mercoledì 13 aprile 2016

Un uomo come voi



Raccolti in un libro testi di Giovanni Battista Montini scritti tra il 1914 e il 1978. Nella storia del Novecento

S’intitola da un’espressione del discorso alle Nazioni unite la raccolta di scritti di Montini Un uomo come voi. Testi scelti (1914-1978), curata da Giovanni Maria Vian (Genova, Marietti, 2016, pagine 198, euro 16). Il 14 aprile alle 17.30, in occasione della pubblicazione, avrà luogo a Concesio (Brescia) nella sede dell’Istituto Paolo VI (via Marconi 15) una tavola rotonda su Montini nella storia del Novecento. Interverranno don Angelo Maffeis, presidente dell’istituto, Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, Giacomo Scanzi, direttore editoriale del Giornale di Brescia, e il direttore dell’Osservatore Romano. Pubblichiamo l’introduzione del curatore e due testi di Montini.
Un uomo come voi (Giovanni Maria Vian)
Nel Palazzo di Vetro di New York il Papa aveva appena cominciato a parlare. Davanti a lui i rappresentanti di mezzo mondo lo seguivano con curiosità e attenzione mentre in francese leggeva un testo lungo e appassionato. Lo aveva scritto personalmente parola per parola in italiano, e personalmente aveva rivisto la traduzione in quella che era un po’ la sua seconda lingua, come lo era stata per sua madre, morta all’improvviso mentre meditava sulle pagine di Bossuet.
Aveva studiato il francese da ragazzo e poi l’aveva perfezionato a Parigi, giovane prete, in un’estate ormai lontana e, soprattutto, l’aveva sempre praticato. Leggendo con avidità autori sempre amati e usandone spesso la lingua in innumerevoli incontri durante il trentennio trascorso nella segreteria di Stato vaticana, con responsabilità sempre crescenti, fino ai vertici.
«Voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello» disse Montini, che subito dopo alzando per un momento gli occhi dal testo aggiunse: «Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la nostra missione; siamo portatori d’un messaggio per tutta l’umanità». Anzi — continuò con un’immagine suggestiva — «siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata»; adempiendo «un voto, che noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con noi una lunga storia; noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando ci è stato comandato: Andate e portate la buona novella a tutte le genti».
Più di mezzo secolo è trascorso da quel giorno, e nell’incalzare sempre più convulso del tempo la visita davvero storica di Paolo VI alla sede delle Nazioni Unite è quasi dimenticata. Come i contorni del suo pontificato e della sua figura sembrano lontanissimi e sbiaditi, stretti tra quelli, meno dimenticati, del predecessore Roncalli — l’amico di sempre, che appena eletto in conclave lo aveva scelto come suo primo cardinale, risarcendolo così dell’esilio da Roma — e soprattutto del successore Wojtyła e del suo lunghissimo regno, dopo la brevissima e misteriosa parentesi di Luciani. Un pontificato, quello di Montini, e il suo protagonista dunque ormai lontani nella memoria pubblica, ma che Papa Bergoglio, più ancora della causa di canonizzazione, sta richiamando ai nostri giorni dimentichi.
In quelle parole del discorso all’Onu c’è tutto l’uomo e il cristiano divenuto successore dell’apostolo Pietro, così come l’immagine che più lo rappresenta è semplice e immediata: una mano che si protende. Un servizio giornalistico della televisione italiana di quegli anni lo documenta, mostrando il Pontefice che, da pari a pari, uomo istintivamente moderno, stringeva con semplicità le mani che lo cercavano, certo non rifuggendo da quanti baciavano la sua, ma senza cercare omaggi che avvertiva desueti. E a evocare il simbolo della mano che si apre, celebrando nel duomo di München una messa per il Papa appena morto, fu poi anche Ratzinger — il teologo che era cardinale da appena un anno, creato nell’ultimo concistoro di Paolo VI — in un’omelia che allora passò del tutto inosservata. Il testo è invece una rilettura essenziale della figura di Montini e in alcuni tratti anticipa in modo impressionante il destino che lo stesso Ratzinger avrebbe vissuto trentacinque anni più tardi.
