venerdì 15 aprile 2016

La mano di Cristo, il pastore buono

Lapide romana con la figura del Buon Pastore, terme di Diocleziano, parte del Museo nazionale romano, Roma.
Lapide romana con la figura del Buon Pastore, terme di Diocleziano,
parte del Museo nazionale romano, Roma.

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17 aprile 2016
di ENZO BIANCHI
IV domenica di Pasqua C
Gv  10,27-30
27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni contiene una lunga discussione tra Gesù e alcuni farisei che egli dichiara in una situazione di peccato, perché credono e dicono di vedere mentre in realtà non vedono e non operano un discernimento circa l’identità di Gesù e la qualità della sua azione (cf. Gv 9,40-41).
Con una parabola Gesù cercare di rivelare loro come egli non sia un ladro ma sia il pastore che entra ed esce attraverso la porta dell’ovile, non in incognito, il pastore che cammina davanti a pecore che lo seguono perché riconoscono la sua voce. La parabola però non viene compresa e allora Gesù fa dichiarazioni esplicite su di sé e sulla propria missione: è lui la porta dell’ovile, è lui il pastore buono che, pur di custodire le pecore, è disposto a dare la sua vita, perché ha la capacità di dare la vita per le pecore e di riceverla di nuovo dal Padre (cf. Gv 10,17). Queste parole creano divisione tra quanti lo ascoltano: alcuni lo giudicano indemoniato, altri riconoscono il suo operare carico di salvezza (cf. Gv 10,19-21). In quei giorni “ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i capi dei giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: ‘Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’” (Gv  10,22-24). Gesù è dunque costretto a riprendere la parola per denunciare che la situazione di non fede in lui è dovuta al fatto che quegli ascoltatori non sono sue pecore (cf. Gv 10,26), non sono disposti ad accogliere le sue parole.
A questo punto dobbiamo però fare un’osservazione di grande importanza. Nelle sante Scritture pastori e pecore sono molto presenti, perché facevano parte della società pastorale-agricola in cui la Bibbia è sorta. Essere pastore significava svolgere un mestiere che aveva grande rilevanza e tutti sentivano la figura del pastore come esemplare. Noi oggi siamo lontani da quella situazione, non conosciamo né vediamo, se non raramente, pastori che conducono il gregge; e soprattutto, le pecore non ci appaiono capaci di rappresentarci. Per questi motivi, le parole di Gesù al riguardo non sono più performative come lo erano ai suoi tempi in Palestina. Di conseguenza, non mi soffermo tanto sulle immagini del pastore e delle pecore, ma vorrei approfondire i verbi utilizzati, che nelle parole di Gesù vogliono comunicarci un messaggio su di lui: su Gesù, ovvero su un uomo che ha vissuto realmente tra di noi, che era umano come noi, che ha lasciato una traccia indelebile del suo comportamento nel cuore di quelli che “sono entrati e usciti con lui”.
Innanzitutto Gesù dice che quanti lo seguono, cioè sono suoi discepoli, “ascoltano la sua voce (cf. ibid.). Questo è l’atteggiamento di chi crede: egli crede perché ha ascoltato parole affidabili. È il primo passo che l’essere umano deve compiere per entrare in una relazione: ascoltare, che è molto più del semplice sentire. Ascoltare significa innanzitutto riconoscere colui che parla dalla sua voce, dal suo timbro particolare. Ci vogliono certamente impegno e fatica, ma solo facendo discernimento tra quelli che parlano è possibile ascoltare quella voce che ci raggiunge in verità e con amore. Tutta la fede ebraico-cristiana dipende dall’ascolto – “Shema‘ Jisra’el! Ascolta, Israele!” (Dt 6,5Mc 12,29 e par.) – e sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento “la fede nasce dall’ascolto” (fides ex audituRm 10,17). Per avere fede in Gesù occorre dunque ascoltarlo, con un’arte che permetta una comunicazione profonda, la quale giorno dopo giorno crea la comunione.
