martedì 26 aprile 2016

Segno dei tempi




Queen Rania visits refugee camp in Greece and calls for a collective global 
Petra 
Her Majesty Queen Rania Al Abdullah called for a collective global response to the growing refugee crisis, explaining that its impact is much greater than any one country or any one region’s capacity to cope. The Queen made these statements during a visit to the Kara Tepe refugee camp on the Greek island of Lesbos on Monday in her capacity as advocate for the International Rescue Committee (IRC), where she also met with several refugees. (...) 

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“Noi in fuga dalla morte. Il Papa, un angelo venuto a salvarci”

di Salvatore Cernuzio
Ha gli occhi spenti Suhila Alshakarji, una dei 12 profughi siriani che Papa Francesco ha portato con sé in Italia dall’isola di Lesbo. Occhi spenti e stanchi. Si ravvivano solo quando guarda sua figlia Qudus, 7 anni – il cui nome, ci tiene a specificare, “significa Gerusalemme” – giocare spensierata in giardino e finalmente sorridere.
Non è trascorso tanto tempo da quando la piccola, in un gommone fermo quasi un’ora e mezzo in mare aperto, con altre 36 persone immobili per evitare ogni movimento, chiedeva alla mamma terrorizzata: “Che succede?”. “In quel momento – racconta Suhila a ZENIT – ho fatto di tutto per addormentarla. Così se fossimo morti, non si sarebbe accorta di nulla”.
Incontro la famiglia, insieme alle altre due scelte dal Papa, nel cuore di Trastevere dove è situata la Scuola di lingua e cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio presso cui i volontari insegnano gratuitamente l’italiano a circa 1900 persone, tra profughi e stranieri.
Il dramma che mi riporta la donna, una ex sarta di neppure 50 anni, è solo uno dei tanti che la famiglia Alshakarji proveniente da Deir Ezzor ha dovuto subire da qualche anno a questa parte. Da quando, cioè, quelle forze demoniache ben note come Stato Islamico, Isis, Daesh hanno inquinato un territorio finora caratterizzato dalla pace e dal dialogo.La famiglia Alshakarji
“Sono 1400 anni che a Deir Ezzor viviamo serenamente” racconta Rami, il capo famiglia, uno stimato insegnante prima di diventare un rifugiato. In questa zona conosciuta come ‘l’Auschwitz degli armeni’, che l’Isis ha devastato, uccidendovi anche 300 civili, “da millenni siamo tutti uguali: musulmani, cattolici, ebrei… Non abbiamo differenze, nessuno mai domanda di che religione sei”.
Da lì gli Alshakarji sono dovuti fuggire di fretta con i loro tre figli: oltre a Qudus, anche Rashid, 18 anni, e Abdalmajid, 15 anni, che in questa nuova fase della sua vita si fa chiamare ‘Totti’ come il celebre calciatore. “Sono contento di essere venuto in Italia così ho due cose: il calcio e la scuola. Finalmente posso ritornare a studiare” dice, poi si nasconde dietro un sorriso timido, mentre il fratello non proferisce parola.
“Sono molto stressati” spiega papà Rami, che invece è espansivo e affettuoso con tutti i giornalisti o i volontari di Sant’Egidio che li vanno a trovare. “Hanno rilasciato interviste ogni giorno” spiega Roberto Zuccolini, uno dei responsabili della Comunità per i rapporti con la stampa; “hanno chiesto infatti di essere protetti da una eccessiva esposizione mediatica”.
Rami tuttavia ha bisogno di parlare, vuole sfogarsi di tutto il male che ha dovuto subire. Anzitutto la sua prigionia presso i jihadisti, durata sei mesi. Rami incrocia i polsi per fare capire la condizione in cui era costretto a vivere quotidianamente: incatenato mani e piedi. “Mi picchiavano sulla schiena”, mi racconta. “Perché?” domando, e ingenuamente aggiungo: “Tu sei musulmano…”.
