfer ("rotolo") che viene portato con la solennità che si usa quando si estrae il rotolo dall'Arca e lo si porta per la lettura. Questo rotolo contiene la legge di Dio. Gli studiosi pensano che Esdra, con molta probabilità, abbia letto l'attuale Pentateuco, o quasi, il quale, peraltro, era stato edito da Esdra stesso.
Come avviene questa lettura? C'è, prima di tutto, una cerimonia di "onore al libro". Ancora oggi, nelle solenni messe cattoliche e ortodosse, si ripete questo atto: il libro viene portato in processione, incensato, innalzato, mentre la gente sta in piedi in segno di rispetto. Segue una benedizione. Anche adesso, sia nel rito ebraico sia in quello cattolico, la lettura è preceduta da una benedizione.
Il libro viene letto a sezioni, con l'assistenza di alcune persone. Il brano che abbiamo letto descrive una collaborazione alla lettura: "Esdra leggeva"; poi si dice: "essi leggevano a sezioni e ne davano il senso per far capire al popolo quello che si andava leggendo". Cosa sarà questo ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s'è detto sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targùm, cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l'ebraico) e, al tempo stesso, ne davano un'interpretazione, una spiegazione.
Analizziamo questa scena visivamente (analizzarla all'interno della sinagoga di sabato al giorno d'oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l'assemblea entra in rapporto con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la lettura? Non è qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell'Ebraismo, al contrario, bisogna sempre usare il plurale e parlare di fedeli, di assemblea, perché il libro non può essere estratto dall'Arca e letto se non c'è il cosiddetto miniàm, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non stanno in rapporto diretto con il Libro. C'è piuttosto una situazione di tipo triangolare: tra l'assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata torà she-be-'al pèh, che significa "la torà che sta sulla bocca". Non solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che ci hanno preceduti.
L'assemblea di ascolto non è altro che l'attualizzazione della Pentecoste del Sinai, quando c'è stato il dono della Torà a Mosè. Si ricorderà che la gente non voleva neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che riceveva e trasmetteva. Se noi leggiamo il codice dell'Alleanza nei capp. 21-23 dell'Esodo, il codice rituale del cap. 34 e i vari codici contenuti nel Pentateuco, ci accorgiamo che è sempre Mosè il mediatore tra Dio e il popolo in ascolto. Dunque, nella situazione di lettura della Torà di qualunque secolo, anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l'assemblea e il Libro c'è la tradizione orale.
All'inizio del trattato rabbinico Pirqè Avòt ("Capitoli dei Padri"), la tradizione orale è così presentata: "Mosè ricevette la Torà dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe intorno alla Torà" (Avòt I,1). Uncommentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: "La Torà tutta intera, sia quella scritta sia quella orale". E il più antico rabbì Jonà: "Sia la Torà che è stata messa per iscritto sia la Torà che è sulla bocca, perché la Torà è già stata data insieme alle sue interpretazioni" (Detti rabbinici, a c. di A. Mello, Edizioni Qiqajon, Bose 1993, p. 50). Se si rilegge questa catena della ricezione che va da Mosè ad Esdra (e che poi continua fino al II sec. d.C.), si noterà che i "maestri della grande assemblea" dicevano tre cose che dentro la Torà non ci sono, ma che fanno parte della Torà orale.
E' interssante notare che i Farisei e Gesù stesso si basavano sulla Torà orale, mentre i Sadducei si attenevano alla Torà scritta. Nella disputa evangelica sulla resurrezione, per esempio, i Sadducei vengono confutati da Gesù sulla base della Torà orale. Essi, in fondo, avevano ragione, perché nella Torà scritta non si parla della resurrezione. Ma è come se la Torà orale dicesse: sembra che non si parli della resurrezione e invece c'è. Si ricorderà come risponde Gesù: "Non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è un Dio dei morti, ma dei vivi!" (Mt 22,31-32). E un maestro di Israele, ai Sadducei che gli fanno più o meno la stessa obiezione, risponde in modo simile: "Se Dio dice ad Abramo: Io darò a te la terra, è segno che Abramo non è morto, ma vivo": Mi viene in mente, a questo proposito, una bellissima frase di Gregorio Magno che dice: Scriptura crescit cum legenti, cioè "la Scrittura cresce con colui che la legge". Solo che qui il colui è il coloro delle generazioni!
Tutto ciò che costituisce la Torà orale è anch'esso rivelazione sinaitica, che Mosè non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Del resto, oggi noi pensiamo il rapporto tradizione-scrittura alla luce della moderna critica biblica, la quale sostiene che prima della Scrittura ci sono le tradizioni orali. Certo, non sostiene ciò nel senso teologico che vi ho esposto ora, ma in un senso storico-critico. Dal punto di vista ebraico, invece, la Torà scritta è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torà orale. E' quest'ultima la garanzia della Torà scritta, non viceversa. I maestri dopo Esdra si sono accorti che, se da un lato la Torà imponeva con grande severità di eseguire dei precetti, molto spesso essa non spiegava come si dovevano eseguire.
C'è un esempio molto chiaro di ciò in Es 31,15, dove si dice che di sabato non si deve fare alcun lavoro. Ma, dicono i maestri, quali sono i lavori che non si possono svolgere? E cosa si intende per lavoro? E allora i maestri fanno ricorso alla Torà orale, la quale dovrebbe specificare ciò a cui la Torà scritta accenna soltanto. Ma con che sistema io scopro la Torà orale dietro la Torà scritta? Perché, si badi, la Torà orale, pur essendo il veicolo della Torà scritta, in un certo senso deve stare dietro la Torà scritta. E' un meccanismo un po' complicato. I cattolici, forse, sono un po' agevolati perché la dottrina cattolica, e anche quella ortodossa, parlano di sacre scritture e di tradizione. Almeno in teoria, le tradizioni non dovrebbero aggiungere nulla a ciò che è stato rivelato agli apostoli e nella scrittura: esse non dovrebbero fare altro che metterlo in luce. Se dunque la Torà orale deve essere scoperta dentro, sotto, dietro la Torà scritta, dove trovo la spiegazione dei lavori che si possono fare di sabato? E' chiaro che, per evitare di cadere nell'arbitrio, sono necessarie alcune regole ermeneutiche. E si capisce come i maestri d'Israele abbiano affermato che le stesse regole ermeneutiche sono Torà, perché hanno l'autorità di insegnare come si deve lavorare sulla Torà stessa. Queste regole sono state codificate tre volte, tra l'inizio dell'era volgare e II sec.; esse sono: le sette regole di Hillel, le tredici regole di rabbì Ishmael e le trentadue regole di rabbì Eliezer. Le più usate sono quelle di rabbì Ishmael. Alcune di esse sarebbero inaccettabili per la critica moderna; altre invece enunciano principi ancora validi, per esempio: il testo si spiega con il contesto, oppure a minori ad maius, o ancora la regola della contiguità, in base alla quale, quando in due testi lontani compare la stessa espressione tecnica, essi hanno lo stesso contenuto (se ne veda l'elenco in Il dono della Torà, commento al Decalogo di Es 20 nella Mekiltà di R. Ishmael, a c. di A. Mello, Città Nuova, Roma 1982, pp. 19-22).