«In cerca d’un colloquio con il mondo intero»: l’espressione usata dal Papa a New York racchiude il suo itinerario biografico, in apparenza scarno, e il quindicennio di un pontificato drammatico e decisivo. «Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell’amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero» annotava infatti il Papa in un appunto (che risale probabilmente a qualche mese prima del discorso all’Onu) sul predecessore Roncalli, con il quale già veniva contrapposto ideologicamente. Abituato a riflettere su se stesso, Montini scrisse sempre moltissimo: appunti personali, lettere, articoli, discorsi, in una grafia sorvegliata e chiara, con pochi ripensamenti. È poi il Papa stesso — caso non frequente — a scrivere personalmente buona parte dei testi pubblici del pontificato, spesso bellissimi e che impressionano per la coerenza, anche stilistica, con quelli degli anni precedenti, fin giovanili.
Ma chi era questo Papa che scelse per sé il nome di san Paolo, la figura più incisiva del cristianesimo delle origini? Un uomo e un cristiano, appunto, che ha attraversato gran parte del Novecento appassionato e pienamente partecipe del suo tempo. Nato il 26 settembre 1897 a Concesio, piccolo paese alle porte di Brescia, si spense infatti quasi all’improvviso, non ancora ottantunenne, la sera del 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione, nella calura soffocante della residenza pontificia di Castel Gandolfo.
Il padre Giorgio, avvocato e giornalista, poi deputato popolare, era stato tra gli esponenti del cattolicesimo più aperto e responsabile. Dolce e rigorosa al tempo stesso, la madre Giuditta Alghisi aveva saputo trasmettere ai tre figli maschi una spiritualità profonda ed esigente. Così, affascinato giovanissimo dalla preghiera di un gruppo di monaci francesi esiliati nella campagna bresciana, il secondogenito Battista avvertì presto la vocazione religiosa, maturata nell’ambiente aperto dei preti oratoriani di Brescia. Ordinato sacerdote nel 1920, per completare gli studi si trasferì nell’autunno di quell’anno a Roma, dove rimase sino alla fine del 1954, quasi senza interruzioni. Nel 1924 entrò infatti nel servizio diplomatico della Santa Sede e trascorse un trentennio in Segreteria di Stato, con ruoli di responsabilità crescente — come stretto collaboratore di Pacelli, prima segretario di Stato e poi Pontefice — fino a raggiungerne i vertici (come sostituto dagli ultimi giorni del 1937 e come pro-segretario di Stato dalla fine del 1952). Da Roma fu allontanato con la nomina, tanto prestigiosa quanto impegnativa, ad arcivescovo di Milano. Ma l’esilio milanese si rivelò decisivo: creato cardinale dal nuovo Papa, l’amico Roncalli, alla morte del Pontefice venne eletto come suo successore la mattina del 21 giugno 1963, mentre il primo sole d’estate inondava di una luce accecante piazza San Pietro. «Il mondo mi osserva, mi assale. Devo imparare ad amarlo veramente. La Chiesa, qual è. Il mondo qual è» annota il giorno dell’elezione, a notte inoltrata, nell’appartamento pontificio, che gli causa «impressione profonda, di disagio e di confidenza insieme». E nella stessa piazza dove per la prima volta si era affacciato dalla loggia della basilica vaticana, e dove era stato incoronato in una cerimonia d’altri tempi che non si sarebbe mai più ripetuta, la sera del 12 agosto 1978 vennero celebrati i semplici funerali del Pontefice, mentre il vento sfogliava le pagine di un vangelo aperto sulla sua bara deposta per terra.
