lunedì 25 marzo 2013

I martiri della carità



(Ugo Sartorio) Uno dei nomi che a ragione è stato attribuito al XX secolo è quello di “secolo dei martiri”, e uno dei luoghi più segnati dal filo rosso del martirio è certamente l’America latina. Perché? Forse perché in Sud America la recezione del concilio Vaticano II ha trovato una particolare fecondità nella coniugazione concreta di Vangelo e mondo dei poveri, sulla scorta del dettato profetico di Lumen gentium n. 8b: «Come Cristo è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito” (Luca, 4, 18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Luca, 19, 10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo». È avvenuto, infatti, che nelle grandi assemblee ecclesiali di Medellín (1968) e Puebla (1979) si sia rimarcato come l’evangelizare pauperibus (cfr. Luca, 4, 18) richieda anche un lasciarsi evangelizzare dai poveri, poiché mentre si attiva la cosiddetta «opzione preferenziale per i poveri» è anche necessario mettersi in ascolto di un Dio che ha scelto di amare tutti ma a partire dagli ultimi, dai derelitti, dalle vittime. Da meri destinatari di un annuncio, i poveri diventano così soggetti in grado di convertire al Dio della vita e della grazia, per cui la conversione ai poveri, ai fratelli sofferenti, replica lo stile di Dio e diventa Vangelo in atto.
Tutto questo, naturalmente, può essere rischioso, poiché porta la Chiesa dentro situazioni che in parte sembrano esulare dal suo diretto ministero, spingendola ad agire contro ingiustizie sociali anche strutturali che spesso stanno in piedi in riferimento a sistemi politici deformati e corrotti. Accade così che in America latina siano dei cristiani (o uomini che si proclamano tali) a uccidere altri cristiani (vescovi, sacerdoti, religiosi, operatori pastorali, laici) che rivendicano i diritti dei poveri e chiedono giustizia in nome del Vangelo.
Secondo il vescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, ucciso il 24 marzo 1980 mentre stava celebrando l’Eucaristia, «la maggior dimostrazione della fede in un Dio della vita è la testimonianza di colui che è disposto a dare la sua vita. Molti salvadoregni e molti cristiani sono disposti a dare la loro vita perché i poveri abbiano la vita. La Chiesa ha scoperto il luogo più originario della conversione rivolgendo la sua anima verso i più umili, i più poveri, i più deboli». È sua l’espressione — che riprende e rimodula il motto di sant'Ireneo Gloria Dei, vivens homo — che suona: Gloria Dei, vivens pauper, «La gloria di Dio è il povero che vive in pienezza». In fondo fra Miguel e fra Zbigniew non desideravano altro che servire Cristo nei poveri, a partire dalla propria fede cristiana arricchita dalla sensibilità che l’ispirazione francescana accende verso i “lebbrosi”, cioè gli esclusi di ogni contesto sociale.
Ma se l’atto violento e mortale del carnefice non viene inferto in odium fidei, nel senso che non si provoca il cristiano a rinnegare la sua fede e a proclamare con fierezza — come avveniva nei primi secoli — christianus sum, «sono cristiano!», bensì perché lo si ritiene troppo implicato nella causa dei poveri e nel processo della loro liberazione, che ne è della palma del martirio? Affrontando la medesima questione, san Tommaso risponde che «il bene umano può divenire bene divino se lo si riferisce a Dio; per questo qualsiasi bene umano può essere causa di martirio, in quanto riferito a Dio». Paradossalmente, nemmeno Gesù è morto in odium fidei, quanto piuttosto «in nome della fede», ancora più chiaramente a causa del rifiuto radicale, soprattutto da parte del potere costituito, del volto di Dio da lui pienamente rivelato. E il testo di Lumen gentium n. 42b (il passo conciliare più sviluppato sul tema del martirio) non parla né di odium fidei né di professione di fede, quanto piuttosto di «insigne e suprema prova di carità» che si realizza nel dono totale di sé. Insomma, si sottolinea più l’amore che la fede, per cui il martire è innanzitutto testimone di carità, e si dà spazio al martirio a causa della giustizia, intesa questa come livello minimo dell’amore. «D’altra parte — scriveva il teologo Karl Rahner già trent'anni fa in un fascicolo della rivista “Concilium” (n. 3/1983) dove si tematizzava per la prima volta un allargamento del concetto classico di martirio — i persecutori dei nostri giorni non offriranno certo ai cristiani la possibilità di testimoniare la fede nel vecchio stile dei primi secoli, né condanneranno a morte con sentenze di tribunale. Eppure anche la morte subita in forme più anonime può essere prevista e accettata, nelle odierne persecuzioni, come la previdero e accettarono i martiri di vecchio stile».
