lunedì 11 aprile 2016

Una makruma per il Santo Sepolcro



ROMA

«Sua maestà Abdallah II ha inviato una beneficenza reale (makruma) per provvedere - a spese personali di sua maestà - al restauro della tomba di Gesù nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme»Ad annunciarlo è l’agenzia di stampa giordana Petra che cita una lettera ufficiale inviata dalla corte hashemita al patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III. Sarà dunque un Sovrano musulmano che si fregia del titolo di discendente diretto del Profeta Maometto a sostenere le spese del restauro dell’edicola del Santo Sepolcro, il luogo della Sepoltura e della Resurrezione di Gesù a Gerusalemme, da secoli il luogo più venerato dai cristiani di tutto il mondo.  

Il restauro era stato annunciato due settimane fa - alla vigilia della Pasqua per il mondo occidentale - dalle tre confessioni cristiane che per ragioni storiche condividono la giurisdizione sulla chiesa più importante di gerusalemme: i greco-ortodossi, i latini (rappresentati dai Francescani della Custodia di Terra Santa) e gli armeni. Il restauro è necessario per via del degrado della struttura, dovuto all’alterazione progressiva delle malte creata dall’umidità causata dal respiro delle migliaia di pellegrini e dal fumo delle candele. C’è già uno studio e un progetto ben preciso per l’intervento elaborato dalla National Technical University di Atene sul quale c’è l’accordo di tutte le parti: i lavori dovrebbero durare otto mesi e concludersi all’inizio del 2017. Fino a ieri, però, si parlava di un intervento che sarebbe stato finanziato dalle tre confessioni, da contributi pubblici erogati dal governo greco e da benefattori privati.  

L’annuncio giunto da Amman cambia ora le carte in tavola ed è stato subito salutato con grande favore dal patriarca Teofilo III, che guida la più folta tra le comunità cristiane della Terra Santa. «Sua Maestà re Abdallah incarna nei fatti, e non solo a parole, la convivenza tra musulmani e cristiani in tutto il mondo e in particolare in Terra Santa», ha dichiarato ancora all’agenzia Petra commentando la donazione. «Il ruolo svolto dalla Giordania nella protezione della presenza dei cristiani in Terra Santa è chiaro e innegabile - continua il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme - Re Abdallah sta guidando gli sforzi di tutti i giordani nel seminare i semi dell’amore e della fratellanza tra musulmani e cristiani in questa era in cui guerre settarie stanno bruciando intere nazioni, come tutti possiamo vedere». 

C’è però anche un aspetto politico non indifferente nella scelta di re Abdallah. Ed è lo stesso Teofilo III a sottolinearlo, riconoscendo al sovrano hashemita il titolo di «guardiano e custode dei luoghi santi cristiani e musulmani a Gerusalemme». Per il Re di Giordania finanziare il restauro del Santo Sepolcro è anche un modo per affermare le proprie prerogative sui luoghi santi, che fino alla «Guerra dei Sei Giorni» del 1967 ricadevano sotto sovranità giordana. Luoghi santi che a Gerusalemme sono sì quelli cristiani, ma anche la moschea di al Aqsa e la «Cupola della Roccia», sulla spianata che sorge sopra al Muro del Pianto. Lo stesso trattato di pace firmato tra Israele e la Giordania negli anni Novanta a parole riconosce questo ruolo storico del regno hashemita; nei fatti però il suo esercizio pratico nella Gerusalemme che lo Stato ebraico considera come propria capitale unica e indivisibile è diventato sempre più materia incandescente nella «Città Santa».  

Ci sono dunque piani e motivazioni diverse che si intrecciano nella scelta compiuta da re Abdallah II. Da notare, infine, che nella sua dichiarazione il patriarca Teofilo III ricollega espressamente la donazione giordana al «Patto di Omar», l’accordo stipulato nell’anno 637 al momento della conquista di Gerusalemme da parte araba. In quell’occasione il califfo Omar, il secondo successore di Maometto, rispettò la basilica del Santo Sepolcro, lasciandola al culto dei cristiani anziché trasformarla in moschea. Ed è grazie a questo primo fondamentale gesto di un Califfo che l’edicola del Santo Sepolcro è potuta sopravvivere come un luogo cristiano alle mille vicissitudini che hanno attraversato la lunga storia di Gerusalemme. E ora - nel tempo in cui un sedicente califfo profana i luoghi dei cristiani in Siria e in Iraq - riaffermare il Patto di Omar vuole essere un messaggio preciso al mondo musulmano a partire dalla sua storia e identità. 

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  Karak, l’ospedale dove cristiani e islamici lavorano fianco a fianco

di Cristina Uguccioni
Medici cristiani e musulmani che lavorano in corsia, fianco a fianco, uniti nella comune dedizione all’umano ferito. Siamo in Giordania, a Karak, cittadina di 60.000 abitanti situata nella provincia più povera del Paese, a 160 chilometri a sud da Amman. Qui, dove i cristiani sono il 3% della popolazione, sorge «l’ospedale italiano», istituzione non profit fondata nel 1935 dall’ANSMI (Associazione Italiana per Soccorrere i Missionari Italiani) e gestita sin da allora dalle suore missionarie comboniane, che per sostenerne i costi fanno affidamento sulle donazioni di associazioni, parrocchie e singoli benefattori.  

