sabato 16 aprile 2016

Amoris lætitia tra Fellay e Melloni: letture ed errori



di Giovanni Marcotullio   per La Croce quotidiano
«A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale e affrettata». Così Papa Francesco nell’introduzione all’Amoris lætitia (AL 7). E prosegue: «Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta. È probabile, ad esempio, che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto, che gli operatori pastorali abbiano particolare interesse per il capitolo sesto, e che tutti si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo» (ibid.)
Ciò significa che l’Esortazione sarebbe inevitabilmente stata – e difatti tale risulta – una cartina di tornasole della geopolitica ecclesiale: visto che il Papa ha invitato alla riflessione calma, vorrei oggi raccogliere due reazioni al testo pontificio, entrambe prodotte nella prima settimana dalla pubblicazione della Amoris lætitia, analoghe per autorevolezza e per rappresentatività di un’importante polarizzazione ecclesiale. Da una parte quella di Alberto Melloni, dall’altra quella di Bernard Fellay.
Il primo, ordinario di Storia del Cristianesimo a Modena-Reggio Emilia (e contestualmente corifeo attuale della c.d. “Scuola di Bologna” sull’interpretazione dei testi del Concilio Vaticano II), ha scritto su Repubblica all’indomani della pubblicazione dell’Esortazione. È il testo di un uomo che conosce bene la storia della Chiesa e quella dei dogmi, ma nondimeno colpiscono l’occhio certe sue (peraltro non sorprendenti) interpretazioni, spesso nutrite di omissioni o di chiose sottintese.
Ad esempio, è evidente che l’Amoris lætitia parta «da una lettura biblica profonda», e che dunque il suo cuore non ne sia il chiacchieratissimo capitolo ottavo; nondimeno Melloni vola subito ai «temi su cui la chiesa era attesa al varco: la comunione ai divorziati risposati, la dignità delle persone omosessuali, la visione della sessualità». Una scelta che ha forse l’unico pregio di mostrare chiaramente i proprî presupposti. Francesco conia l’espressione “le coppie cosiddette irregolari”, e Melloni annota che «quel “cosiddette” vale tutta l’esortazione»: come a dire che l’essenza dell’Esortazione sarebbe lo sdoganamento etico di ogni condizione sentimentale, vale a dire che “love is love”. Chiunque vede da sé – e con buona chiarezza, leggendo il documento – che non serve “una lettura biblica profonda”, né un documento tanto lungo e particolareggiato, per declinare uno slogan sessantottino, e che appunto “fate l’amore non fate la guerra” non può in alcun modo considerarsi il «ripensare una parola: “amore”» che avrebbe permesso di «spostare l’asse attorno al quale ruotava da cinque secoli la storia del matrimonio». Un simile asse sarebbe stato spostato, secondo Melloni: solo il dettaglio dei cinque secoli ricorda al lettore che a scrivere non è il membro fuori corso di un collettivo studentesco ma un affermato docente universitario, il quale se parla di “cinque secoli” ha evidentemente in mente il decreto tridentino sul matrimonio – comunque una rivoluzione più modesta di quella che anticipava il cardinal Walter Kasper, riportandoci necessariamente al primo concilio di Nicea col suo riferimento a uno sconvolgimento quale la Chiesa non avrebbe conosciuto da “millesettecento anni”.
Sulla «cruciale nota 336» Melloni dice più di quanto la nota contenga, ma qui gli viene facile farlo, considerando che la nota papale è caratterizzata da una voluta indeterminatezza: ci torneremo dopo. Il salto carpiato in cui il professore si produce rispetto alla “questione gay” è degno di un’attenzione particolare: sicuramente parla più volte di omosessualità (in assoluto e in percentuale) Melloni nel suo articolo che il Papa nel documento – ma vediamo. «Sulle persone omosessuali – scrive il professore – “Amoris laetitia” non ripete l’errore compiuto nel primo sinodo dei vescovi: quando si fecero aperture rivelatesi immature e che oggi il papa recupera con qualche cautela». Quale errore? Perché errore? E il papa “recupera un errore”? Trattandosi di parole della relatio del 13 ottobre 2014 vale forse la pena riportarle tutte: «[50] Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?
[51] La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale: si presenta quindi come un’importante sfida educativa. La Chiesa peraltro afferma che le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna. Non è nemmeno accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull’atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia del gender.