Nel cap. 31 dell'Esodo il divieto di lavorare di sabato è preceduto da queste parole: "Il Signore parlò a Mosè e gli disse: Vedi, ho chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L'ho riempito dello Spirito di Dio perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro. Ed ecco gli ho dato per compagno Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho ordinato: la tenda del convegno, l'arca della Testimonianza, il coperchio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori, il candelabro puro con i suoi accessori, l'altare dei profumi e l'altare degli olocausti con i suoi accessori, la conca con il suo piedistallo, le vesti ornamentali, le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio; l'olio dell'unzione e il profumo degli aromi per il santuario. Essi eseguiranno ogni cosa secondo quanto ti ho ordinato" (Es 31,1-11). Si dirà: che elenco arido! I maestri, invece, dicono: se questo elenco di lavori è seguito dalla proibizione di non fare alcun lavoro di sabato, noi dobbiamo intendere che che questo elenco ci esemplifica la categoria dei lavori vietati, cioè la melakà, il lavoro creativo, quello che, per esempio, ha compiuto Dio creando il mondo. E di sabato sono vietati proprio i lavori creativi. Non è soltanto uno star lì fermi a non fare nulla, ma si tratta di sospendere l'attività umana sul mondo per riconoscere, così, che il vero creatore è Dio.
Questo esempio ci mostra l'azione della Torà orale su quella scritta per farla parlare. E allora, quando i maestri di Israele hanno individuato le categorie di melakòt (plurale di melakà), non hanno detto: noi abbiamo trovato questo!, ma: sul Sinai è stato rivelato ciò! Tanto è vero che, se si prendono i libri rabbinici che contengono queste discussioni, si scoprirà che, quando un maestro dice una cosa, viene citato. Anzi, si cita addirittura la catena: "Disse il tale a nome del tale che l'aveva sentito dal tal'altro". Il plagio delle opinioni non esisteva e nessuno si impadroniva delle opinioni altrui. Ora, quando un'opinione viene riconosciuta come precetto, perde la sua paternità. E questo perché il maestro che l'ha detta non l'ha tirata fuori dalla propria testa, ma l'ha presa dalla rivelazione sinaitica.
Diversamente, però, dalla nostra maniera di concepire una raccolta di precetti, siano essi il Codice di Diritto Canonico o il Diritto Civile, la tradizione ebraica concepisce la Torà come un fiume che trasporta non solo ciò che è principale e normativo, ma anche ciò che è laterale e secondario. Basta osservare il fatto che, nelle raccolte degli insegnamenti, sono conservate rispettosamente e religiosamente anche le opinioni respinte. Il Talmud Babilonese, per esempio, (si veda in proposito la relazione di E. RICHETTI, infra) comincia con una domanda; e non si tratta, come ci aspetteremmo noi, di una domanda da vecchio catechismo cattolico, del tipo: Chi è Dio?. Ci si chiede infatti: Da che ora si possono dire le preghiere?. Si danno diversi pareri, poi dice: Ma i maestri insegnano che... Questa espressione vuole indicare che la maggioranza ha ricevuto dallo Spirito Santo la capacità di vedere che cosa era stato rivelato in proposito a Mosè sul Sinai. Perché allora si conservano anche queste opinioni? Perché non bisogna mai cessare di discutere e di interrogarsi sulla Torà. Anzi, è bene impigliarsi nella Torà perché, se pure ci si impiglia in una regola che è già stata definita, chissà quante regole si riescono a tirar fuori da lì!
A questo punto devo dire una cosa che fa un po' a pugni con la concezione corrente della lettura biblica nelle chiese e nelle abitudini della predicazione cristiana. Mentre da molti cristiani il dubbio è considerato un male da evitare o, almeno, da allontanare prima possibile, nell'Ebraismo esso è considerato una cosa molto buona e necessaria; in un certo senso, è l'elemento che mantiene viva la Torà. E' noto che, al tempo di Gesù, c'erano due grandi scuole rabbiniche, quella di Hillel e quella di Shammaj, che divergevano tra di loro su almeno trecento punti importanti. Qualcuno, allora, ha - per così dire- perso la bussola e ha chiesto al cielo cosa fare, e dal cielo si è sentito una voce che ha detto: "Le une e le altre sono parole del Dio vivente, ma la regola sarà secondo l'opinione della casa di Hillel" (Talmud Palestinese, Berakot I,4). Nella prassi si segue Hillel, ma nell'interpretazione entrambe le opinioni sono parole del Dio vivente. E se ci sarà una fine dei dubbi, sarà il Messia a portarla. C'è, per esempio, un'immagine del Paradiso (ad uso dei dottori, probabilmente) secondo la quale esso è un luogo in cui i dottori stanno seduti attorno ad un tavolo insieme a Dio a discutere sulla Torà. E forse è già meglio che stare seduti a cantare inni per l'eternità!
Non è un caso che i Sadducei, a differenza dei Farisei, siano scomparsi. In un certo senso, era scritto nel loro destino. Se, infatti, ci si attiene solo al testo scritto, come facevano loro, esso di generazione in generazione si allontana sempre più. Un esempio analogo ci viene offerto dalla vicenda dei Samaritani, i quali, staccatisi dai Giudei quando già esisteva il Pentateuco, hanno accettato solo il Pentateuco e il libro di Giosuè, rigettando invece la Torà orale. Ciò ha fatto sì che si siano progressivamente impoveriti, ridotti di numero, quasi devitalizzati, tanto che, alla fondazione dello stato di Israele, erano ridotti a trecento. Ora hanno ripreso a crescere di nuovo un poco, anche perché non si sposano più tra di loro. E questo sposarsi tra di loro è, se così posso dire, una conseguenza ermeneutica del loro rifiuto della mobilità della Torà orale, che ha impedito loro di mantenere la Torà contemporanea alle loro generazioni.