Tutto era mutato nel quindicennio trascorso tra quelle due estati: il mondo non era più quello ottimista e impaziente di uscire dalla guerra fredda e dal colonialismo, entrato com’era nella transizione difficile, e per tanti aspetti oscura, verso il nuovo secolo. Appena eletto, Montini non aveva voluto chiamarsi né Pio né Giovanni, come i Pontefici che aveva servito con intelligenza e lealtà, ma aveva preso il nome dell’apostolo missionario per eccellenza, figura decisiva per la religione di Cristo, quel san Paolo le cui idee e lettere aveva studiato a fondo da giovane. E come Paolo VIaggiò per annunciare il Vangelo sino ai confini della terra. Con scelte essenziali, tornando innanzi tutto nei luoghi di Cristo, come mai era accaduto a un successore di Pietro. Poi in India, nelle Americhe e fino alle Samoa nel Pacifico, toccando tutti e cinque i continenti, primo Papa a recarsi in tutto il mondo. Lo avrebbero seguito i suoi successori, ma nessuno nel modo scarno e semplice di Montini: nove viaggi internazionali in sette anni, tanto rapidi quanto eloquenti.
Il conclave era stato piuttosto breve — in tutto, una quarantina di ore — ma l’andamento certo non fu facile. L’eletto, erede di fatto indicato di Papa Giovanni, raccolse consensi probabilmente appena più larghi della maggioranza richiesta di due terzi più uno, comunque considerevole e certo più ampia dell’ala riformatrice del collegio cardinalizio. Unico candidato realmente eleggibile in grado di poter assicurare la continuità con Roncalli, il nuovo Papa riconvocò infatti il Vaticano II, sospeso secondo le norme canoniche alla morte del predecessore.
E ne decise la ripresa subito dopo l’elezione in conclave, lui che per rinnovare il volto della Chiesa con ogni probabilità mai avrebbe pensato a un concilio, preferendo piuttosto l’esercizio ordinario e responsabile dell’autorità papale. «Non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore, che mi esoneri dal mio dovere, ch’è quello di volere, di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri, anche se ciò sembra illogico e forse assurdo» scrive durante i primi esercizi spirituali un mese e mezzo più tardi, nella solitudine di Castel Gandolfo.
Di questa autorità il Papa si servì per condurre la maggiore assemblea di vescovi mai convocata verso l’“aggiornamento” desiderato da Roncalli e ormai maturo, alternando pazienti mediazioni a interventi decisi, che scontentarono le ali estreme dello schieramento conciliare, ma riuscirono a ottenere un consenso quasi plebiscitario al rinnovamento disegnato nei documenti del Vaticano II e perseguito con coraggio durante l’intero pontificato. Decisioni personali furono per esempio, prima della conclusione del concilio, l’avocazione alla responsabilità papale della decisione su due questioni dibattute come il celibato dei sacerdoti e il controllo delle nascite, oggetto poi di due encicliche controverse, l’istituzione del sinodo dei vescovi — organismo rappresentativo e consultivo dell’episcopato mondiale che di fatto, tra luci e ombre, ha favorito lo sviluppo della collegialità episcopale — e la riforma del Sant’Uffizio.
All’interiorità e alla vicenda esteriore dell’uomo e del cristiano vuole introdurre questa scelta di scritti, inevitabilmente ristretta e dalla quale restano esclusi testi anche molto importanti e personali — come l’enciclica programmatica Ecclesiam suam, interamente scritta dal Papa — che però sarebbe stato necessario presentare solo in parte. Sono dunque testi personali di Montini, tutti pubblicati nella loro integralità e nella forma originale, che si estendono con un’impressionante coerenza, anche stilistica, per oltre un sessantennio. Fino all’ultima omelia per la festa dei santi Pietro e Paolo, bilancio solenne e commovente del pontificato tracciato dal Papa ormai presago della morte alla quale, nel trascorrere inesorabile del tempo, da anni si era preparato. (g.m.v.)
Tenue lume (Paolo VI)
Nel giugno 1953, da circa sei mesi pro-segretario di Stato per gli affari ordinari, scrive una prefazione, rimasta inedita per quasi mezzo secolo, su una singolare e moderna forma di vita religiosa: quella dei Piccoli Fratelli di Gesù ispirati dall’esperienza di Charles de Foucauld.
