giovedì 28 aprile 2016

Hans Kung, Papa Francesco e il dogma dell'infallibilità.




Da Libertà e Persona
Tutti i giornali parlano della lettera di Francesco ad Hans Kung, grande avversario, teologicamente parlando, di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
In tale lettera dice che si può ben discutere il dogma dell’infallibilità pontificia.
Discutere un dogma, nella Chiesa, non è possibile. Mettere in discussione tutto, di continuo, affidando tutto alla imperizia dei giornali plaudenti, crea enorme confusione e smarrimento. Ma discutere su cosa sia l’infallibilità, è oggi più che opportuno.
Il dogma dell’infallibilità pontificia, generò infatti da subito molte discussioni, anche in chi lo approvava. Perchè si temette che potesse essere inteso in modo sbagliato.
Ci fu chi lo avversò, chi lo difese, e chi, difendendolo, disse che andava spiegato e ben compreso.
Se andava spiegato nell’Ottocento, immaginiamoci oggi, in un’epoca in cui la personalizzazione
la fa da padrona in ogni campo, complice la potenza dei media.
Allora bisognerà comprendere un fatto: che l’infallibilità del papa, in quanto vicario di Cristo, appartiene alla fede della Chiesa anche prima della proclamazione del dogma.
Ma in cosa consiste? Questo è più difficile da capire, perchè appartiene ai misteri della fede. Quella fede che fa sì che i cattolici abbiano sempre creduto, giustamente, alla santità della Chiesa, anche di fronte a preti, vescovi, cardinali e papi pessimi.
Il fondamento sta nel Vangelo: “le porte degli Inferi non prevarranno contro di Essa”. Questo è certo.
Ciò non significa che il papa non sbagli: Pietro, il I papa, rinnegò Cristo, e fu ripreso da san Paolo, che gli “resistette in faccia”, salvando la Chiesa, già con i suoi problemi, dunque, sin dal principio.
Il papa può sbagliare sia nella vita personale (può anche essere un grande peccatore, un fariseo, un vanesio…), sia come teologo privato.
Vi sono vari casi, nella storia, in cui i papi hanno detto cose sbagliate, senza però impegnare la loro infallibilità.
Anche oggi un documento come Amoris laetitia, così discusso, non è presentato, da chi lo ha scritto, come dottrinale: non è dunque infallibile.
Scriveva san Vincenzo da Lerino: “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.
La storia mostra quanto questo sia vero; e mostra anche che i papi inflitti, hanno fatto grandi guai, ma non sono riusciuti mai a distruggere la Chiesa.
Nè quelli che davano scandalo con la loro vita privata, nel Rinascimento, nè quelli che ne hanno fatto scempio, in verità assai di rado, con le loro dottrine errate.

Il cardinal Gicomo Biffi, grande amico ed estimatore di Giovanni Paolo II, raccontava spesso, come cosa normale e giusta, di averlo criticato apertamente più volte, anche in privato. In particolare riguardo a come Giovanni Paolo II aveva gestito i mea culpa sulla storia della Chiesa, alimentando tanta confusione, e, soprattutto, riguardo all’ecumenismo.
Assisi 1986 era stata, per Biffi, come per Ratzinger, un involontaria propaganda all’indifferentismo religioso.
Giovanni Paolo II, di fronte a queste considerazioni di Biffi, non se la prese, ma, a quanto risulta, disse addirittura che in quelle critiche c’era del vero.
Nessun papa serio crede nell’infallibilità come onnipotenza: la fede, il Vangelo, non sono del papa, ma gli sono affidati.
Egli è colui che deve tramandare il depositum fideitramandare, significa che non crea nulla (tramanda, come scriveva san Paolo, ciò che ha ricevuto); depositum, significa che i dogmi sono già contenuti, esplicitamente o implicitamente, nel Vangelo.
E’ per questo che nella Chiesa ci si è posti spesso, nei secoli, la domanda: e se il papa non fosse cattolico?
Per Erasmo da Rotterdam, Giulio II non era papa; e il grande teologo, esprimendo il pensiero comune della Chiesa, sosteneva che quando il papa non ha la vera fede, non è papa, e decade, ipso facto, dalla sua carica. Il papa Paolo IV, infatti, sempre nel Cinquecento, nella bolla Cum ex apostolatus officio del 15 marzo 1559, affermava l’impossibilità di essere a capo della Chiesa, senza possederne la fede. Più avanti nel tempo San Roberto Bellarmino, nel De Romano Pontifice, scriverà: «un papa che sia eretico manifesto, per quel fatto cessa di essere papa e capo, poiché a causa di quel fatto cessa di essere un cristiano e un membro del corpo della Chiesa. Questo è il giudizio di tutti gli antichi Padri, che insegnano che gli eretici manifesti perdono immediatamente ogni giurisdizione»
Questo decadere è però molto problematico, perchè prima sedes a nemine indicatur: poichè il papa è superiore ai cardinali, o ai concili, non può essere da loro deposto.
Come conciliare la possibilità che un papa non sia papa, che decada ipso facto, e il fatto che non possa essere deposto da altri?
Qui sta evidentemente il caso, che nessun teologo, a quanto consta, ha mai risolto, da un punto di vista pratico.
Così anche il vecchio codice di diritto canonico parlava di decadenza ipso facto, e lì si fermava.
Ma torniamo all’infallibilità, e ai suoi limiti. Si sentono spesso commenti di questo genere: non si può criticare un documento del papa, una sua affermazione…
Non è così: in politica, nel campo scientifico, quando propone soluzioni pastorali… un papa può, senza dubbio, sbagliare, e di grosso. Se poi si contrappone ad un suo predecessore, non è lecito sfuggire al dilemma posto dalla ragione: chi ha ragione?
In caso di errore non è doverso obbedirgli, anzi. Si tratta di una dottrina che la Chiesa riconosce, per analogia, in ogni ambito: bisogna obbedire all’autorità dei genitori, ma non quando comandano qualcosa contro la legge di Dio (ad es. di rubare); bisogna obbbedire al potere politico, ma si deve avere il coraggio di opporsi, nel giusto modo, quando esso dia ordini iniqui (ad esempio uccidere l’innocente).
I medievali, che avevano del Vicario di Cristo un sommo rispetto, lo sapevano assia bene: Dante mette all’inferno diversi papi, eppure non smette mai di credere nel potere delle Somme Chiavi e nella Chiesa come Istituzione divina.
Come lui tutti i suoi contemporanei, se è vero come è vero che nessuno mai ebbe da dire, in punta di dottrina, contro le sua posizione, o quella di un Iacopone da Todi, che stimava Bonifiacio VIII ancora meno di quanto faceva Dante.
Un ultimo esempio dal lontano passato, tra i tanti possibili: Santa Caterina da Siena. Come si rivolgeva al papa?
Così: “Santissimo e carissimo e dolcissimo padre in Cristo dolce Gesù….”; eppure, nella stessa lettera lo invitava ad essere “uomo virile e non timoroso“, senza “timore servile“, e gliele suonava e gliele cantava…