La fondazione della legittimità dell'interpretazione è inividuata nel passo di Deut. 30, 11-14 che dice: "Questa legge che oggi io ti do non è in cielo... non è al di là del mare... ma è molto vicina a te, sulla tua bocca e nel tuo cuore". Quindi, te l'ho data e ora cammina, tu e la Torà insieme. Emmanuel Lévinas ha illustrato questo concetto con un'immagine bellissima. Nell'Esodo ci sono istruzioni sul modo di fabbricare il santuario e così pure l'arca: essa deve avere quattro anelli d'oro in cui devono essere infilare quattro stanghe di acacia rivestite d'oro che, dice il testo, "non saranno mai tolte" (Es 25,10-16). Quando poi Salomone costruisce il tempio e colloca l'arca dentro il Santo dei Santi, le stanghe risultano più lunghe del luogo che doveva accoglierle, eppure non vengono tolte. Ebbene, di questo fatto Lévinas dà un'interpretazione, direi, midrashica: "Le stanghe non vengono tolte perché la Torà è sempre pronta al movimento, deve essere sempre in grado di camminare con il popolo". E questo sarebbe un significato delle stanghe. Un significato, perché l'ermeneutica rabbinica parte dal presupposto che ogni parola della Torà possiede settanta significati. Per affermare ciò ci si appella a vari testi biblici, ma in particolare al Salmo che dice: "Una cosa Dio ha detto, due ne ho udite" (Sal 62,12). Perché settanta significati? Perché nel mondo biblico si riteneva che i popoli della terra fossero settanta e, quindi, almeno potenzialmente, la Bibbia è detta a tutti i popoli.
Ora, se le parole della Scrittura hanno settanta significati, come ci si regola? Non bisogna trascurare il peshàt, cioè il senso letterale che tutti i libri, tranne il Cantico dei Cantici, possiedono. Non è possibile svuotare un testo trasformandolo interamente in simbolo. Possiamo forse trovare un po' buffo un esempio, che i rabbini invocano, a proposito dei due decaloghi. Essi sono quasi identici, ma, tra le varie differenze, a noi qui ne interessa una sola: a proposito del giorno del sabato uno dice: "Osserva il giorno del sabato", mentre l'altro dice: "Ricorda il giorno del sabato". Noi siamo smaliziati, abbiamo la critica biblica, ma gli antichi trovavano qui un problema rilevante: quando Dio ha parlato sul Sinai, ha detto "osserva" oppure "ricorda"? Perché allora non ha dato due volte il Decalogo? Il testo di un inno che si canta la sera del venerdì dice: "Osserva, ricorda: con un solo detto si è fatto sentire, si è fatto sentire il Dio uno". Dio è miracoloso in tutto ciò che dice, che fa, che è, e quindi è riuscito, con una sola emissione di voce, a dire "osserva" e "ricorda", che sono poi i due elementi fondamentali della fede ebraica. Questo è uno degli esempi a cui ci si rifà per spiegare il Salmo citato prima: "Una cosa Dio ha detto, due ne ho udite". Lèvinas ha detto una cosa molto bella, che ripeto sempre quando ne ho occasione: "I sensi della Scrittura sono tanti, ce n'è uno per ogni uomo. E se un uomo non nasce, un senso non si rivela; e questo sino alla fine del mondo".
Questa mi sembra l'idea più significativa del modo di intendere la lettura della Torà, che significa anche conoscere Dio. Per l'Ebraismo conoscere Dio è inteso in un senso solo (questo sì in un senso solo!), cioè sapere cosa Egli vuole e non sapere com'è fatto. L'unico contatto che noi abbiamo con Dio (ed è più che sufficiente) è udire con le orecchie la sua volontà e metterla in pratica. Es 24,7 dice una cosa mal tradottta dalla Bibbia cristiana. Mosè, dopo aver scritto il libro, lo legge alle orecchie del popolo, il quale risponde: "Quello che Dio ha parlato noi lo eseguiremo e lo ascolteremo". Cioè, ci precipiteremo alla prassi; "eseguiremo" e poi "ascolteremo", ci faremo sopra studio, conoscenza. Il contatto con Dio è fare la sua volontà, che poi è l'unico modo possibile per essere come Lui. Se ogni uomo ha un senso per Lui, ogni uomo è chiamato ad essere come Dio in un modo speciale. Quindi, le rifrazioni, le immagini di Dio sono, almeno nel desiderio di Dio, tanti quanti sono gli uomini.
Passiamo ora alla lettura e al commento di alcuni testi della tradizione rabbinica che ci permetteranno di comprendere le modalità di lettura del testo biblico.
Si è detto prima che la pluralità delle interpretazioni, se di fatto manifesta una delle caratteristiche fondamentali dell'intelligenza ebraica e una delle eredità più preziose del fariseismo e del rabbinismo classico, va vista in primo luogo come ricchezza inesauribile del parlare divino, in cui ogni parola può legittimamente essere intesa secondo le diverse potenzialità umane. Due sono i passi biblici che vengono citati a sostegno di questo modo di intendere i sensi della Scrittura: "Abbajè dice: Siccome la Scrittura dice "Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite; è questa la potenza di Dio" (Sal 62,12), se ne deve dedurre che un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici" (Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a). E: "E' stato insegnato nella scuola di rabbì Jishmael: Non è forse la mia parola come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia? (Ger 23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue" (Talmud Babilonese, Shabbat 88b).
Vediamo un primo esempio. A commento del passo di Qoelet 12,11 ("Le parole dei sapienti sono come pungoli, e come chiodi piantati quelle dei maestri delle assemblee: sono state date da un unicopastore"), i rabbini danno questa spiegazione: i pungoli e i chiodi sono due cose diverse, così come la tradizione orale è data da un solo pastore, ma possiede due aspetti, i chiodi e i pungoli. Qual'è la differenza tra i due? I chiodi hanno la funzione di tener fermo qualcosa, mentre i pungoli fanno camminare. E la Torà -dicono i rabbini- non è forse questo? Non è forse qualcosa che è insieme stabile e dinamico, che progredisce e fa progredire? C'è quindi, ben chiara, l'idea dell'innovazione.