Per comprendere queste pagine bisognerà avere qualche conoscenza della singolare figura di asceta e di mistico da cui traggono ispirazione, di Carlo de Foucauld, o, come ormai è chiamato dai suoi seguaci, Carlo di Gesù. Eremita missionario era divenuto dopo essere stato ufficiale dell’esercito coloniale francese, e dopo essersi convertito a fervore di vita cristiana, ammaestrato e affascinato dal misterioso incanto del deserto africano; poi pellegrino in Terra Santa, si fa trappista, vagante dall’Armenia a Roma, lascia l’ordine per ritornare in Palestina, e di là ripassare in Francia, donde, ordinato Sacerdote, ritorna in Africa, ormai sua patria spirituale, e vi consuma anni di poverissima vita, assistendo, nomade lui stesso, le tribù musulmane; si stabilisce poi nell’oasi di Tamanrasset, nello Hoggar, per terminare l’anelante sua carriera terrena assassinato, su la porta del suo eremitaggio, da quegli stessi ai quali aveva portato, pieno e benefico, l’umile dono della sua amicizia: questo fu il primo dicembre del 1916.
Una vita così varia e tormentata, così vagabonda e insieme così tranquilla, solitaria ed avida d’incontri spirituali, agitata da molteplici esperienze e strane avventure e resa da esse ognor più semplice e raccolta, così gradatamente spoglia di tutto e insieme progressivamente ricca di bontà e di amore, sconcertante e avvincente, spunta come un tenue lume fra le mille luci fatue del nostro secolo, e a mano a mano ch’essa si allontana nel tempo diviene un faro, e segna un cammino.
Questo cammino è ora percorso dal Padre Renato Voillaume, Priore Generale dei Piccoli Fratelli di Gesù, che esorta con questi scritti spirituali le sue umili comunità, le “fraternità”, che dallo spirito di Carlo di Gesù derivano recente origine. Nasce così un volume di spiritualità che viene ad arricchire la letteratura religiosa d’un notevolissimo contributo. Più che un trattato, più che un libro questa collezione di scritti occasionali è un documento di vita religiosa scaturita dall’esempio coraggioso e meraviglioso dell’asceta del Sahara, e sta a provare la perenne capacità della Chiesa cattolica a generare autentici seguaci di Cristo, creando stupore e gaudio per la singolarità del fenomeno religioso ch’esso descrive, suscitando inquietudine e fascino per la profondità e la semplicità spirituale ch’esso richiama, e offrendo un codice di ascesi evangelica, spinta da un lato ad espressioni primitive e genuine della tradizione monastica, innestata dall’altro nelle più elementari condizioni d’esistenza e d’attività di umili classi sociali.
L’opera tratta una quantità di questioni riguardanti la perfezione religiosa, le virtù che le sono proprie, la povertà e la carità specialmente, la santificazione alimentata dalla celebrazione delle feste liturgiche, i grandi temi dell’ascetica e della mistica, l’analisi dell’anima umana assetata d’unione con Dio, e guidata dalle lezioni evangeliche al servizio e all’amore del prossimo, all’abnegazione di sé, alla visione del mondo e della vita nel grande e lucido quadro della sapienza del Maestro divino: il lavoro e la preghiera, il silenzio e la parola, la solitudine e la socialità, il nascondimento e l’amicizia, il valore del tempo e quello dell’eternità, la libertà di spirito e l’obbedienza facile e spontanea, la conoscenza delle miserie umane e la stima dell’uomo, la tranquillità e il coraggio, l’arte di soffrire e insieme di godere, l’indipendenza dal mondo e l’ansia di salvarlo, il distacco dalle creature e la capacità di gustarne il linguaggio e la bellezza, e tanti altri temi, diversi e ricondotti ad armonia interiore, ricorrono in queste pagine e dimostrano quella larga informazione dottrinale e quella personale esperienza che danno ad un libro credito e interesse non comune.
Su tante cose potranno i dotti discutere e gli esperti commentare; non vogliamo qui dare un giudizio.
Bastino intanto a raccomandare il volume all’attenzione dei lettori italiani alcune circostanze che possono aprirgli la via ad una favorevole accoglienza. La povertà innanzitutto della maggior parte del Clero italiano: essa ha bisogno di provvidenze, di cui ora non è qui dato discorrere; ma essa è di per sé tale veste, che altra migliore non potrebbe essergli riconosciuta per qualificare ammirabile il suo quotidiano disinteresse e per disporlo all’esercizio del suo ministero nella forma più propizia a renderlo convincente e a dargli dignità e merito d’autenticità evangelica. Essa può quindi, così considerata, fare della più umile e spoglia vita ecclesiastica un esercizio di santità, che facilmente troverà nelle pagine del libro confortanti analogie, interpretazioni appropriate, esempi calzanti.