[52] Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli».
I lettori si ricorderanno certamente, ora, delle scintille volate in conferenza stampa tra il Relatore generale Péter Erdö e il segretario aggiunto Bruno Forte (che fu dal primo rivelato essere l’autore unico di questi paragrafi, inseriti in qualche modo contro il volere del relatore generale e al di là della stessa assise sinodale); per chi volesse saperne di più, un dettagliato reportage di quelle fasi “opache” del lavoro sinodale si trova in Edward Pentin, The Rigging of a Vatican Synod. Ebbene, di questi tre controversi paragrafi, scritti da mons. Forte e che oggi Melloni qualifica di “errore” (salvo poi tentare la giravolta dei “tempi non maturi”), cosa “recupera” Papa Francesco? A leggere il testo di Amoris lætitia si vede che non si parla mai delle persone omosessuali se non in quanto membri di una famiglia (ovvero quella in cui esse, come tutti, sono nati e cresciuti). Non esiste alcun cenno alla “questione omosessuale” (la quale dunque non «ci interpella in una seria riflessione»), sono scomparsi i cenni al “mutuo sostegno” e al “sacrificio” e neppure si fa menzione dei “bambini che vivono con coppie dello stesso sesso”. “Qualche cautela”, dice Melloni. Alla faccia. Ciò che Francesco riprende è il testo dei vescovi successivo alla relatio contenente il colpo di mano di mons. Forte, ovvero quello che nega che esista «fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». E ciò che resta dell’ex numero 51 viene perfino inasprito, come ognuno può vedere: «[…] è inaccettabile “che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il ‘matrimonio’ fra persone dello stesso sesso”». In realtà, sembrano molto più di alcune, le cautele che Papa Francesco ha effettivamente preso, ma forse non vanno nella direzione sottintesa da Melloni…
Il quale prosegue qualificando a sua volta di “ingiusta” la qualificazione dell’aggettivo “ingiusta” riferito alla “discriminazione nei confronti delle persone omosessuali” come è descritta nel Catechismo: vale a dire che, per il professore, ogni discriminazione nei confronti di un’anomalia naturale sarebbe, ipso facto e qua talis, ingiusta. “Logica” buona per le pagine di Repubblica, e che difatti Melloni si guarda bene dell’introdurre nei suoi (peraltro apprezzabili) lavori accademici. Mentre però sulla comunione alle coppie irregolari il Bolognese ha buon gioco di scrivere ciò che vuole, perché l’indeterminazione, in effetti, è scientemente contenuta nel testo, quando parla di contraccezione deve inventarselo di sana pianta, il silenzio del testo (perché non c’è): «[…] pur elogiando i metodi naturali di Paolo VI, condanna la contraccezione di Stato, ma non quella dei singoli: e apre a parti inattese, come l’elogio della gioia erotica, che non appare più come un male, neutralizzato dal suo esito procreativo, ma un dono di Dio come tale, letto senza astrazioni irrealistiche e senza spiritualismi». Ora, mi spiacerebbe stroncare l’entusiasmo del professor Melloni, ma chiunque sfogli i paragrafi di cui parla in ultimo si rende conto che sono zeppi di rimandi al magistero del XX secolo (dalle memorabili catechesi sull’amore di Giovanni Paolo II indietro fino alla Casti connubii di Pio XI) e che lo stesso tema era già stato trattato nella Deus caritas est di Benedetto XVI, non a caso ripetutamente citata… Ma quanto alla contraccezione Melloni fa crescere sul presunto silenzio circa la contraccezione personale attiva l’ipotesi di un permesso latente: «In questo senso l’Enciclica Humanae vitae (cfr 10-14) e l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (cfr 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita […]. La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è ‘il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità’ (Gaudium et spes, 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cfr Rm 2,15), 172 e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente”». Ed è tutta una citazione dalla relatio finalis del 2015 (quella che soppianta la prima, libertaria).