A proposito di questo passo di Qoelet desidero proporre un testo rabbinico di commento: «Un giorno, rabbì Jochanam Berukà e rabbì Eleazar Asmek andarono a trovare rabbì Joshuà a Pekj. Questi domandò loro: " Che innovazione c'è stata oggi nella casa di studio? " .Gli risposero: "Noi siamo tuoi discepoli e beviamo solo la tua acqua". Disse loro: "Ciò nondimeno non si danno cose di studio senza che vi sia innovazione. Era il sabato di chi? Non era il sabato di rabbì Eleazar ben Azarià? (significa: non era lui a predicare quel giorno?) E a partire da quale testo si è fatta oggi l'omelia?". Essi risposero: "Rabbì Eleazar ben Azarià ha aperto e interpretato così ("aprire" significa citare un testo da cui parte l'omelia): Le parole dei sapienti sono come pungoli; come chiodi piantati le parole dei maestri delle assemblee: sono state date da un unico pastore. Perché le parole della Torà sono state paragonate ai pungoli? Per dire che, come il pungolo dirige la giovenca lungo il solco per dare vita al mondo, così le parole della Torà dirigono il cuore di quanti le studiano dalle vie della morte alle vie della vita. Ma forse che , come un chiodo non diminuisce né cresce, anche le parole della Torà non diminuiscono né crescono? La Scrittura dice: "Piantàti". Come una pianta cresce e si moltiplica, così anche le parole della Torà crescono e si moltiplicano. I maestri dell'assemblea sono discepoli dei sapienti che stanno in tante comunità per occuparsi dello studio della Torà ("discepolidei sapienti" è un'espressione che indica i sapienti). Gli uni dichiarano una cosa pura e gli altri impura, gli uni legano e gli altri sciolgono. Ma se uno dicesse: se questi legano e gli altri sciolgono, come posso io imparare la Torà? La Torà insegna: tutte queste cose sono state date da un unico pastore, un unico Dio le ha date, un unico capo le ha lette. Esse vengono dalla bocca del Signore di tutte le cose. Come sta scritto in Esodo: Io sono il Signore tuo Dio. Perciò, anche tu devi fare del tuo orecchio come un imbuto, devi acquistarti un cuore intelligente per ascoltare le parole di quelli che dichiarano puro e impuro, di quelli che legano e di quelli che sciolgono". All'udire questo, rabbì Joshuà commentò: "Non è orfana la generazione in cui si trova rabbì Eleazar ben Azarià!"».
Vi propongo adesso altre due storie. La prima è una parabola rabbinica detta Midrash di rabbì' Aqivà e dice così: «Quando Mosè salì nell'alto dei cieli trovò il Santo, benedetto sia, assiso e intento a legare piccole corone (si tratta di ornamenti calligrafici) alle lettere della Torà. Egli disse: "Signore del mondo, chi ti vieta di darmi le lettere senza corone?". Dio rispose: "Verrà un uomo, dopo tante generazioni, Aqivà ben Josef il suo nome, e su ognuno di questi segni accumulerà nuove interpretazioni". Disse Mosè: "Signore del mondo, fa' che lo veda!". Dio disse: "Torna indietro e va'!". Mosè andò e si sedette nell'ultima delle otto file della scuola di Aqivà. Ma non capiva nulla di ciò che si diceva, e la sua forza divenne la sua debolezza. E mentre Aqivà spiegava, uno dei suoi allievi gli disse: "Rabbì, da dove lo deduci?". Egli rispose: "Da un insegnamento che Mosè ricevette sul Sinai". Allora, Mosè si tranquillizzò. Tornò davanti al Santo, benedetto sia, e gli disse: "Signore del mondo, tu hai un uomo come quello e vuoi dare la Torà per mezzo mio?". E Dio gli rispose: "Taci, così voglio!"». C'è una coda drammatica a questa storia, che spesso non viene raccontata. Aqivà venne scorticato dai Romani perché si era rifiutato di sottostare alla proibizione di insegnare la Torà. Mosè dice a Dio: "Fammi vedere la sua ricompensa". Allora Dio gli fa vedere che sul mercato pagano un macellaio vendeva la carne di Aqivà. Allora Mosè chiede a Dio: "E' questa la sua ricompensa?". Al che Dio risponde: "Taci, così ho deciso!" (Menachot 29b).
Questa parabola fa vedere come la trasmissione sia intesa come un arricchimento, il quale tuttavia non crea nulla, perché si rifà sempre al momento della rivelazione sinaitica. Ma chiarisce anche la nozione di "siepe" (sejag), che consiste nel circondare il precetto divino di osservanze supplementari, per impedirne meglio la violazione. Per queste ragioni e per il fatto obiettivo -su cui i lettori non ebrei si soffermano poco- che spesso le disposizioni della Torà sono difficili o impossibili da applicare per la loro genericità o imcompletezza, la tradizione orale ha portato a un vero accrescimento del patrimonio sinaitico. Da qui l'importanza massima dello studio: uno studio non solamennte per sapere, ma per saper fare, sebbene, come s'è detto, questo saper fare sia ancora conoscenza, la conoscenza di Dio in quanto Volontà.
L'altra storia è quella di rabbì Eleazar. Discutendo con un gruppo di colleghi se una stufa fatta in un certo modo fosse pura o impura, si trovò a sostenere una cosa e gli altri il contrario. Allora disse: "Se ho ragione, questo carrubo si sposti di cento passi!". E il carrubo effettivamente si spostò. Ma gli altri risposero: "Un carrubo che si sposta non dimostra niente". Egli disse: "Se ho ragione, che questo fiume scorra al contrario!". Così avvenne, ma i maestri risposero la stessa cosa. Al che egli disse: "Se ho ragione, che questa scuola si sposti!". E così avvenne. Allora i maestri presero a rimproverare i muri dicendo: "Muri, muri, quando i maestri discutono, di che vi impicciate voi?". I muri, non sapendo cosa fare, rimasero inclinati. Allora Eleazar disse: "Se ho ragione, una voce celeste lo dica!". E così avvenne. I maestri guardarono il cielo e dissero il versetto del Deuteronomio ("Non è in cielo....", 30,12), ad indicare che la Torà non è più in cielo e che quindi toccava a loro gestirla. Così, scomunicano Eleazar. In seguito, incontrano il profeta Elia e gli chiesero cosa avesse detto Dio a proposito delle parole di Eleazar. Elia risponde: "Dio ha detto: I miei figli mi hanno vinto!, e ha riso di gioia". Queste parole significano: tanto è forte la convinzione che tutto è rivelazione sinaitica, tanto è forte la convinzione che è nelle nostre mani.