E il beneficio d’una simile esortazione alla santità attinta dalla povertà sarà anche maggiore, se un’intenzione, altrettanto moderna che urgente, di evangelizzazione del popolo s’aggiunga a quella del distacco dai beni materiali; l’intenzione cioè che apre gli occhi sullo stato d’abbandono spirituale di larghissimi strati di popolazioni sia urbane che rurali, e che spinge nei suburbi religiosamente più desolati, nei centri di lavoro e di traffico più profani, nelle campagne più remote dal campanile l’apostolo della società presente, non più imperniata sul tempio e su Dio, ma su l’utilizzazione del mondo e su l’uomo. Anche per questa avventurosa penetrazione pastorale, che fa del prete e del laico desiderosi della salvezza del prossimo degli autentici missionari, la scuola delle Fraternità di Carlo de Foucauld offre magnifiche lezioni di coraggio, di saggezza, di carità.
E mostra in esempi, che hanno il paradossale aspetto dell’eroismo abituale, come all’evangelizzazione della dottrina e della grazia debba essere previa, o concomitante l’evangelizzazione della vita di chi predica e personifica Cristo. Davanti al lettore esterefatto passano visioni lontane, troppo spesso confinate nel campo della reminiscenza e della fantasia: sono gli apostoli, mandati da Gesù, al loro primo esperimento annunciatore del regno di Dio, sine pera, sine calceamentis; sono le strane figure dei primi eremiti, esuli volontari nel deserto, precursori del futuro cenobio e del futuro villaggio cristiano; sono i fraticelli medioevali che vanno ornati di povertà e di letizia a ristorare nel mondo la speranza dell’era cristiana; sono i pellegrini ardimentosi che traversano continenti ed oceani per recare la buona novella ai lidi più lontani; e oggi sono finalmente i piccoli fratelli di Gesù, che vanno vagando ai margini delle opere già organizzate, delle città già costruite, della civiltà già stabilita, per farsi silenziosi e modesti pionieri dell’amore cristiano. Questo istinto della più umile evangelizzazione oggi è diventato ideale, e dona ai seguaci di Carlo di Gesù il loro talento religioso: escono dalle abitudini comuni per conservare la tradizione evangelica; dimettono la veste dignitosa per assumere quella della fatica misera e dura; lasciano le comunità bene organizzate in collegi impersonali per creare piccoli nuclei di amici che lavorano, pregano, vivono insieme; ripudiano ogni distinzione esteriore per assimilarsi agli umili ceti sociali, ove hanno scelto di vivere; fanno della rinuncia, dell’abbassamento, della pazienza uno strumento di predicazione silenziosa, una possibilità di amicizia e di apostolato; ma conservano soprattutto nell’intimo del cuore e nel rifugio delle poverissime abitazioni un’assidua, un’ardente pietà di contemplativi e di adoratori, e ne traggono la difesa dalla volgarità circostante, la capacità di diffondervi l’ineffabile profumo di Cristo.
Quanti sacerdoti, quanti Religiosi e Religiose quanti buoni fedeli, in un paese così povero di ricchezze economiche come l’Italia, e così ricco di patrimonio spirituale trascorrono la loro vita, e per generosa elezione e per forza di cose, in condizioni presso che analoghe a quelle che l’ardita vocazione dei piccoli Fratelli preferisce per lo sviluppo della propria spiritualità; quante anime perciò che anelano alla sequela del Maestro troveranno nelle pagine di Padre Voillaume la propria lezione di santità.
E perché ciò sia, mentre della miseria, della sofferenza, dell’abbiezione sociale si arma la negazione di Dio, il materialismo rivoluzionario, l’anticlericalismo politico, queste pagine sono offerte al pubblico cattolico italiano, come scuola come esempio di ben diversa trasfigurazione cristiana dell’umana fatica, in segno di coraggio e di speranza.