Il professore però si rende conto di star forzando la mano, difatti cambia gioco: non si tratta de «l’ultimo rigore di un derby fra rigoristi e possibilisti finito in parità ai tempi supplementari, e tirato dal papa a porta vuota», perché l’asse del discorso (il famoso asse cinquecentenario di cui sopra) si è spostato superando il superamento del «matrimonio di “puro consenso” (in cui era possibile perfino qualche matrimonio gay) e aveva resistito fino a ieri». Cioè, se capisco ciò che leggo: il decreto tridentino (immagino che Melloni si riferisca al Tametsi) avrebbe superato un ordinamento giuridico di “puro consenso” (in cui «qualche matrimonio gay era possibile» – questa è proprio nuova); la Amoris lætitia annullerebbe il decreto tridentino e ci riporterebbe al presunto #loveislove di prima. Peccato che si tratti di una pagina di giornale: sicuramente nei suoi corsi Melloni la spiega meglio, questa storia dei “matrimonî” gay prima del Concilio di Trento (“possibili”, ma “qualche”)… D’altronde tutto ciò sarebbe dimostrato dal «recente e debolissimo [sic!] dibattito italiano sulle unioni civili, incagliatosi sui figli, senza percepire quei valori che “Amoris Laetitia” riconosce in unioni che vuole equiparate al matrimonio, ma non vuole ridurre ad atto privato». Qui la sintassi stessa crea problemi: quali sono le unioni che vuole equiparate al matrimonio? Chi vuole equipararle, senza ridurle ad atto privato? Di chiaro c’è solo l’intenzione di leggere tra le righe il contrario di ciò che nelle righe sta scritto senza possibilità di equivoco. Perché? Questa è una domanda interessante.
Melloni torna più comprensibile (e condivisibile) quando esce dalla fattispecie e afferma che Francesco avrebbe fatto «un passo in avanti nella sua riforma del magistero e del papato. Il magistero, secondo Francesco, deve rinunciare ad essere onnivoro […]; deve liberarsi dall’idea che l’astrazione sia un bene in sé […]; deve dare l’esempio di essere “umile e realista” […]. Il papato […] esce più forte non per motivi politici o geopolitici, ma per la bellezza evangelica di alcuni passaggi sui bambini disabili, per la descrizione così vera della pazienza e delle crisi coniugali, per la fermezza con cui chiede quel rispetto per l’altro che la chiesa non aveva mai insegnato agli ex coniugi […]». Tutto vero, salvo che su quest’ultimo punto: di rispetto la Chiesa ne ha sempre chiesto così tanto da non aver mai incoraggiato gli abbandoni, neanche in nome del #loveislove.
Ha comunque ragione, Melloni, nel rilevare che «riplasmando il genere della esortazione Francesco restaura un altro pezzo di sinodalità come principio del cattolicesimo latino»: rinunciabili sono i tentativi di contrapposizione tra Ratzinger e Francesco (anche mediante il ricordo di Peter Hünermann), come pure l’ultimo obolo versato dal Bolognese alla causa del “matrimonio” gay, in chiusura. Il polso dello studioso di storia, però, e anche dell’uomo di fede, si sente chiaro e nitido in una grande verità (che infelicemente Melloni aveva mescolato alla propaganda omosessualista): il «progresso nella fede passerà dal tempo, dai vescovi e dalle chiese». Questa è probabilmente la verità più vera di tutto il suo articolo, che ci servirà anche nel confronto con il superiore generale della Fraternità S. Pio X.
Domenica scorsa, infatti, mons. Fellay ha tenuto a Puy-en-Vélay, dove aveva accompagnato un pellegrinaggio, una predica nel corso della messa. Nel calendario tridentino era possibile festeggiare in quella data la solennità dell’Annunciazione, e così stavano facendo. Dopo un passaggio sul senso dell’incarnazione e del contestuale auto-annichilimento di Dio, e facendo cenno al ruolo di “custode del Redentore” assegnato dalla Provvidenza a san Giuseppe, egli ha lungamente adattato alla condizione attuale dei lefebvriani il “miscens gaudia fletibus” (“mescolando le gioie alle lacrime”) dell’inno a San Giuseppe. In questo contesto ha detto, fra l’altro, che l’Esortazione «porta il titolo “La gioia dell’amore”… e ci fa piangere». «Dopo aver costruito un bell’edificio, una bella imbarcazione – ha detto il presule con suggestiva analogia – il Pontefice regnante ha aperto una falla nello scafo, precisamente sulla chiglia della nave. E allora capite cosa succede: si ha un bel dire che il buco è stato fatto con tutte le precauzioni possibili, si ha un bel dire che il buco è piccolo piccolo: la barca va a fondo».