Del resto, anche Gesù ha messo in pratica queste convinzioni. Si tratta del famoso episodio dei discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35). "Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (v. 27). "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (v. 32). A questo proposito, è interssante menzionare la storia di rabbì Awuià. In occasione della festa per la sua circoncisione, suo padre aveva invitato anche due maestri, i quali, ad un certo punto, si appartarono per fare la harizà, cioè una collana di testi, e, mentre facevano questo, si accese un grande fuoco. Non è forse la stessa cosa che accade ai discepoli di Emmaus ("ci ardeva il cuore")?
Si è detto prima che è proibito indagare sulle ragioni dei precetti, dal momento che essi valgono perché Dio li ha mandati. A questo riguardo bisogna ricordare che nell'Ebraismo non è possibile parlare di natura, né in senso cosmologico (non c'è la natura, ma il creato) né in senso etico (non ci sono quelle che noi chiamiamo le "leggi di natura"). C'è solo il Creatore e la sua parola. Di conseguenza, i precetti non possono essere inseriti in un diritto naturale; essi hanno senso perché Dio li ha voluti così. Ma perché Dio li ha voluti così? Perché, se Dio da un lato ha indicato all'uomo la halakà, la via, dall'altro lo ha circondato di quelle che definirei azioni promemoria, che hanno lo scopo di tenerlo distinto dai pagani e di fargli ricordare Dio. In proposito, rabbi Jozakan ben Zakai (70-100 d.C.) esce con questa frase: "Né il morto contamina né l'acqua purifica, ma il Re dei re ha detto: Ho decretato i miei decreti, ho prescritto le mie prescrizioni, non vi è permesso di trasgredire il mio decreto!". Si dice anche che, se uno esegue con fede uno dei 613 precetti, è degno di ricevere lo Spirito Santo. Rabbì Ravuià dice: "I precetti non sono stati dati che allo scopo di purificare le creature; e forse che importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l'animale (ritualmente) lo colpisca al collo (com'è prescritto) o lo colpisca alla nuca (come è vietato)? Così i precetti non sono stati dati che allo scopo di purificare le creature" (Genesi Rabbà XLIV,1).
Affermazioni di questo genere sono numerose e ci fanno capire cos'è la Torà: è la parola di Dio che insegna ciò che bisogna fare e non fare. Ma a che scopo? Nel Levitico si dice: "Siate santi perché io sono santo". Questa frase non significa: siate buoni perché io sono buono, ma: siate separati da ciò che io non voglio. Si tratta di una separazione anche rituale e non solo etica. Se l'Ebraismo è un mondo in cui domina il pluralismo, le discussioni, il dubbio, tuttavia domina anche la distinzione: Dio odia qualsiasi mescolanza (ci sono tanti esempi nella Torà). I precetti, quindi, hanno lo scopo di sottolineare questa separazione. Non a caso, quando Dio crea il mondo (il testo è di fonte sacerdotale), separa gli elementi (si tratta della nozione più antica di santità). Dio è separato dal mondo, ma è anche presente in esso. Un midrash, in proposito, dice una frase molto bella: "L'idolo è vicino e lontano, Dio è lontano e vicino". E in altri testi si legge: "Ogni divisione che avviene nel nome dei cieli finisce per mantenersi e, se non avviene nel nome dei cieli, finisce per non mantenersi". E ancora: "Insegna alla tua lingua a dire: io non so!, perché tu non sia preso per un mentitore".
Sull'arbitrarietà dei precetti, un rabbino diceva: "Come fonderei queste considerazioni? Prima di tutto non si deve dire che è impossibile vestirsi con stoffe miste, è impossibile non mangiare carne di maiale, ecc.,ma si deve dire: Tuttto ciò è possibile; ma che fare, dal momento che Dio me lo proibisce?". Tutto ciò si fonda, come abbiamo visto, su Lev 20,26: "Sarete santi perché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei". Anche qui si scoraggia ogni tentativo di leggere la Torà come un insieme di principi puramente etici. Lo stesso Lev 19,18 ("amerai il prossimo tuo come te stesso") si fonda su Dio e non è un precetto di etica naturale (questo lo possono dire tutte le religioni!): si tratta di un comando, non di un'esortazione. Non a caso, secondo i Farisei, il destinatario della Torà non era il santo, ma il benonì, cioè l'uomo comune, colui che non è né santo né canaglia, vale a dire la maggior parte degli uomini.
Il precetto ha un'evidente funzione memoriale. L'esempio più chiaro e più importante è offerto dal testo di Num 15,38-40, nel quale si ordina di applicare delle frange (zizzìth) alle vesti: "Parla ai figli di Israele. Dirai loro che si facciano dei fiocchi all'estremità delle loro vesti e a quelle dei loro discendenti, e mettano ai fiocchi degli angoli un filo di porpora azzurra. E questo sarà per voi dei fiocchi: quando li guarderete, ricorderete tutti i precetti di Dio e li eseguirete, e non correrete dietro al vostro cuore e dietro ai vostri occhi, dietro ai quali vi siete prostituiti". I fiocchi, che pure di per sé non simboleggiano nulla e non si possono certo riferire ad alcun comportamento etico e neppure devoto, sono soltanto (e questo soltanto non indica il minimo, ma il massimo del valore dell'esistenza ebraica) un promemoria di Dio e delle sue opere. Sono un appello al ricordo e all'obbedienza, e quindi l'esecuzione di questo precetto è un atto di fede che merita il dono dello Spirito Santo. Rabbì Shimon bar Jocahj (II sec. d.C.), a proposito del brano di Numeri citato prima, riferiva il guardare o, meglio, il vedere, non ai fiocchi, ma a Dio stesso: l'esecuzione del precetto, si potrebbe dire, chiama Dio, e ciò non come ricompensa di un merito, che il precetto, peraltro, non produce, ma perché Dio ha voluto, nel suo insindacabile disegno, associarsi al precetto. Se ne può vedere un interessante parallelismo nell'episodio evangelico della donna affetta da emorragie, la quale, per guarire, tocca le frange del mantello di Gesù (Lc 8,43-48).
La Torà, quindi, è un continuo memoriale del Signore. Certi mistici dicono che essa non è altro che un lunghissimo nome di Dio. E ancora: la Torà sono parole nere scritte su un foglio bianco, ma il vero senso è nel bianco (cioè, la Torà orale).