La seconda azione che Gesù presenta come propria delle sue pecore si riassume nel verbo seguire: “Esse mi seguono” (Gv  10,27). Materialmente ciò significa andare dietro a lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4), ma seguirlo anche conformando la nostra vita alla sua, il nostro camminare al modo in cui lui ci chiede di camminare. Il pastore quasi sempre sta davanti al gregge per aprirgli la strada verso pascoli abbondanti, ma a volte sta anche in mezzo, quando le pecore riposano, e sa stare anche dietro, quando le pecore devono essere custodite perché non si perdano. Gesù assume questo comportamento verso la sua comunità, verso di noi, e ci chiede solo di ascoltarlo e di seguirlo senza precederlo e senza attardarci, rischiando di perdere il cammino e l’appartenenza alla comunità.
In questa condivisione di vita, in questo coinvolgimento tra pastore e pecore, tra Gesù e noi, ecco la possibilità della conoscenza: “Io conosco le mie pecore” (Gv 10,27). Certamente Gesù ci conosce prima che noi conosciamo lui, ci scruta anche là dove noi non sappiamo scrutarci; ma se guardiamo a lui fedelmente, se ascoltiamo e “ruminiamo” le sue parole, allora anche noi lo conosciamo. E da questa conoscenza dinamica, sempre più penetrante, ecco nascere l’amore, che si nutre soprattutto di conoscenza. Cor ad cor, presenza dell’uno accanto all’altro, possiamo quindi dire umilmente: “Io e Gesù viviamo insieme”. Gesù è “il pastore buono” (Gv 10,11.14), certo, ma anche l’amico e l’amante fedele, potremmo dire: sentendoci da lui amati, conosciuti, chiamati per nome, penetrati dal suo sguardo amante, allora possiamo decidere di amarlo a nostra volta.
Che cosa attendere dunque da Gesù Cristo? Il dono della vita per sempre (cf. Gv 10,28) e quella convinzione profonda che siamo nella sua mano e che da essa nessuno potrà mai strapparci via (cf. Gv 10,28-29). Sì, la mano di Gesù: mano che ci tocca per guarirci; mano che ci rialza se cadiamo; mano che ci attira a sé quando, come Pietro affondiamo (cf. Mt 14,31); mano che ci offre il pane di vita; mano che si presenta a noi con i segni dell’aver sofferto per darci la vita (cf. Lc 24,39Gv 20,20.27); mano che ci benedice (cf. Lc 24,50), tesa verso di noi per accarezzarci e consolarci. Ecco quella mano del Signore che più volte è stata dipinta tesa verso l’uomo, perché ognuno di noi per camminare ha bisogno di mettere la propria mano in quella di un altro. Solo così non ci sentiamo soli e ci sentiamo non esenti da cadute o sventure, ma sempre sostenuti dal Signore, sempre in relazione con lui. Queste parole del Kýrios risorto – “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano, perché sono il dono più grande che il Padre mi ha fatto, il dono più grande di tutte le cose” – sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con il Signore. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. L’Apostolo Paolo, significativamente, ha gridato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm  8,35). No, niente e nessuno, “ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm  8,37). E la mano di Gesù Cristo risorto è la mano di Dio, perché lui e il Padre sono uno.
Ma dobbiamo dirlo: una fede così, anche se povera e fragile, scatena l’avversione e la violenza di chi non può credere in Gesù. Ecco perché, al sentire queste sue parole quei farisei, che credevano di vedere bene, raccolgono delle pietre per lapidarlo (cf. Gv 10,31). Dove c’è un’azione, un comportamento, una parola di amore, gli uomini religiosi vedono una bestemmia, un attentato al loro Dio, che vorrebbero fosse un Dio senza l’uomo, contro l’uomo! Amano infatti più la religione che l’umanità, più le idee e la loro dottrina che non l’umano, cioè i fratelli o le sorelle accanto a noi nella loro condizione di peccato, di fragilità: condizione, appunto, propria degli umani, che la mano di Dio deve salvare e rialzare.
Gesù ha detto: “Io sono il pastore buono”
“Io sono uno con il Padre”,
ma nel modo in cui viveva ha anche detto, non esplicitamente ma realmente, nei fatti: “Io sono l’umanità, l’umano, perché in piena relazione con gli uomini e le donne che sono nel mondo. Sono l’uomo come Dio l’ha voluto, uno con l’umanità così come sono uno con il Padre”. Sì, i dogmi e le formulazioni teologiche possono essere un aiuto, ma se non comprendiamo la verità di Dio e dell’uomo come Gesù ce l’ha raccontata (exeghésatoGv 1,18), allora sono un inciampo!