Queste parole – chiaramente riferite alla questione della comunione ai «divorziati sedicenti risposati» sono state riportate soltanto da un paio di organi di informazione italiani, ma anche quelli si limitavano al singolo passaggio, laddove poco dopo se ne apre un altro molto più interessante, perché racconta di due incontri che mons. Fellay ha fatto recentemente a Roma: uno col papa e uno col segretario della commissione Ecclesia Dei, l’organo istituito da Benedetto XVI per accompagnare e guidare il rientro dei lefebvriani nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
«Voi sapete – ha detto Fellay ai fedeli convenuti – che molto recentemente abbiamo incontrato Papa Francesco. Ebbene, ci ha detto che Benedetto XVI alla fine della sua vita, del suo regno, del suo pontificato, avrebbe fissato una data; e se la Fraternità [San Pio X, n.d.r.] non avesse accettato la proposizione romana al termine di quella data, egli aveva deciso che la Fraternità sarebbe stata scomunicata». Una notizia pressoché inedita, ovvero non rispondente che ad alcuni rumori di Palazzo, trattandosi di un futuribile e non di un fatto. «E Papa Francesco – ha proseguito il Vescovo – ci ha detto che è stato probabilmente lo Spirito Santo a ispirare Papa Benedetto XVI, e che gli ha fatto dire qualche giorno prima della fine delle sue dimissioni di abbandonare questa idea. E dunque Papa Benedetto XVI avrebbe detto: “Lascio fare al mio successore”. E a Papa Francesco hanno messo materialmente davanti, sulla sua scrivania, la nostra scomunica, dicendogli: “Non mancano che la data e la firma”. E Papa Francesco ha detto: “No, non li scomunico, non li condanno”. E Papa Francesco mi ha detto: “Non vi condannerò”. Ha pure detto: “Voi siete cattolici: andiamo avanti in un cammino verso la piena comunione”. Mi ha detto: “Voi siete cattolici”. Ha sì continuato con “in cammino verso la piena comunione”, ma nondimeno ha detto “siete cattolici”! E ha pure detto: “Sa, ho mica pochi problemi con voi! Mi fanno storie con voi, perché sono buono con voi. Ma io ho risposto: sentite, io abbraccio e bacio il Patriarca Kirill, faccio del bene agli anglicani, tratto bene i protestanti, non vedo perché non debba trattare bene anche questi cattolici”. È così che egli ha spiegato, e ha aggiunto: “Se io ho dei problemi, voi pure ne avete; non bisogna spingere, non bisogna creare altre divisioni, lasciamo tempo al tempo”. E ha detto che naturalmente la facoltà di confessare la conserveremo anche dopo [dopo la fine dell’anno santo, n.d.r.], dare l’estrema unzione, assolvere dal peccato di aborto. E io gli ho risposto: “E allora perché non anche gli altri sacramenti?”. Oh, era molto aperto: “Vediamo come si sviluppano le cose…”. Evidentemente ci danno speranza: ecco, un giorno ci danno speranza, ci fanno gioire… e il giorno dopo, ecco un’esortazione terrificante, che fa tanto male alla Chiesa».
Ne viene fuori uno spaccato di Vaticano in era Bergoglio “al naturale”: viene fuori la titubanza di Benedetto XVI, che da sempre si era speso per ricucire lo strappo con i figli di mons. Lefebvre ma riteneva di non dover e non poter fare sconti sull’accettazione del Vaticano II, dalle Costituzioni dogmatiche fino alle dichiarazioni e agli altri documenti minori. La remissione della scomunica in cui il vescovo francese e i vescovi da lui ordinati erano incorsi doveva essere un segno di distensione e avvicinamento, nelle intenzioni di Papa Ratzinger: al suo passo in avanti dovevano seguire i passi degli altri, ovvero l’accettazione dei documenti del Concilio (pur con tutte le differenze legate all’autorità dei singoli testi). I lefebvriani, però, non sembrano avere la minima intenzione di capitolare su cose come l’ecumenismo, il giudizio sulle religioni non cristiane e sulla stessa libertà religiosa: scopriamo da questo passaggio che la situazione creatasi era un cruccio per Benedetto XVI, il quale temeva forse di aver contribuito a creare uno stallo contraddittorio. Francesco non insiste, accoglie, abbraccia e chiede di essere “in cammino”. Si vede chiaramente che Francesco applica ai lefebvriani la medesima misura di “misericordia” riservata ai divorziati risposati (come pure agli amici gay, ai trans invitati a Santa Marta e via dicendo): se questo può risultare insopportabilmente umiliante per Fellay (il quale “mescola le gioie alle lacrime”), è pur vero che i tratti psicologici di questa umiliazione somigliano molto a quelli del fratello maggiore della parabola dei due figli.