NOTA BIBLIOGRAFICA:
Per i testi citati:
Detti rabbinici, a cura di A. MELLO, Ed. Qiqajon, Bose 1993.
Il dono della Torà, a cura di A. MELLO, Città Nuova, Roma 1982.
Il canto del mare, a cura di U. NERI, Città Nuova, Roma 1981.
Sulla concezione ebraica della Torà:
A.C. AVRIL-P. LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, Ed. Qiqajon, Bose 1989.
J.J. PETUCHOWSKI, Come i nostri maestri spiegavano la Scrittura, Morcelliana, Brescia 1984.
P. DE BENEDETTI, Torà e rivelazione nel Giudaismo rabbinico, in AA.VV., Libri sacri e rivelazione, Facoltà teologica interregionale, La Scuola, Brescia 1975.
E. LEVINAS, La Révelation dans la tradition juive, in AA.VV., La révelation, Bruxelles 1977.
E. FROMM, Voi sarete come dei, Ubaldini, Roma 1970.


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La lettura della Bibbia nella tradizione ebraica: il midrash

http://www.bicudi.net/analisi_narrativa/luzzatto.jpg

di Amos Luzzatto

1. Parto proponendo subito due midrashim,riservando a dopo il commento.Il primo è questo.
«Per ventisei generazioni la alef [prima lettera dell’alfabeto ebraico, n.d.r.] protestò al cospetto del trono divino e disse alla presenza di Dio: "Signore del mondo, io sono la prima delle lettere, eppure tu non hai creato il tuo mondo cominciando da me" [infatti, il primo verso della Genesi comincia con la lettera beth,che è la seconda dall’alfabeto, n.d.r.]. Rispose Dio: "Il mondo intero e tutto ciò che esso contiene è stato creato solo per merito della Torah, come è scritto [Proverbi 3,19: “Con la sapienza il Signore ha fondato la terra”], ma verrà il giorno in cui io verrò sul monte Sinai a elargire la Torah e allora la farò cominciare con te. Perché è scritto: Io [In ebraico “io” si dice 'anoki, che inizia appunto con la lettera alef, n.d.r.] sono il Signore Dio tuo!"».
Cerchiamo ora di capire cos'è essenziale in questo midrash.
Anzitutto, si presuppone un testo biblico scritto: se non ci fosse un testo biblico da commentare o cercare di comprendere, non ci sarebbe midrash. Ciò che non ha a che fare con il testo biblico scritto può benissimo essere leggenda, parabola o altro, ma non certo midrash.
In secondo luogo, per capire cosa significa entrare nel significato del midrash, vorrei che provassimo ad immedesimarci nella alef del nostro testo. Se fossimo stati nei panni della alef, noi ci saremmo accontentati della spiegazione ottenuta? Io sicuramente no, anzi avrei chiesto: Ma allora perché la Bibbia non inizia addirittura dai dieci comandamenti, come una casa inizia dalle fondamenta? Tenendo presente che il midrash impone una logica basata su domande e controdomande, possiamo domandarci tre cose: perché l’alef non ha fatto questa obiezione? E, se l’avesse fatta, quale risposta avrebbe ottenuto? E, infine, che senso ha, in una logica moderna, una simile disputa sull’ordine delle lettere, visto che l'ordine delle lettere si basa su di una convenzione umana tranquillamente sovvertibile (come comincia con la beth potrebbe benissimo cominciare con la alef)? O non è forse possibile che chi usava questo midrash considerasse l’ordine dell’alfabeto come una legge intoccabile della natura? Già questo vanifica una delle nostre domande. La terremo in serbo per dopo (non che io voglia sottrarmi: non mi sottrarrò, ma non vi dirò certo che la mia è l'unica risposta, bensì che a questa risposta arrivo io seguendo il ragionamento del midrash; se qualcuno arriva ad un'altra risposta, va benissimo).
2. Vediamo ora il secondo midrash, nel quale si commenta la storia del ritrovamento di Mosè infante, come narrata in Esodo 2,5-10. Il testo biblico dice: “E inviò la sua ancella che la prese”.
Già qui sorge un primo ostacolo, dovuto al fatto che l’ebraico si scrive con le sole consonanti, mentre le vocali vanno ricostruite sulla base del contesto. Ora, siccome, il termine “ancella” si scrive con le stesse lettere con cui si scrive “il suo avambraccio”, si potrebbe interpretare il testo sia con: “l’ancella della principessa prese il cesto di vimini” in cui è deposto Mosè, sia con: “la principessa protese il suo avambraccio” allo stesso scopo. Ci potremmo chiedere: è proprio così importante? Certo che è importante, perché un bambino che sarebbe diventato un personaggio così rilevante come Mosè, del quale la Bibbia dice che si presentava a Dio faccia a faccia, deve essere estratto dalle acque da una banalissima ancella oppure dalla principessa in persona? Che non sia affare di poco conto lo dimostra il fatto che questo dibattito è molto acceso nelle pagine del Talmud, dove addirittura si formano due scuole di pensiero, quella dell'avambraccio e quella dell'ancella. Faccio notare che questo dibattito si svolge attorno al IV secolo. Ora, il caso vuole che a questo secolo appartenga una famosa sinagoga sull'Eufrate, quella di Dura Europos, la quale ha scandalizzato tutti perché, contrariamente alla proibizione biblica, è ricchissima di affreschi con immagini bibliche, tanto che qualcuno ha pensato di giustificare questa anomalia sostenendo un intento didattico. Questa potrebbe essere una spiegazione, se non fosse che, quando si arriva all'illustrazione di questo episodio, l'immagine che si vede è quella della principessa in acqua, nuda, la quale allunga il braccio e prende il cesto di vimini. Ciò significa che le immagini della sinagoga di Dura Europos non sono didattiche, bensì esegetiche, nel senso che prendono chiaramente posizione per la scuola "ancillare" rispetto di quella "avambracciale".
Proseguiamo ora con il testo per vedere se si può capire qualcosa di più. “E l’aprì e lo vide il bambino”. Di fronte all'evidente imprecisione grammaticale del testo i commentatori del midrash fanno notare che la principessa aveva visto la presenza divina vicino al bambino. Come si spiega questa interpretazione? La parola ebraica qui tradotta con “lo” ('et) può introdurre sia l’accusativo (“vide il bambino”) sia un complemento di compagnia (“lo vide con il bambino”). Dunque la principessa vide la presenza divina con il bambino. Ecco allora che, alla luce di questa difficoltà grammaticale, possiamo capire, con un procedimento a ritroso, anche il brano precedente: la principessa non mandò una semplice ancella, ma andò di persona presso colui che recava con sé la presenza divina.