Pietro e la barca (Paolo VI)
Morto Pio XII il 9 ottobre 1958, il giorno dopo ne dà l’annuncio alla diocesi con un messaggio, e per il discorso tenuto il 12 durante l’ufficio funebre nel duomo di Milano prepara un testo poi non usato.
Ma così pregando non facciamo torto alla sua virtù, quasi fosse incompleta ed avesse bisogno della misericordia di Dio?
Che Egli fosse Uomo buono, tutti sappiamo. Aveva ricevuto doni naturali copiosissimi, custoditi in sembianze fisiche esili e deboli, ma resistenti e protette da una sobrietà e da una regolarità di vita semplice ed austera, quasi claustrale, che ben si addiceva all’innocenza e alla mitezza del suo animo; un animo fine, gentile, sensibilissimo, ma non emotivo; dotato di grandissima versatilità, pronta e inesauribile; di memoria prodigiosa, fotograficamente fedele, al servizio d’un temperamento equilibrato e sereno, e penetrato da pietà abituale e composta. Poi un’educazione sana e imbevuta di spirito romano, un po’ aristocratico e classicheggiante, ma ricco altresì di buon senso e di buon umore di popolo, e forte d’un vigilante senso del dovere, testuale e preciso, che si palesava in uno sforzo continuo di perfezione formale e morale, presente nelle piccole cose — la puntualità, la calligrafia, la purezza della lingua, il ricordo dei particolari... — e nelle grandi cose — i suoi discorsi, la sua arte diplomatica, la coscienza della sua missione, la sua visione del mondo.
Poi un’esperienza unica. Quella della vita romana, quella della fede cattolica, quella del servizio alla Santa Sede. Come, non ricordare, ad esempio, che per le sue mani, in quattordici anni d’incessante lavoro, passò tutta la legislazione della Chiesa nella formulazione di quella sintesi di secoli di letteratura giuridica, che è il Codice di Diritto Canonico? e come non ricordare che dalle sue mani uscirono non pochi di quei Concordati con gli Stati dell’Europa superstite dopo la prima guerra mondiale, che collaudano il Diritto pubblico della Chiesa ad amichevole contatto con il Diritto delle Nazioni moderne?
Poi un Pontificato unico. Voi lo conoscete. Fra i più lunghi che la storia dei Papi registri. Fra i più delicati e più duri insieme. La posizione della Chiesa è quella che tutti sanno: si regge ora per sole forze spirituali, come società religiosa, ma visibile e organizzata in questo mondo; in un mondo che generalmente e ufficialmente si dice laico, o agnostico, o addirittura ateo, cioè non considera, — per non dire: non riconosce e non tollera – quelle medesime forze spirituali di cui vive la Chiesa. Il suo equilibrio è quello d’una nave sopra un mare agitato. La barca di Pietro è investita da questa mobilità, da questa avversità dell’elemento in cui svolge il suo corso. Avete mai riflesso alla contrarietà di questi due simboli: la barca e la Pietra? Vacillante l’immagine del primo simbolo e vacillante la realtà ch’esso delinea; immobile l’immagine del secondo, come immobile la realtà che pur esso esprime; ed insieme vanno, nei secoli, Pietro e la barca a significare due opposte, ma vitalmente complementari prerogative della Chiesa, la sua relatività alla storia e alla condizione umana e la sua trascendente fermezza al disegno e alla virtù divina che reca con sé. Ebbene, questa strana sintesi assurge nel Pontificato di Pio XII a grado mai visto. Nessun Pontificato forse ha tanto subito la violenza e l’insidia delle trasformazioni del mondo; pensate alla guerra gigantesca che tutta si è svolta nel suo periodo, pensate all’evoluzione economica, scientifica, sociale e politica della vita contemporanea, che sembra scuotere ogni cardine di pensiero e di legge morale e religiosa. E nessun Pontificato forse è stato vicino alla vita umana come quello che con la morte di Pio XII ora si è chiuso. Crediamo sia questa la caratteristica saliente della sua ventennale opera apostolica: l’accostamento al mondo moderno.