Ma se Benedetto XVI dice “voi dovete tornare cattolici”, Francesco dice “voi siete cattolici” (e aggiunge “in cammino verso la piena unità”, naturalmente). Parallelamente, se in Curia ci sono monsignori che mettono zelantemente la scomunica dei lefebvriani sul tavolo del Papa, nella stessa Curia ci sono altri monsignori che chiosano il “voi siete cattolici” di Papa Francesco a mons. Fellay fornendo un inatteso corollario. È questo il caso di mons. Guido Pozzo, incontrato dal vescovo lefebvriano poco dopo l’incontro con Papa Francesco: «Il giorno dopo abbiamo visto monsignor Pozzo, il responsabile della Commissione Ecclesia Dei, di quest’istanza romana che si occupa di noi, e monsignor Pozzo ci ha detto: “Noi pensiamo (“noi”, cioè la congregazione della Fede, non solo lui) che non dobbiamo domandarvi se non ciò che si domanda e che è necessario ad ogni cattolico, e niente di più”». Formula che, sostituendo “cristiano” a “cattolico”, è la medesima in uso nel dialogo ecumenico, specialmente con gli ortodossi riguardo alla questione del primato pontificio: a quelli si chiede quindi di riconoscere il ministero dell’unità che per tutto il primo millennio tutte le Chiese hanno riconosciuto al Vescovo di Roma, e di collaborare con lui a definire meglio quali modalità di esercizio di quel ministero sono più adatte ai nostri tempi; a questi invece cosa si chiede?
Dice qualcosa in merito il seguito della predica di Fellay: «Pozzo ha sviluppato questo pensiero dicendo: “Ebbene, il concilio Vaticano II non è dottrinale, e quindi questo non possiamo domandarvelo”. È stato anche più chiaro: “Voi avete il diritto di difendere la vostra opinione sulla libertà religiosa, sull’ecumenismo, sulla relazione con le altre religioni – Nostra Ætate –”. È stato così sorprendente che gli ho detto: “Non è impossibile che le domandi di venire a dire questa cosa da noi”». E si capisce bene la sorpresa del prelato francese: se le parole del Papa avevano il suono dell’accoglienza di un padre pronto a riprendere in casa il figlio protestatario, quelle di mons. Pozzo suonano come una totale resa delle armi. Verrebbe da chiedersi: se la scomunica è stata rimessa e non sarà nuovamente comminata, se il Summorum Pontificum garantisce a ogni comunità la possibilità di celebrare nella forma straordinaria del rito romano e se neanche si può esigere da ogni cattolico che accolga i documenti del Vaticano II, perché esiste ancora una commissione Ecclesia Dei?
Frena quindi i facili entusiasmi, Fellay, e rilancia la riflessione sul piano storico ed ecclesiologico: «Non penso che sia opportuno assumere atteggiamenti di trionfo, cari fedeli. Penso che di fatto questo cambiamento sia un cambiamento profondo, estremamente importante; accade a causa della situazione drammatica della Chiesa. Si può dire che sia un po’ una conseguenza del caos che si sta stabilendo nella Chiesa; c’è una tale confusione, ci sono tanti e tali attacchi contro la fede, contro la morale in tutti i sensi che alla fine, se così si può dire, da parte della Congregazione della Fede ci si è detti: “Non abbiamo il diritto di maltrattare questa gente, che non fa che dire e insegnare quello che la Chiesa ha sempre insegnato… non abbiamo il diritto di considerare ciò che fanno come un peccato gravissimo”, mentre attorno a loro ce ne sono tanti e tanti – prelati e cardinali… uno avrebbe quasi voglia di dire anche il Papa – che dicono non soltanto delle sciocchezze… ma delle eresie, che aprono la strada al peccato».