3. Da questi due esempi si capisce come il testo biblico sia fondamentale. Sennonché, come si è visto, il testo biblico (in ebraico: miqrà, che significa anche “lettura”) presenta parecchie difficoltà, le quali possono, in parte, essere risolte con la lettura a voce alta praticata dagli antichi. Se infatti, di fronte a parole che, scritte, possono indicare cose diverse (per esempio, il gruppo s-f-r può significare sia “libro” sia “barbiere”), il testo viene letto a voce alta, quindi completandolo con vocali, è possibile interpretarlo e consegnarlo a chi ascolta. La lettura ad alta voce è quindi già un'interpretazione.
Un esempio celeberrimo è il passo di Isaia 40,3 (“voce che chiama nel deserto”) che ha generato differenze interpretative fra ebrei e cristiani, differenze dovute, stavolta, a una diversa punteggiatura. Come si deve leggere questo passo? Una possibilità potrebbe essere: “Una voce chiama: nel deserto preparate la via del Signore”; un'altra possibilità: “Una voce chiama nel deserto: preparate la via del Signore”. E' ovvio che mettere dei segni di interpunzione in un luogo o in un altro è già un'interpretazione. Credo che una delle tecniche per una lettura il più possibile precisa sia costituita dai cosiddetti parallelismi della poesia biblica, che permettono di capire come dividere il verso.
Ma ci sono altre tecniche interpretative. Una è la traduzione. Si tratta di una pratica difficilissima perché l’ebraico biblico contiene omonimie e polisemie diverse da quelle delle lingue occidentali; di conseguenza, il traduttore deve fare una scelta che, per forza di cose, già interpreta il testo: è inevitabile. Moltissime sono le traduzioni della Bibbia: quella dei Settanta, quella siriaca e quelle aramaiche; nella tradizione ebraica si fa più spesso riferimento a quelle aramaiche, alcune delle quali (per esempio quella di Onkelos) sono molto corrette, mentre altre rielaborano il testo con arricchimenti.
A questo punto ci dobbiamo chiedere: a cosa serve interpretare ed elaborare il testo? Nella tradizione ebraica due sono le operazioni legate alla lettura. La prima è capire un messaggio dal quale trarre affermazioni di principio oppure norme di comportamento.
Un esempio ci viene dal Talmud e riguarda le norme sabbatiche. Il Talmud dice che le norme sabbatiche sembrano una montagna appesa a un capello, laddove la montagna è l'insieme delle norme, mentre il capello è l'insieme della Torah. L'affermazione significa che c’è pochissima miqrà, cioè pochissima lettura, e moltissime norme: quelli che hanno emesso queste norme ritengono di aver trovato delle precise allusioni nel testo biblico. Questo è uno degli scopi di questa elaborazione.
Ma la questione è più complicata, perché a volte il problema è quello di trovare nel testo biblico una conferma a certe opinioni o posizioni formate a priori e indipendentemente dal testo stesso.
Un esempio ci è fornito dal lungo dibattito intercorso tra la scuola di Hillel e quella di Shammai (siamo nel periodo a cavallo tra il I sec. a.e.v. e il I sec. e.v.), più aperta e riformatrice la prima, decisamente rigorista la seconda. Le due scuole discussero per due anni su un argomento fondamentale: meritava l’uomo di essere creato? Abbastanza prevedibilmente, la risposta della scuola di Hillel era affermativa, mentre era negativa quella di Shammai. Il compromesso a cui giunsero, sulla base naturalmente dell’esame delle scritture, fu che, effettivamente, forse l’umanità non meritava di essere creata, ma ormai, visto che la creazione era avvenuta, almeno ci si facesse un esame di coscienza. Le due posizioni chiaramente non sono tratte dal testo biblico, sono tesi filosofiche formulate a priori, ma dal testo biblico cercano conferma.
A questo punto però è inevitabile porsi una domanda: se il midrash contribuisce in questo modo ad una o più visioni del mondo, queste esistono davvero oppure sono solo frammenti di visioni che noi cerchiamo, un po’ artificiosamente, di cucire insieme? Se infatti si trattasse di testi occidentali, noi troveremmo delle monografie, dei trattati, un dialogo platonico, un trattato aristotelico. Nei testi biblici invece esistono solo allusioni e spunti dai quali bisogna trarre qualche cosa. E qui torniamo al nostro primo midrash.
La Bibbia comincia con la parola bereshit (lettera beth), che si traduce “nel principio”. La traduzione è sicuramente corretta, se non fosse che la lettera beth in ebraico non esprime soltanto un'indicazione di luogo (“nel principio”), ma anche un significato strumentale (per esempio: “io scrivo con [be-] la penna”. E allora mi viene il dubbio che reshit, oltre che “principio”, voglia dire qualche altra cosa e che il primo versetto della Bibbia possa essere letto così: “con l'ausilio del reshit Dio creò il cielo e la terra”. Come possiamo capirlo?
Qui ci viene in soccorso la tecnica tipica del midrash: per capire in che modo intendere ciò che può avere più significati (per esempio il nostro reshit), bisogna andare in cerca, nel testo biblico, di altre circostanze in cui compaia la medesima espressione con allusione a qualcos'altro. E state sicuri che si trova. C'è infatti un passo in cui si dice, con riferimento alla sapienza: “Il Signore mi ha acquisito come reshit”. Da qui si sviluppa un ulteriore midrash, che dice: “La Torah, che è la sapienza, e che è chiamata reshit ("primizia"), preesisteva al mondo”. Ne consegue allora che quel primo verso andrebbe letto: “Per mezzo della Torah (reshit) Dio creò il mondo”. E guarda caso c'è un midrash che dice: “Dio, come un famoso architetto, guardava la Torah e creava il mondo”. Si tratta insomma di un progetto che preesiste al mondo. Ciò è confermato dal fatto che il verbo 'amar (“Dio disse”) può significare anche “progettare”. L'esempio lo troviamo nella Bibbia stessa: quando infatti nella cosiddetta Cantica del mare (Esodo 15) si parla del nemico egiziano che voleva inseguire gli ebrei, in genere si traduce: “Il nemico ha detto: Inseguirò, raggiungerò, dividerò il bottino” (Esodo 15,9). Ma che significa: Il nemico ha detto? A chi l'ha detto? A se stesso? Sarebbe meglio tradurre: “Il nemico ha progettato…”.