La storia di questo ospedale – dove lo scorso anno sono state assistite oltre 22.000 persone – svela l’alleanza tenace, la complicità bella e operosa che si accende tra gli esseri umani quando non si rassegnano al male e si battono contro la malattia e la sofferenza. 


L’ospedale dei poveri  
«La nostra struttura fa ormai parte della storia di questa città» osserva la direttrice, suor Adele Brambilla, 65 anni, che lavora affiancata da cinque consorelle. «Ci sentiamo rispettate dalle autorità religiose musulmane, con le quali abbiamo un buon rapporto, e la popolazione si fida di noi e della professionalità del nostro staff». 

In questo ospedale lavorano stabilmente 80 persone e 8 dottori (6 musulmani e 2 cristiani), cui si aggiungono 53 medici specialisti presenti diversi giorni alla settimana in qualità di consulenti esterni: 12 cristiani e 41 di fede islamica. Uno di loro è il chirurgo musulmano Awadh Dmour, sposato e padre di sei figli, che della sua esperienza professionale in questo ospedale dice: «mi piace molto lavorare qui, sia perché sono nato in questa zona e quindi ho l’opportunità di aiutare la mia gente, sia perché questa è una realtà sanitaria di alto livello, con un’ottima reputazione, ha personale molto affiatato e offre cure di qualità garantendo assistenza a tutti, specialmente ai più bisognosi».  

Una missione comune  
Il rapporto fra gli operatori sanitari cristiani e musulmani, racconta suor Adele, è molto buono: «c’è un clima di grande rispetto e familiarità che, per esempio, ci porta a festeggiare insieme le rispettive ricorrenze religiose. Condividiamo gioie, speranze e fatiche ma, soprattutto, lavoriamo tutti con dedizione nella consapevolezza di avere una missione comune: curare ogni persona, a qualunque etnia e religione appartenga, con una attenzione speciale ai più poveri. Il principio della cura, che ha ispirato la fondazione di questo ospedale, anima ciascuno di noi». Le fa eco il dottor Adwadh, che afferma: «penso sia una cosa molto importante, vitale direi, che dottori cristiani e musulmani lavorino insieme prendendosi cura delle persone sofferenti. Fra noi vi è grande collaborazione, non si fa differenza tra chi è cristiano e chi è musulmano, né vi sono pregiudizi o barriere di sorta. Ci sosteniamo reciprocamente e facciamo un ottimo lavoro di squadra: per me questo ospedale è come una famiglia».  

I profughi siriani  
La maggior parte dei pazienti cristiani e musulmani appartiene ai ceti medio-bassi ma ci sono anche persone molto povere che non possono accedere al nosocomio governativo presente in città. E poi ci sono i profughi. Nel corso dei decenni l’ospedale ha accolto dapprima quelli palestinesi, in seguito gli iracheni. Negli ultimi tempi, in collaborazione con la Caritas giordana e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), viene offerta assistenza sanitaria ai profughi siriani. Molti giungono in questa regione per cercare di ricostruirsi una vita dopo aver abbandonato i campi allestiti nel nord della Giordania: «sono famiglie che hanno perso tutto, sono molto povere e cercano lavoro», dice suor Adele. «Spesso decidono di vivere insieme, in condizioni di grande disagio: anche 15 persone in appartamenti di tre locali. Molti altri profughi cristiani e musulmani arrivano invece direttamente dalla Siria, dopo viaggi massacranti: e sono stremati. Un giorno giunse qui una donna al nono mese di gravidanza: era scappata da Homs, dove abitava, e aveva raggiunto Aleppo, poi era fuggita in un’altra città siriana e da lì aveva attraversato il confine per arrivare sino a Karak. Quando la ricoverammo era sfinita. Le chiesi perché avesse affrontato quel viaggio terribile nelle sue condizioni e lei mi rispose con semplicità: “perché mio figlio potesse venire alla luce in un posto sicuro”».  

Le conseguenze della guerra  
Alle molte malattie si aggiungono le ferite dell’anima: «nei loro occhi si leggono tutto l’orrore e il dolore che hanno vissuto», prosegue suor Adele. «I bambini, in particolare, sono sotto shock: ricordo ancora una piccola che per lo spavento aveva perso di colpo tutti i capelli. A prostrare e avvilire profondamente gli adulti è soprattutto lo stato di precarietà e di incertezza nel quale sono costretti a vivere: non sanno cosa sarà di loro, né se potranno mai fare ritorno nella loro terra».  

Il dottor Awadh aggiunge: «la loro situazione suscita in me grande compassione; come medico sono molto preoccupato della loro salute perché fanno fatica ad accedere all’assistenza medica che in Giordania, per chi non ha l’assicurazione, è a pagamento: sovente, quando sono ammalati, si rivolgono alle Ong locali per coprire le spese, ma non tutte le loro necessità trovano risposte immediate. Molto spesso devono aspettare a lungo. Questo è il motivo per cui noi, qui, facciamo tutto il possibile per aiutarli, soprattutto per le emergenze che non trovano risposta altrove».
Vatican Insider