Fellay offre subito la prova della correttezza della sua analisi: una qualche confusione dev’esserci per forza, se un vescovo commissariato, dopo aver conferito con i vertici della commissione, legge pubblicamente le loro aperture – oggettivamente “disinvolte” – come sintomo di debolezza e spaesamento. Si può persino insinuare la tesi più grave e temeraria che l’ecclesiologia latina conosca – l’eresia del Romano Pontefice – senza dover temere ripercussioni di sorta.
E la sua lettura si conclude con l’esortazione alla Fraternità: «Ci sono comunque alcuni, nella Chiesa, che stanno reagendo, riflettendo, che dicono “così non va”. E così in mezzo a questo turbamento, in mezzo a queste lacrime arriva il balbettio [sic!]: “No, non vi possiamo obbligare ad accettare il Concilio”. Forse non ce lo diranno così chiaramente, ma comunque ce l’hanno detto! Certo, prendiamo questa dichiarazione con molta prudenza, domandiamo al buon Dio di illuminarci, di farci vedere che cosa vuol dire tutto questo, se è veramente la verità, se domani non ci daranno di nuovo un’altra indicazione. E nondimeno, miei carissimi fratelli, tutto questo ci mostra qualcosa: cioè che la fedeltà a tutto ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, questo paga. Bisogna semplicemente conservare questa fedeltà, ella s’impone a questi moderni, ella si impone come la realtà: noi siamo cattolici e vogliamo restare tali».
Una lettura speculare a quella di Melloni, ugualmente suggestiva e valida per evidenziare l’ampiezza del campo del dibattito nella Chiesa Cattolica (di Francesco e non solo): due letture uguali e contrarie, quindi, che mostrano la forza e la debolezza dell’elasticità ecclesiale cattolica in questo momento.
Un fatto altamente emblematico, in tal senso, è la dichiarazione del cardinal Raymond Burke, per la quale l’Esortazione Amoris lætitia non sarebbe un documento magisteriale, bensì l’espressione pubblica del personale punto di vista del Papa: «La natura personale – spiega Burke – cioè non magisteriale del documento emerge anche dal fatto che le citazioni riportate provengono principalmente dal documento finale della sessione 2015 del Sinodo dei Vescovi, nonché dai discorsi e dalle omelie di Papa Francesco stesso. Non si ha un impegno costante di collegare il testo in generale o tali citazioni al Magistero, ai Padri della Chiesa e agli altri autori provati». Dispiace di dover dissentire da un personaggio che tante volte si è distinto per acribia e imparzialità di giudizio, ma questo secondo argomento non consta assolutamente: già a prima lettura si è invece colpiti dalla tensione del Papa a suffragare, nel documento, i proprî contenuti con dovizia di puntelli magisteriali e tradizionali (tomisti in buona parte!).
Se invece, come Burke adduce a primo argomento di sostegno alla sua tesi, il punto è che Papa Francesco stesso indicherebbe al n. 3 della Amoris lætitia l’intenzione di non impegnare la propria autorità magisteriale, questa leva mi pare anche più debole dell’altra: nell’introduzione, infatti (e in particolare al n. 3), Francesco afferma la sua convinzione che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». Il che, evidentemente, non equivale a disimpegnarsi o a minimizzare la portata dell’Esortazione, ma fa piuttosto parte di quella ristrutturazione del magistero in sé che – a mio avviso sensatamente – ritrovava Melloni.
La questione è, per così dire, procedurale, non può essere banalizzata: il magistero si riceve, quando viene promulgato, per criterî formali, ossia con obbedienza proporzionata all’autorità che lo emana e al tipo di documento di cui consta. Immediatamente, poi, subentra l’assenso sostanziale, che varia in forza dei contenuti: mille e mille volte, nella storia della Chiesa, atti magisteriali con tutti i crismi sono caduti nel dimenticatoio e altri, magari dal pedigree meno blasonato, sono assurti a dottrina tradizionale. I giochi, in realtà, non si fanno quando un documento nasce, ma quando (e se) viene ricevuto e a sua volta “canonizzato”: la Veterum sapientia di Giovanni XXIII è un ricordo da eruditi perché mai nessuno l’ha ripresa (ma neppure l’avevano criticata!); la Humanæ vitæ di Paolo VI è ormai una pietra miliare della morale sessuale cattolica, benché la sua gestazione e la sua prima accoglienza siano state tutt’altro che pacifiche e lineari.