Hermes Crioforo, VI sec a.C., terracotta, Gela, Museo Archeologico Regionale.
Hermes Crioforo, VI sec a.C., terracotta, Gela, Museo Archeologico Regionale.
L'iconografia del Buon Pastore attraversa secoli di storia e diverse culture per approdare nell'immaginario del cristianesimo.

“Finalmente, dopo aver fatto questo e offerti i doni alla dea,
raggiunsero i luoghi beati
e l'ameno verde dei boschi fortunati e le beate sedi.”
(Virgilio, Eneide VI, 63-640)

Con queste parole Virgilio descrive i luoghi beati (locus amoenus) lussureggianti di verde in cui Enea trova riposo. Virgilio pone questi luoghi al centro anche di un'altra opera: le Bucoliche.
Quello che vediamo rappresentato nella prima immagine è un crioforo ovvero il portatore di un ovino sulle spalle. Le prime rappresentazioni greche di criofori sono molto antiche. La loro raffigurazione è spesso proposta in un ambiente cultuale per cui rappresentano colui che porta l'animale per il sacrificio o la stessa divinità che lo accetta. Esistono infatti anche statue dette moscoforo ovvero colui che porta un bovino sulle spalle.
Nell'ambiente di cultura romana la raffigurazione di un pastore con un agnello sulle spalle, così come di scene genericamente pastorali, presa dall'immaginario greco, era assai diffusa e veniva riferita ad una pluralità di temi positivi, fra i quali il più significativo appare quello della filantropia (humanitas, in latino): Mercurio e l'eroe Ercole, conducevano pietosamente le anime dei defunti nell'aldilà, caricandosele sulle spalle come appunto un pastore porta un agnello. Queste immagini erano intese come personificazioni virtuose della bontà verso il genere umano. Per questo motivo la rappresentazione del pastore veniva utilizzata anche sui sarcofagi romani.
Sarcofago con pastori e vendemmia (recto), Museo Pio Cristiano, Musei Vaticani.
Sarcofago con pastori e vendemmia (recto), Museo Pio Cristiano, Musei Vaticani.
I primi cristiani senza difficoltà assumono la categoria del luogo “bucolico” e delizioso trasformandolo nel Paradiso, luogo del riposo eterno, e il buon pastore citato nei vangeli diviene il Cristo che porta il defunto nell'aldilà. Quelle stesse caratteristiche di bontà e filantropia di origine pagana vengono assunte dalla rappresentazione del Cristo Buon pastore. L'immaginario va sempre di pari passo con le idee del tempo e proprio negli scritti dei Padri della Chiesa si trovano dei riferimenti al Buon pastore che scende agli inferi per cercare la pecora smarrita (così come accadeva per Mercurio e Ercole), oppure del pastore che guida le pecore (le anime) con la sua voce (il vangelo di questa domenica). Questa immagine diverrà una delle principali raffigurazioni per i sarcofagi e le catacombe fino al primo quarto del IV secolo. Successivamente sarà meno utilizzata e sostituita da nuovi immaginari. 
Questa rappresentazione, assieme a molte altre, ci testimonia che ogni fedele “incarna” ciò in cui crede nella propria cultura. I significati si mescolano e si stratificano, ne nascono di nuovi, a volte del tutto inaspettati, ma sempre capaci di parlare alla contemporaneità dei credenti.
Elia Fiore