È stato voce principalmente. Ricordo che nella prima Udienza che Pio XII, appena eletto Papa, concesse a S. Ecc. Mons. Tardini ed a me, che eravamo rimasti, sempre alle sue dipendenze, alla direzione degli uffici della Segreteria di Stato, ebbe a dire, quasi sgomento dell’immane dovere che Gli cadeva su le spalle: «Ora dovrò parlare; chi sa quanto parlare!». E parlò. Lo sappiamo. Ma dobbiamo notare come la Sua parola di Vicario di Cristo non solo fece eco, come doveva, alla voce della rivelazione divina, ma risuonò, continua e potente, come voce della coscienza umana. I diritti del Vangelo apparvero coincidenti con quelli dell’uomo. L’umanità ebbe in Pio XII il suo interprete, il suo araldo, in ore di confusione ostinata e di tragici errori. E spesso ancor più che Dottore, apparve l’Amico del nostro tempo. Le grandi tesi della civiltà moderna ebbero in Lui l’assertore più informato e più coerente: i temi della giustizia, della pace, del diritto e del dovere, della libertà, della persona umana, del lavoro, della democrazia, della scienza, dell’economia, dell’arte, e dite pure della medicina, dell’arte, del cinema, dello sport, e innumerevoli altri, ascoltammo trattati e pervasi da una Verità e da un Amore, che ben scopriva il credente, intuiva l’incredulo, ammiravano tutti. Egli pensò, Egli studiò, Egli conobbe, Egli sofferse, e finalmente Egli espresse questa nostra vita umana, nei suoi principii sacri e profondi, nelle sue manifestazioni più evidenti e più recondite, più comuni e più singolari. La Sua versatilità lo rese enciclopedico; amò anzi moltiplicare i suoi interventi, valendosi delle sue mirabili virtù poliglotte, nei campi più remoti e più imperVII, e sempre con tocco di competenza scientifica, e con colpo d’ala spirituale volante alle somme cause. Parlò di tutto. Parlò con tutti. Divenne suo programma: instaurare omnia in Christo; tutto bisogna ricondurre a Cristo. Oh, non nuovo programma! Pio X e Pio XI non lo ebbero pure? Ma Pio XII lo svolse in un’amplissima ed accuratissima opera oratoria, che arricchisce il patrimonio della letteratura ecclesiastica e che tramanderà nel tempo il nome di tanto Maestro.
E alla voce si unì l’opera. Questa fu naturalmente contenuta nei perimetri concreti delle limitate possibilità della Sede Apostolica, ma tale essa parimente fu, da dare al mondo il senso e la speranza, la prova spesso d’una carità dappertutto vigile ed operante. Ma oltre la misura di quest’opera, bisogna osservarne le direzioni. E prima direzione, la più evidente, la più seguita, fu quella della pace. Era la sua divisa: opus justitiae pax. Fu il suo impegno. L’arte Sua di trattare con gli uomini responsabili non cessò mai d’esplicarsi in questo senso, tanto umano e tanto cristiano. Quegli avversari, che per partito preso accusarono ed accusano il Papa d’aver favorito la guerra, dovrebbero cercare per i loro tristi scopi un’accusa più intelligente e meno clamorosamente smentita, non solo dai fatti e dall’universale testimonianza degli onesti, ma dagli stessi amici di tali avversari. Ricordo la meraviglia prodotta dalla lettera rivolta alla Santa Sede dallo scienziato Curie, nella quale egli stesso candidamente riconosceva che il Papa aveva sempre cercato di promuovere la pace fra le nazioni. E premio quasi di questa Sua azione audace e tenace di pacificazione durante la guerra più distruttrice che la storia ricordi, strappò agli uomini, o meglio ottenne dalla Provvidenza, di preservare Roma dalla rovina.
Così ogni altra direzione dell’opera Sua è rivolta a fare del cristianesimo la grande beneficenza intellettuale, morale e sociale del mondo, un’incessante manifestazione di verità, di bontà e di carità.
Ma non è possibile ora descrivere, anche in minima parte, quest’opera immensa. Ci piace accennarvi così, per ritornare al nostro dolore d’aver perduto un Uomo così buono e così grande, e ancora per chiederci perché dobbiamo pregare per Lui.
L'Osservatore Romano