La reazione di Burke ha dato modo a Tornielli di chiosare, correttamente: «[…] Dire che un’esortazione apostolica firmata dal Papa al termine di due Sinodi ai quali hanno preso parte vescovi provenienti da tutto il mondo rappresenti null’altro che l’opinione personale del Pontefice, una semplice raccolta di suoi pensieri, è un’affermazione destinata a far discutere». La motivazione è anche più intelligente della nota: «Se infatti finisce per essere magistero solo quello “infallibile”, cioè definito ex cathedra, se quello che viene considerato magistero ordinario in realtà non è più magistero (e chiunque può decidere se lo sia o no), bisogna allora concludere che neanche l’enciclica “Humanae vitae” è magistero, e che non lo è neppure la “Familiaris consortio” di san Giovanni Paolo II. Tutti testi da leggere con un certo qual rispetto, sicuramente, ma nulla più: tutti punti di vista che i Papi hanno presentato, senza volerli “imporre” a nessuno». E sono osservazioni cui difficilmente si può replicare con altrettanta stringente sensatezza. Verrebbe peraltro a crearsi un ulteriore, incresciosissimo, problema: «Sarebbe interessante poi rispondere anche alla domanda su chi ha titolo per “interpretare” correttamente i documenti che secondo il cardinale Burke sarebbero “non magisteriali”».
La risposta a questa domanda in realtà c’è ed è semplice: è quella che – da storico del cristianesimo – Melloni ha enunciato: il tempo, i vescovi, le Chiese. Questi sono i catalizzatori concreti della ricezione di un documento magisteriale: la via della delegittimazione formale di un testo, invece, mi pare una via inutile quando non dannosa, comunque sempre esposta al rischio di un pericoloso rinculo.
Paradossalmente – ma paradossi simili mostrano più l’ironia della storia e del suo Signore che la bizzarria degli uomini – Burke si viene a trovare nei confronti di questo documento in una posizione molto simile a quella che ha Melloni nei confronti dei testi del Vaticano II: proponendo infatti di questi un’ermeneutica “della discontinuità e della rottura”, è cosa frequente che debba tralasciare questo o quel testo (o viceversa considerarvene sottinteso uno di fatto assente) in favore del mitologico “spirito del Concilio”. La propensione del Bolognese per uno spiritualismo magisteriale si rivela già da semplici tic linguistici come il frequente uso dell’espressione “il Regno”, preferito a “il Vangelo” (e non parliamo di “la Tradizione”): quando Burke prende una posizione del genere, invece, minimizza la portata del documento con pretese ragioni “materiali”. Si tratta in realtà di frizioni fisiologiche in ogni momento importante della storia della Chiesa: sempre, però, ha vinto non tanto chi ha delegittimato i testi, quanto chi ne ha promosso un’ermeneutica vincente nella ricezione ecclesiale.
E l’ermeneutica vincente mi pare avere due costanti: da un lato è quella che va incontro alle situazioni concrete degli uomini (come ripete costantemente Papa Francesco, e come pure ho potuto apprendere dagli studî di autori come Manlio Simonetti); dall’altro è quella che meglio sa farsi interprete del disagio profondo che alberga nel cuore degli stessi. Ecco perché una proposta lassa non può mai risultare veramente e durevolmente vincente, esattamente come non lo può una rigorista.
Me lo hanno ricordato le parole che Costanza Miriano ha scritto qualche giorno fa sul suo blog: «Ecco perché c’è qualcosa che non mi convince nell’ansia che percepisco, tra diversi uomini di fede, di comunicare la buona notizia, il Vangelo, raccontandone solo la bellezza, tacendo della drammaticità della lotta, omettendo tutto ciò che possa anche lontanamente ricordare la croce, il dolore, la bruttezza, la fatica. Non ho gli strumenti necessari a dare un nome a questa cosa: non so se si tratti di una corrente teologica, di una scelta pastorale, oppure di una strategia solo comunicativa (a chi è lontano tu cerchi prima di parlare della bellezza, poi casomai della fatica che tocca fare per vestirsene stabilmente). Non posso neppure dire che si tratti di un errore, perché se guardo ai sacerdoti che compiono queste scelte penso sempre che hanno una sapienza e una conoscenza di molto superiori alla mia, che ho solo, come dicevo, il mio sensus fidei. Sono certa che chi sceglie di mettersi di fronte al mondo usando uno stile che definirei eufemistico, lo faccia perché vuole stare in una posizione amica, vuole conquistare non per piacere ma per entrare nei cuori e, da dentro, condurli a Cristo.