“Questi non sono musulmani” replica quasi stizzito, “questi non non hanno religione. Ci rapivano e frustavano solo per imporsi, per fare capire chi ha il potere, per farci paura”. Anche il fratello di Rami, 55 anni, è stato sequestrato per tre anni; anche lui poi è stato liberato. La stessa fortuna non è toccata a tanti altri loro parenti: “Tre sono scomparsi” racconta Suhila, “non sappiamo se siano vivi. Nove sono morti. Tutto il resto della famiglia è in diverse città della Siria, dove attualmente ci sono combattimenti. A volte riusciamo a sentirli, altre no. Abbiamo paura”.
La famiglia AlshakarjiLa donna, durante la prigionia del marito, è coraggiosamente fuggita con i figli in Libano da parenti. Non pensava che si sarebbero mai ricongiunti; quando il miracolo è avvenuto hanno deciso perciò che era arrivato il momento di lasciare il paese. “Ho deciso di partire perché volevo salvare la mia famiglia” spiega l’uomo, “siamo fuggiti quando abbiamo capito che i ragazzi rischiavano la vita. Sono giovani e potevano morire da un momento all’altro per i bombardamenti o essere costretti ad arruolarsi” nella jihad.
Della loro casa non sanno più nulla. Probabilmente sarà distrutta: “Quando siamo usciti il villaggio era bruciato dalle bombe”. Nella loro memoria è impresso invece tutto l’iter per uscire dal paese: la fuga di notte da Deir Ezzor passando per Raqqa, Aleppo e altre zone occupate dall’Isis, “così pericolose che non c’erano nemmeno animali per strada”. “Alcune le percorrevamo a piedi, altre nascosti in camion di frutta e verdura”, dice Suhila.
“Ci hanno trattati malissimo” fa eco il marito, “ogni volta trovavamo qualcuno che ci urlava contro: ‘Fermati, chi sei? Da quale parte stai? Di che partito sei? Di che religione sei?’. Così, giusto per disturbarci, per terrorizzarci”. Tutto è durato 10 giorni, poi gli Alshakarji sono arrivati a Izmir, in Turchia, per tentare la fortuna attraverso la ‘via illegale’, salendo cioè su un barcone alla volta di Lesbo. “Un barcone? Magari! Era un gommone…”, esclama Rami.
“Siamo partiti alle 23, ogni 100 metri il motore si bloccava”. Nessuno è morto, il mare era inspiegabilmente calmo, ma ad un certo punto, in piena notte, l’imbarcazione si è fermata per 90 minuti. “Non si vedeva nulla all’orizzonte. Abbiamo chiamato la Guardia Costiera ma faticava a trovarci. Siamo rimasti lì immobili: le donne e i bambini in mezzo e tutt’intorno gli uomini. Bastava un po’ di vento o il minimo movimento e tutti e 36 saremmo finiti in acqua”.
Il terrore si è replicato per oltre 5 ore fino all’arrivo a Lesbo. Nell’isola greca i profughi hanno trovato uno scenario completamente diverso. I ragazzi sorridono ricordando “l’accoglienza impressionante” sulla spiaggia: “C’erano volontari, giovani e adulti, che sono entrati nell’acqua per aiutarci a scendere. Anche donne anziane hanno aiutato a spingere il gommone fino alla spiaggia”. Poi una volta scesi, racconta Rami commosso, “ci hanno buttato i fiori addosso”.
A Lesbo, nel campo Morìa visitato dal Papa, la famiglia è rimasta per 50 giorni. “Stavamo bene, ma eravamo troppi – spiega Suhila – non bastavano cose basilari come il cibo, l’acqua… Non mangiavamo bene, non c’era acqua sufficiente per fare il bagno; molti ragazzini e bambini si sono ammalati. Difficilmente si trovavano medici”.
Tuttavia, aggiunge la donna, nell’isola i rifugiati hanno potuto assaporare quel calore umano che avevano quasi dimenticato: “La gente è stata molto brava, molto affettuosa”. Tanto che la piccola Qudus si è subito ambientata: “Lei stava in giro nel campo dalle 9 fino a mezzanotte, dava una mano ai volontari per aiutare gli altri profughi”.
"Selfie" della famiglia AlshakarjiPoi è arrivato Francesco: “Un angelo venuto per salvarci”. Alla domanda su come abbiano accolto la notizia che il Papa li avesse scelti tra le famiglie da portare in Italia, Rami poggia le mani sugli occhi e risponde: “Che dire? È stata una grande sorpresa, non riuscivamo a crederci: un personaggio che vedevamo in tv e che non è neanche musulmano era venuto a prenderci, a salvarci… Non ce lo saremmo mai aspettati”.
