giovedì 28 aprile 2016

Nella fedeltà al Kerygma.



 L’evoluzione della dottrina spiegata da «Civiltà Cattolica»


 di Andrea Tornielli (Vatican Insider)

L’obiettivo dell’articolo è implicito ed è quello di entrare nel dibattito che ha affiancato il lavoro dei Sinodi sulla famiglia continuando ora dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica «Amoris laetitia»: è possibile e in che termini uno sviluppo della dottrina?  

Sul prossimo numero di «Civiltà Cattolica» l’argomento è proposto in un articolo di padre Thomas P. Rausch, intitolato «Missione pastorale della Chiesa». L’autore parte dalla domanda che si pose nel V secolo san Vincenzo di Lerino: «Un progresso della religione ci può essere nella Chiesa di Cristo?». Quesito oggi traducibile così: «Come si custodisce e trasmette nel tempo il prezioso deposito della fede? In che senso si può parlare di “evoluzione” della dottrina»? Il santo rispondeva affermativamente, proponendo l’esempio delle membra del corpo umano, che sono certamente diverse dal bambino all’adulto e poi nella persona anziana, pur rimanendo sempre le stesse. E dunque si può rispondere di sì, secondo Vincenzo da Lerino, «a condizione però che si tratti veramente di un progresso nella fede e non di un cambiamento. È caratteristico del progresso che ogni realtà si sviluppi intrinsecamente, mentre il cambiamento implica il passaggio di una data cosa a qualcos’altro di diverso». 

Nell’intervista con padre Antonio Spadaro apparsa su «La Civiltà Cattolica» nel 2013, Papa Francesco aveva affermato di meditare spesso su questo brano e lo aveva commentato così: «San Vincenzo di Lerino fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata». 

Padre Rausch cita in proposito la costituzione conciliare «Dei Verbum», nella quale si afferma: «Questa Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano nel loro cuore (cfr Lc 2,19.51), sia con l’intelligenza interiore delle cose spirituali che sperimentano, sia per la predicazione di coloro che con la successione nell’episcopato hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. In altri termini, nel corso dei secoli la Chiesa tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio». 

Questa affermazione, spiega l’autore dell’articolo «illustra il dinamismo accrescitivo della dottrina della Chiesa nell’intelligenza della Tradizione, spiegando come il processo storico di comprensione della verità sia il risultato dell’azione dei diversi soggetti della compagine ecclesiale, giacché la dottrina si costituisce in un processo storico di intelligenza creativa del popolo di Dio nella tradizione/trasmissione. È importante qui notare l’importanza data dal Concilio all’esperienza spirituale dei fedeli. Emerge chiaramente che la dottrina, nel suo dinamismo, è intimamente connessa con la storia vissuta dalla Chiesa: nell’annuncio e nella custodia della fede così come nell’approfondimento spirituale e nell’elaborazione teologica». 

La Rivelazione, continua padre Rausch, «si dà nella storia: da qui il dinamismo dottrinale nella Chiesa». Viene ricordata la dichiarazione «Mysterium Ecclesiae»della Congregazione per la Dottrina della Fede (1973), che «ha posto l’accento sul “condizionamento storico che incide sull’espressione della Rivelazione”, ovunque si trovi, cioè nella Scrittura, nel Credo, nel dogma e quindi nell’insegnamento del magistero». Ciò significa che è da considerare «opportuna una riformulazione dell’enunciazione del deposito della fede, ossia della verità della dottrina, chiarendone il significato e dandogli nuova veste espressiva affinché sia efficace sotto il profilo pastorale».  

È la linea indicata nel discorso di apertura del Concilio ecumenico Vaticano II da san Giovanni XXIII, quando ricordava: «Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale». L’approfondimento e la riesposizione della dottrina devono dunque tener conto del «nesso vitale tra la dottrina e l’annuncio (kerygma) al cuore del Vangelo», osserva l’autore dell’articolo.  

Un punto importante nel discorso sull’evoluzione della dottrina è il rapporto tra dottrina e dogmi. «Chi respinge un dogma si pone al di fuori della comunità di fede - ricorda padre Rausch - Ma i dogmi possono essere reinterpretati da successive azioni magisteriali, com’è accaduto quando il Concilio Vaticano II ha sviluppato e chiarito la definizione del Concilio Vaticano I riguardo a quella che viene comunemente chiamata “infallibilità pontificia”».  