Cosa ne possiamo concludere? Che se sposiamo una tesi esposta con metodologia midrashica, dovremo poi svilupparla coerentemente, mentre se ne sposiamo un'altra, allora la svilupperemo in altro modo. Non si può sposare una tesi e poi svilupparla seguendo un'altra metodologia. Non esiste la verità, esiste la mia interpretazione e le vostre. Io sceglierò quella che mi permetterà un’unica lettura per la maggior parte dei versi e non quella che richieda interpretazioni diverse, perché ciò potrebbe significare che la mia comprensione non è corretta.
Tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che possono esistere delle tesi e dei punti di vista generali che cercano una loro conferma nel testo biblico, si corre il rischio di entrare in un pericoloso circolo vizioso. Farò un esempio: la canonizzazione della Bibbia è stata compiuta dai maestri sulla base di determinati criteri a priori, tra i quali quelli che prevedevano la canonizzazione del Cantico dei Cantici; sennonché, dopo la canonizzazione del testo, il Cantico dei Cantici viene usato per trarre conclusioni che sono implicite nei criteri che sono serviti per canonizzarlo. Evidentemente, se è stato canonizzato, è proprio perché a priori esisteva un punto di vista generale nel quale questa operazione rientrava perfettamente. Quindi non si può poi percorrere a ritroso la strada e dal Cantico dei Cantici trarre delle conseguenze su una visione del mondo, dato che questa era già definita, anzi, proprio grazie a questa si è scelto di canonizzarlo. Come si vede, questo circolo vizioso è spesso inevitabile. Il problema indubbiamente esiste. L’unica risposta che possiamo dare è che la lettura e l'interpretazione abbiano una robusta coerenza, dopodiché, entro questa coerenza, sta a noi sposare l’una o l’altra interpretazione, accettare o rifiutare l’interpretazione dei maestri talmudici e proporne altre.
4. Soffermiamoci ora brevemente sulla tecnica del mashal, termine che potremmo rendere con “metafora”, “parabola”, “allegoria”. Il mashal è una delle forme più importanti del midrash per la lettura del testo biblico. Si tratta di un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni e protagonisti di immediata comprensione per il lettore. Un ottimo esempio è rappresentato dal pastore e dalla pastorella del Cantico dei Cantici, intesi come allegoria del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro devono però essere analoghi a quelli a cui si vuole alludere, secondo una logica, per così dire, di allegorizzante (il mashal) e allegorizzato (nimshal: si tratta della forma passiva del mashal).
5. Un'ultima considerazione. A partire da un certo periodo nella storia della letteratura post-biblica ebraica compaiono delle coppie in discussione fra loro (si è già menzionata la coppia Hillel e Shammai, ma ce ne sono almeno altre cinque o sei) su posizioni polarizzate agli antipodi. Si tratta di un caso o di un espediente letterario per aiutarci a capire le posizione contrapposte? Personalmente ritengo che la verità stia nel mezzo, cioè che si utilizzi una base storica, con personaggi realmente esistiti, per riferire però le loro posizioni portate all’esasperazione. Ciò perché il dibattito fra maestri è ritenuto indispensabile per la comprensione del testo ed è ciò che dà origine alla dottrina orale (la cosiddetta Torah she be 'al peh). Ma perché la dottrina orale (midrah, Mishna) è oggi reperibile soltanto per iscritto, addirittura in edizioni critiche? Per il fatto che la distinzione tra oralità e scrittura non dipende tanto dal supporto fisico della seconda rispetto alla prima, al punto che posso definire dottrina orale, ad esempio, lo stesso Talmud. La vera distinzione è che l’oralità serve per capire la scritturalità e non viceversa; l’oralità è un dibattito, la scritturalità non lo è. Abbiamo, da una parte, ciò che è in divenire, dall’altra ciò che è valido, stabile, definito, e, quando tutto ciò viene messo in discussione, si fa oralità. La scrittura, proprio per il suo carattere di immutabilità e stabilità, se presa da sola potrebbe essere idolatrata. La storia ebraica è ricca di esempi in materia. Ne cito tre particolarmente emblematici. Il primo è lo scontro tra sacerdoti e profeti a proposito del vero culto da presentare a Dio. Il secondo, più tardi, è lo scontro tra Sadducei e Farisei circa l'interpretazione e l'applicazione della cosiddetta “legge del taglione”: gli uni la ritenevano applicabile alla lettera in termini di ritorsione, gli altri la leggevano in termini di risarcimento. La stessa diatriba tra lettura letterale e lettura interpretata si svilupperà verso il 700 dell'era volgare tra i Karaiti e i Rabbaniti. Da una parte una lettura letterale, dall’altra una lettura interpretata; insomma una lettura rigida, che non lascia spazio alla necessità umana, di fronte ad una lettura che invece salvaguarda il principio e lo lascia sviluppare. Solo in questo secondo caso la lettura può acquistare un significato più puntuale e diventare parte della vita spirituale e intellettuale di ognuno.
Credo, insomma, che la sola lettura portata a dogma assoluto apra le porte al fondamentalismo e che l’oralità, invece, con la sua partecipazione attiva, ne sia l’antidoto più efficace. La lettura del midrash, quindi,non è semplicemente leggere un testo, non è impararlo a memoria, ma è un invito a procedere con uno scopo e con una metodologia ben precisi nella lettura dei testi: questa è la sintesi, difficilissima, ma affascinante.
Lo illustra molto bene una tipica discussione talmudica. Due persone stanno camminando nel deserto, ma hanno acqua solo per uno. Cosa devono fare? Risponde un maestro: “bevano entrambi e nessuno veda la morte del fratello”. Risponde un altro: “beva uno e si risparmi almeno una vita, perché, se bevono entrambi, perdiamo due vite”. Come si vede, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Come si risolve il problema? Io ribalterei la domanda: tu come risolveresti il problema? Con questo voglio dire che il Talmud non dà risposte, non è una guida turistica, ma pone problemi con cui misurarsi responsabilmente. La letteratura midrashica, quindi, ci chiama al compito di scegliere, anche nell’interpretazione, tra più possibilità.
Un compito faticoso, certo ma anche molto affascinante.