“Abbiamo sentito una nuova vita dentro di noi, c’era una speranza” afferma la moglie, accennando anche ad un sorriso. E Qudus si intromette per dirmi la sua: “Quando ho incontrato il Papa gli ho detto: ‘Lui è il mio papà, tu pure sei il mio papà?’. L’ho baciato e abbracciato e gli ho detto che il mio nome significa Gerusalemme, lui era contento, ha giocato con me”.
Dall’incontro con il Pontefice, è stata una sorpresa dopo l’altra: “Abbiamo pranzato insieme, abbiamo pure mangiato la lasagna!” racconta Rami; poi l’arrivo in Italia dove hanno trovato i volontari di Sant’Egidio che li hanno accolti “come in una famiglia”.
La Comunità offre ora vitto e alloggio e insegna loro la lingua. “Appena arrivate, le famiglie hanno fatto domanda di asilo politico all’Aeroporto di Ciampino. Hanno ottenuto il permesso di soggiorno” precisa Zuccolini. Ora, aggiunge, “si cominciano a integrare. Hanno fatto la spesa, stanno cominciando a guardare una scuola per i loro figli…. Mi ha impressionato perché pur venendo da luoghi distanti, luoghi di guerra, in una settimana si sono sentiti a casa. Se c’è la volontà di integrarsi tutto diventa più facile”.
Attualmente la famiglia Alshakarji vive “un sogno”. Non ha prospettive: a casa è impossibile tornare; andare in un’altro paese, troppo difficile. L’unica speranza è quella che esprime Suhila accoratamente: “Tutti i paesi, non solo europei ma anche quelli musulmani, dovrebbero seguire il gesto del Papa e aiutare le famiglie siriane. È importante perché la gente sta morendo ogni giorno”.
Gli domando una foto per immortalare questo momento così intenso. I ragazzi sorridono e dicono: “Selfie!”. Rami insiste invece a scattare la fotografia davanti alla targa della Comunità di Sant’Egidio: “È il minimo che possiamo fare per ringraziare”. Zenit
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Le migrazioni dei popoli. Segno dei tempi 

(Cardinale Prosper Grech) Ai miei tempi si parlava di “invasione dei barbari” per descrivere quel fenomeno storico del primo medioevo europeo. Oggi, si chiama con il termine, più politically correct, “la migrazione dei popoli”. 
Fin dal termine del terzo secolo varie genti cominciarono a erodere le frontiere settentrionali e orientali dell’impero romano. Era naturale che il miraggio di una città prospera e potente attraesse l’attenzione e la cupidigia di quei popoli vicini che non avevano raggiunto un tale grado di civiltà e di benessere. Nonostante lo sforzo di Diocleziano di riconquistare le terre perdute, il processo segnava l’inizio del declino di Roma, dovuto a diversi fattori: sociali, politici, economici, morali e demografici. Inoltre, quando Costantino stabilì la sua sede a Bisanzio, l’Occidente divenne preda dei popoli circostanti i quali approfittavano delle crepe dell’impero per estendere il proprio potere. Il culmine fu raggiunto quando Alarico conquistò e saccheggiò Roma nel 410. Da allora unni, ostrogoti, visigoti, alemanni e altri continuarono a devastare l’impero.
È ovvio che tale fenomeno non si manifestò solamente nell’impero romano. Era un fatto ricorrente in ogni parte del mondo lungo la storia delle diverse civiltà orientali e occidentali. Può accadere per cercare terre più fertili, o semplicemente per scopi espansionistici. Noi ci soffermiamo sulla storia romana perché questa ha qualcosa da dire alla nostra generazione.
I vari popoli che si impossessarono dei territori romani avevano anch’essi i loro costumi, religioni e culture. Era da prevedere che la cultura più forte e più antica dei romani prevalesse su quelle più deboli e meno consolidate. Però era inevitabile che questi vari popoli lasciassero anch’essi la loro impronta sui popoli di più antica civiltà. Accadde dunque una fusione con prevalenza romana che, dopo un lungo periodo di assestamento, diede vita alla grande civiltà medievale, con le sue università, cattedrali, letterature, filosofia e arte. Quale altra era sorgerà dopo la fusione di tutte le razze e culture dell’Europa odierna?