Il concilio Vaticano II ha infatti ampliato la definizione del Vaticano I, comprendendovi i vescovi in unione con il Papa nell’esercizio dell’infallibilità della Chiesa, quando in comunione tra loro e con il successore di Pietro, «insegnando ufficialmente a proposito di fede e morale convengono su una sentenza da ritenere come definitiva». E ancora di più quando sono riuniti in concilio. Il Vaticano II ha insegnato che anche i fedeli prendono parte all’infallibilità della Chiesa: «La totalità dei fedeli che hanno l’unzione ricevuta dal Santo non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua particolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime il suo consenso universale in materia di fede e di morale». 

Padre Rausch cita quindi il testo pubblicato nel giugno 2014 dalla Commissione teologica internazionale nel quale si afferma che i fedeli «non sono soltanto i destinatari passivi di ciò che la gerarchia insegna e che i teologi esplicitano: essi sono al contrario soggetti viventi e attivi in seno alla Chiesa». E svolgono un ruolo nello sviluppo della dottrina, talvolta anche quando vescovi e teologi si dividono su una determinata questione, e nello sviluppo dell’insegnamento morale della Chiesa. 

Dato che nella vita della Chiesa gli insegnamenti sono espressi per mezzo dei concetti che sono frutto dei tempi e delle culture diverse, si legge ancora nell’articolo di «Civiltà Cattolica», «essi vanno sempre interpretati. La regola della fede nella sua essenza non cambia, ma le espressioni della dottrina e la sua comprensione spontanea segnata dalla cultura cambiano, e per questo il Magistero e i Concili devono assicurare la giusta formulazione della fede». Nella vita pastorale «si deve tener conto dell’esperienza umana, delle nuove informazioni, dei contesti culturali e storici e degli effetti provocati sugli altri». 

Tra gli esempi che padre Rausch cita c’è l’indiscutibile ed evidente evoluzione avvenuta con il documento conciliare «Dignitatis humanae» rispetto al magistero del secolo precedente. Passando dall’enciclica «Mirari vos» di Gregorio XVI (1832) che definiva «assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza», e dal Sillabo del beato Pio IX (1864), all’affermazione della libertà religiosa tra i diritti fondamentali di ogni essere umano.  

È vero che il concetto di «libertà religiosa» di Gregorio XVI o di Pio IX non equivaleva a quello che valido per noi oggi, dato che nel XIX secolo la libertà religiosa si comprendeva «come un atto dell’intelletto, che ha il diritto di ignorare arbitrariamente la verità, mentre nel secolo XX essa è intesa come atto della volontà, di libera scelta». Tuttavia, resta vero, scrive l’autore dell’articolo, che «con il Vaticano II si è avuta una svolta significativa», una «chiara evoluzione» rispetto a ciò che teologi, vescovi e Papi hanno insegnato precedentemente

Un altro esempio citato riguarda l’affermazione «fuori della Chiesa non c’è salvezza», che è stata notevolmente approfondita e per la quale, ha affermato il Papa emerito Benedetto XVI si è verificata «una profonda evoluzione del dogma».  

Un ulteriore esempio riguarda la schiavitù.  
Citando il beato John Henry Newman, il teologo Yves Congar affermava che lo sviluppo comporta rispetto delle forme acquisite e passate, fedeltà, fondamento e continuità; ma implica pure movimento, crescita e adattamento. La preoccupazione di Papa Francesco, scrive padre Rausch, appare oggi proprio quella di «ricontestualizzare» la dottrina al servizio della missione pastorale della Chiesa. «Ciò può condurre a evoluzioni e correzioni guidate dalla fedeltà al kerygma essenziale e ai princìpi che esprimono l’aspetto duraturo del messaggio cristiano. Se non si riconoscesse questa necessità, si rischierebbe di restare fermi a una visione della dottrina intesa come un deposito di verità astratte e statiche, indipendenti da qualsiasi particolare contesto storico». 

Alla luce degli esempi proposti, «La Civiltà Cattolica» conclude che «la dottrina della Chiesa non va ridotta a qualcosa di meramente regolativo e informativo, espungendone il carattere vissuto e trasformativo proprio del dinamismo della fede guidato dall’annuncio dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo». 

«Come abbiamo precedentemente ricordato - conclude l’autore - questa fu la prospettiva di san Giovanni XXIII, il quale desiderava un magistero di carattere fondamentalmente pastorale, piuttosto che soltanto dedito a ripetere precedenti formulazioni dottrinali. Così, anche la prospettiva di Papa Francesco mette in evidenza con decisione la “pastoralità della dottrina”. La dottrina va dunque interpretata in relazione al cuore del kerygma cristiano e alla luce del contesto pastorale in cui verrà applicata, sempre ricordando che la suprema lex deve essere la salus animarum, la salvezza delle anime».