Proprio un martire francescano conventuale, morto sopra uno dei Golgota del XX secolo, nel campo di concentramento di Auschwitz dove offrì la sua vita per salvare quella di un padre di famiglia, ha portato la teologia del martirio a compiere uno dei passi più decisivi: se infatti il 17 ottobre 1971 Paolo VI beatificò padre Kolbe come confessore, il 10 ottobre 1982 Giovanni Paolo II canonizzò il suo connazionale come martire. Durante la messa di canonizzazione, nell’omelia, il Papa polacco ebbe a dire: «In virtù della mia apostolica autorità ho decretato che Massimiliano Kolbe, il quale a seguito della beatificazione era venerato come confessore, venga d’ora in poi anche venerato come martire». Non è mancato, allora, chi abbia espresso meraviglia per questa scelta innovativa, anche se ormai la via nuova era stata per sempre tracciata.
Ma chiediamoci, ora, qual è il motivo per cui fra Miguel e fra Zbigniew sono stati uccisi? Nel dialogo fra i terroristi e i due frati, avvenuto su una camioneta dove c’era un commando politico-ideologico-esecutivo, un testimone coglie con chiarezza le seguenti espressioni: «Ingannano il popolo perché distribuiscono alimenti della Caritas, che è imperialismo. Predicano la pace e così addormentano la gente. Non vogliono né la violenza né la rivoluzione. La pace disonora la gente. Bisogna uccidere quelli che predicano la pace. Con la religione addormentano il popolo. La religione è l’oppio del popolo. La Bibbia è un modo per addormentare il popolo, ingannarlo e dominarlo». Concetti veteromarxisti (siamo nel 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino) riespressi in forma rozza, che esaltano la rivoluzione armata e additano la religione come oppio dei popoli. Forse i commandos di Sendero Luminoso — gruppo terrorista di matrice maoista, guidato da Abimael Guzmán — sono così accecati dall’ideologia e dall’ignoranza che nemmeno riescono a immaginare la forza liberatrice della Parola di Dio e la grande efficacia della “pace” francescana, di quell’essere sottomessi a ogni creatura che crea nuove e più autentiche relazioni.
Non va dimenticato un aspetto che nel contesto latino-americano segna in modo del tutto particolare la realtà del martirio. Il fatto, cioè, che il martirio è come la punta dell’iceberg di una violenza collettiva, che riguarda nel suo insieme il popolo oppresso.
Nel 1978, in un testo scritto in preparazione a Puebla, Ignacio Ellacuría (teologo e filosofo gesuita trucidato con altri cinque confratelli e due donne — madre e figlia — da uno squadrone della morte, il 16 novembre 1989, nell’Universidad Centroamericana) forgia e consacra l’espressione pueblo crucificado, popolo crocifisso, con la quale si intende il popolo come vittima del peccato del mondo e contemporaneamente come soggetto di riscatto. Precisamente, l’espressione si riferisce ai molti, troppi, che subiscono la morte lenta della povertà e della mancanza di diritti, oppure la morte accelerata dei massacri e delle rappresaglie. Si tratta di un martirio anonimo, di martiri “innocenti” la cui memoria va sciolta dall’oblio. Puntualizza Ellacuría: «Questo popolo crocifisso è la continuazione storica del Servo del Signore che il peccato del mondo continua a privare di ogni caratteristica umana, che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, a cui tolgono la vita, soprattutto la vita». L'Osservatore Romano, 26 marzo 2013.