E attingendo a tempi più recenti, come non ricordare il beato cardinal Newman, che dalla Chiesa anglicana a quella di Roma era tornato, che del Papato era grande difensore, quando difendendo il dogma dell’infallibilità pontificia, nella lettera al duca di Norfolk, scriveva: “Con tutto ciò sono lontano dall’affermare che i papi non abbiano mai torto; che non ci si debba mai oppore a loro, oppure che le loro scomuniche abbiano sempre effetto. Non sono tenuto a difendere la politica e gli atti di singoli Papi...”
Il papa elogia Scalfari, Kung, Bonino, Pannella, Napolitano, Martin Lutero…?
In nessuno di questi atti o giudizi Egli gode dell’infallibiltà.
Chi toglie al Papa le sue prerogative (magari quando si chiama Benedetto ed è avversato da mondo), come chi gliele aggiunge (quando gli torna utile unirsi al coro), fa un pessimo servizio al Papato.
***

 da: Repubblica.it

(Hans Kung) Il 9 marzo è apparso su importanti giornali di diversi Paesi il mio appello a papa Francesco per avviare una discussione libera, non prevenuta, aperta sulla questione dell' infallibilità. Mi ha fatto molto piacere ricevere già subito dopo Pasqua, attraverso la nunziatura di Berlino, una lettera personale di papa Francesco datata la domenica delle Palme (20 marzo). 
In questa lettera sono per me molto significativi i seguenti punti: che papa Francesco mi abbia risposto e che non abbia, per così dire, lasciato cadere nel vuoto il mio appello; che abbia risposto di persona e non attraverso il suo segretario privato o il cardinale segretario di Stato; che sottolinei il carattere fraterno della sua lettera in spagnolo con l' appellativo tedesco «lieber Mitbruder» («caro confratello»), scritto in corsivo; che abbia letto attentamente l' appello che gli avevo rivolto anche in traduzione spagnola; che tenga in grande considerazione le riflessioni che mi hanno indotto a pubblicare il quinto volume dei miei scritti, nel quale propongo di discutere sul piano teologico, alla luce della Sacra Scrittura e della tradizione, le diverse questioni sollevate dal dogma dell' infallibilità, allo scopo di approfondire il dialogo costruttivo della Chiesa del ventunesimo secolo, «semper reformanda», con l' ecumene e la società postmoderna. Papa Francesco non pone alcuna limitazione. Egli ha così corrisposto al mio desiderio di dar luogo a una libera discussione del dogma dell' infallibilità. Ritengo, perciò, che occorra utilizzare questo nuovo spazio libero per portare avanti il chiarimento delle definizioni dogmatiche contestate nella Chiesa e nell' ecumene cattolica. Allora non potevo immaginare quale spazio libero avrebbe aperto pochi giorni dopo papa Francesco nello scritto apostolico post-sinodale Amoris laetitia. Già nell' introduzione egli dichiara che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». Egli si volge contro una «una morale fredda da scrivania» e non vuole che i vescovi continuino a comportarsi come «controllori della grazia ». Non vede l' eucarestia come un premio per i perfetti, ma come un «alimento per i deboli». Cita ripetutamente affermazioni del sinodo dei vescovi e delle conferenze episcopali nazionali. Non vuole più essere il portavoce solitario della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero. Sono convinto che in questo spirito anche il dogma dell' infallibilità, questa fondamentale questione chiave della Chiesa cattolica, potrà alla fine essere discussa in modo libero, non prevenuto e aperto. Per questo libero spazio rivolgo a papa Francesco un ringraziamento profondamente sentito. Aggiungo l' aspettativa che i vescovi, le teologhe e i teologi facciano proprio senza riserve questo spirito in un dialogo collegiale e collaborino a questo compito nel solco della Scrittura e della grande tradizione ecclesiale.