Mi chiedo solo questo: funziona? Serve dire della bellezza a persone che non la sperimentano? E soprattutto, se c’è del bene in tutto, nel mondo, nei nostri cuori, in tutte le nostre vicende, a cosa serve il battesimo? Io posso dire che se qualcuno venisse a dirmi solo quanto è bella la vita e quanto è facile salvarsi io penserei che allora forse sono sbagliata io, perché questa bellezza non mi balza agli occhi con tanta evidenza, e devo scavare nel fango come Bernadette alla ricerca dell’acqua […]. Posso dire che a tante delle donne che incontro, che mi raccontano fatica e dolore e dubbio e scoramento e difficoltà e tradimenti grandi e piccoli, io cerco di dire non che amare è bello e facile, ma che è l’acqua che si trova scavando, se si vuole amare veramente, ma veramente, tutti quelli che ci sono dati».
Io penso che le “aperture” dell’Esortazione, nel complesso contesto del documento integrale, nonché del pontificato bergogliano, vogliano suonare come l’arringa dell’Enrico V di Shakespeare prima della battaglia di Azincourt: si offre una borsa a chi non se la sente di scendere in campo e poi si offrono tante e tali ragioni per combattere che tutti si battono come leoni e (con la grazia di Dio) travolgono gli avversarî. Certo, qualche aspirante disertore può pensare di salvare la pelle e guadagnare una borsa al contempo, ma il momento della verità viene in ogni vita, immancabilmente – nessuna scelta “al ribasso” paga, mai, per il semplice motivo che non è intimamente appagante. E questo nessuno può cambiarlo con qualsivoglia dichiarazione.
Ho molto apprezzato, invece, la fiduciosa serenità con cui il cardinal Lorenzo Baldisseri ha risposto recentemente alle domande di Giuseppe Rusconi, ad esempio sulla discussa espressione “cosiddette irregolari”: «Ciò [l’espressione “coppie irregolari”, n.d.r.] è stato detto nel codice di diritto canonico, che si è costituito per la prima volta nel 1917. E prima che succedeva? Nei secoli c’è stato un evolversi della definizione terminologica. Che è cambiata. L’idea prevalente era quella di catalogare, sempre quell’idea di etichettare… Ma papa Francesco continua a farci presente che noi siamo in cammino… Noi non possiamo dire che ci sono famiglie che sono a posto, regolari e altre che non sono a posto, irregolari. È una catalogazione che è stata affermata, ma non è di diritto divino. È un’espressione canonica che si è imposta in un dato momento. Ma il diritto canonico in quanto tale segue le esigenze del tempo».
Il Papa lascia ai pastori la libertà e la responsabilità di accompagnare la formazione delle coscienze, Baldisseri auspica che i pastori sappiano onorare tale libertà. È senz’altro lecito domandarsi se certe letture dell’Esortazione in chiave “tana libera tutti” siano appropriate, quand’anche venissero da autorevoli membri delle Conferenze episcopali. D’altro canto sarebbe auspicabile che certi altri prelati, isolati nella stoica resistenza al modernismo dilagante come mons. Fellay, non avessero la pretesa (storicamente infondata, oltre che ingenua) di essere gli ultimi custodi della pura tradizione ecclesiale: il passaggio della predica di domenica scorsa in cui Fellay diceva che “andò allo stesso modo con la faccenda della comunione nelle mani!” (e chi scrive non fa mai la comunione nelle mani) è molto rivelativo di una strana insensibilità ai gradi della Tradizione. Sembrerebbe che per certo clero le chiroteche episcopali e la cauda cardinalizia afferiscano alla “Tradizione” allo stesso modo della genealogia apostolica, del dogma della transustanziazione e del primato universale nella Chiesa.
Rischia di diventare un “al lupo al lupo”, questa fissa di chiamare “tradizione di sempre” delle mere usanze con appena cinque o sette secoli di vita, col pericolo concreto di sciupare le tante e preziose realtà che si difenderebbero meglio con altra disposizione. E del resto va pur sempre detto che restano altrettanto problematiche (se non ancora di più) certe istanze istituzionali “ufficiali” che, forse non senza qualche ragione, Fellay e altri trovano risibili e lacrimevoli insieme.