Gli invasori di allora trovarono sì un impero in declino con molte debolezze, ma incontrarono anche un popolo ancora giovane con uno spirito forte e credenze ben definite, con risposte credibili ai problemi dell’esistenza umana: i cristiani. Questi avevano permeato l’impero da secoli e avevano infuso una nuova anima nel pensiero e nella cultura delle genti che popolavano i territori dell’impero. La nuova Europa dunque, era unita non soltanto da una lingua comune, ma da una fede comune e da una cultura erede del pensiero greco e romano nonché della giurisprudenza romana.
Ciò nonostante perdurarono i nazionalismi, in bene o in male. C’erano delle guerre sì, ma l’eredità greco-romana-cristiana fiorì nelle grandi letterature di ciascuna nazione per mezzo di uomini come Dante e Shakespeare.
Ciò che abbiamo detto finora lo conosce ogni scolaro. Lo abbiamo riferito perché può servirci per interpretare il fenomeno analogo del movimento costante verso l’Europa di masse di gente dal Medio Oriente e dall’Africa. Sarebbe falso e offensivo chiamare questo fenomeno un’invasione da cui dobbiamo difenderci. Sarebbe come se chiamassimo invasione l’emigrazione di centinaia di migliaia d’italiani in Germania, in Belgio e negli Stati Uniti, dove si sono amalgamati con gli abitanti, anche se con non poca difficoltà. È soltanto un altro caso di tali avvenimenti ricorrenti nella storia di ogni continente.
L’analogia, però, ha i suoi limiti. Abbiamo detto che gli immigranti o gli invasori dell’antichità avevano trovato una Chiesa giovane, ancora nel pieno del suo sviluppo che ha potuto assorbirli nella sua fede. Gli immigranti di oggi sono in prevalenza musulmani. Sono uniti con la lingua araba, e per loro l’islam è una religione e un marchio d’identità. Quale fede incontrano in un’Europa in crisi, affetta da un continuo processo di laicizzazione e spesso anticristiana? Possiamo ben chiederci se saremo noi cristiani a trasmettere agli immigranti i valori evangelici ovvero a sconcertarli con la confusione dei nostri mores e con il relativismo intellettuale corrente. Certamente una tale massa di gente che arriva in continuazione crea, nelle diverse nazioni, non pochi problemi sociali, economici e logistici di difficile soluzione. D’altra parte non ne possiamo fare a meno a causa del calo generale demografico, particolarmente in Italia. A parte ogni considerazione utilitaristica però, non possiamo tirarci indietro, in una situazione che ci sfida a fare uso di tutte le risorse ereditate dalla nostra tradizione umanistica e cristiana; altrimenti i “barbari” saremmo noi!
A parte queste considerazioni morali, dobbiamo chiederci se tutto questo sconvolgimento nel Medio Oriente non sia anche un “segno dei tempi” che bisogna leggere alla luce della Sacra Scrittura. Dio ci vuole dire qualcosa? La caduta di “Babilonia” di cui parla l’Apocalisse, cioè la rovina di un sistema economico e politico che costituisce un peccato strutturale ricorrente nella storia, può essere letta in chiave contemporanea. I frequenti richiami alla conversione rivolti a Gerusalemme da Geremia nell’imminenza dell’invasione dei babilonesi non parla anche a noi che siamo continuamente minacciati dal terrorismo? In fine, la lunga lista dei vizi dei pagani nel primo capitolo della Lettera ai Romani non descrive ancora certi mores odierni di cui ci vantiamo come “conquiste culturali”?
È compito della Chiesa, unica autorità morale in un mondo di valori caotici, interpretare, per i fedeli e per tutti, i segni dei tempi. In un anno santo dedicato alla misericordia, il grido profetico della Chiesa perché apriamo gli occhi alla dimensione storico salvifica degli avvenimenti attuali, come fece Agostino nel De civitate Dei, sarebbe il più grande dono che Dio, nella sua misericordia, può elargire a tutti gli uomini di buona volontà. 
L'Osservatore Romano