mercoledì 20 marzo 2013

Il cristianesimo è una cosa seria



Uno dei difetti di un certo stile di vita cristiana di oggi è la mancanza di serietà. E’ diffuso un modo di fare, di pensare, di giudicare e di comportarsi che ha sempre bisogno di risolversi nella battuta, nel ridere, nello scherzo. Niente vien preso sul serio, su tutto si deve ironizzare. Piacciono i caratteri sempre allegri, chiacchieroni, di buon umore, che minimizzano il male e le disgrazie, personaggi per i quali, a quanto pare, va bene tutto e vanno bene tutti, alieni, così almeno sembra, dalle contrapposizioni nette ed assolute – che essi chiamano con disprezzo “dualismo” -, dal voler distinguere con chiarezza il vero dal falso o il bene dal male, perché a loro, così sembra, va bene sia il vero che il falso, sia il bene che il male, perché tutto è vero, tutto è bene, dipende solo dal punto di vista e bisogna rispettare le idee di tutti.
Si deve quindi evitare di condannare, in nome del rispetto del diverso e semmai si deve giudicare negativamente chi invece tenta o si sente in dovere di confutare errori e condannare cattivi comportamenti. Con ciò si pensa di essere aperti, di larghe vedute, ecumenici, tolleranti, comprensivi, misericordiosi, simpatici, dialoganti, uomini sereni, di pace e di concordia. Si è convinti che sia questo il vero cristianesimo, moderno e aggiornato, quel cristianesimo che non si oppone al mondo ma dialoga col mondo, quel cristianesimo per il quale Chiesa e mondo, ragione e fede, virtù umane e virtù cristiane sono in fondo la stessa cosa.
Tutto ciò nasconde la convinzione che nel cristianesimo non c’è alcun elemento di tragicità, di scontro frontale, non c’è alcun nemico da battere, non si dà, non si deve dare netta e decisa opposizione al falso e al male, perché in fondo tutto è relativo, è solo questione di punti vista e ciò vuol dire appunto rispettare la libertà di tutti.
Chi condanna senza appello in nome di princìpi assoluti, rigidi ed astratti e si oppone nettamente, manca di modestia e di duttilità, vuol farla cader dall’alto, è poco intelligente, è un “integrista”, un “fondamentalista” presuntuoso, un attaccabrighe, un musone, uno che manca di carità e di comunicativa,  chiuso nelle sue idee, non sa scherzare, è un antipatico, uno che vuol imporre agli altri il proprio punto di vista, un uomo che mette discordia e costituisce disturbo per la serena convivenza sociale ed ecclesiale.
E’ anche un arretrato, perché è fermo ad una mentalità arcigna ed inquisitoriale, oggi superata dal Concilio Vaticano II, che ha abbandonato la serietà farisaica e l’atteggiamento del giustiziere per dirci che tutti gli uomini sono di buona volontà, tendono a Dio, sono confermati in grazia, sono perdonati, Cristo si è incarnato in ogni uomo, e quindi sono salvi e si salveranno. Dunque gioia ed allegria, anche perché non c’è tanto da attendere una vita dopo la morte, ma il cristiano è già felice  nella vita presente.
Se questi buontemponi si adirano e anche ferocemente, lo fanno proprio contro coloro che invece fanno presente, magari con tutto rispetto, che in realtà il cristianesimo è una cosa seria, serissima, che coinvolge il destino eterno dell’uomo, il quale può sì essere di eterna felicità, ma anche di eterna dannazione. Costoro, ossia i buoni cattolici, ricordano che esiste un bene assoluto ed infinito al quale si oppone nettamente il male e un male certo ed oggettivo, che non va minimizzato, ma è ben definito e descritto dall’etica cristiana.
Che accade invece ai buontemponi? Che essi affettano tolleranza e comprensione per tutto e per tutti, senonchè poi in pratica anch’essi – e ciò è necessariamente insito nella condotta umana -, non possono fare a meno di avere anche loro un concetto del male, per cui, privi come sono di un criterio oggettivo e sicuro, fondato sulla ragione e sulla fede, per giudicarlo, finiscono con l’avere un concetto del tutto irrazionale e ingiusto, che li spinge alla violenza ed al sopruso, sicchè tutta la loro tolleranza e bonomia rivelano il loro vero volto nascosto: si volgono in una crudele, inesorabile  ed ostinata persecuzione contro i loro nemici, che in fin dai conti non sono altro che i veri cristiani, i quali ricordano le esigenze della serietà della vita cristiana.
Dobbiamo tuttavia riconoscere che nell’etica cristiana ufficiale e dogmatica[1] sembrano mancare il concetto e il termine corrispondente a “serietà”, che troviamo invece piuttosto nell’etica profana e laica. Ma non è così: se manca forse il termine, non manca il concetto, che risulta dal confluire di fattori diversi, oggi per lo più dimenticati nelle allegre brigate dei cattolici gaudenti[2]. Infatti la “serietà” della quale parlo, il lettore lo avrà già capito, non ha  nulla a che fare con non so quale altezzosa tetraggine o cupa musoneria, che sa più di giansenismo che di cattolicesimo e che nasconde effettivamente l’orgoglio perfezionistico, la durezza di cuore e la mancanza di misericordia. Paradossalmente, queste cose si trovano proprio nei buontemponi quando sono contraddetti o svergognati dai veri cattolici, perché allora questi buontemponi vanno su tutte le furie e digrignano i denti, mostrando tutta la loro ipocrisia.
Il concetto di “serietà” del quale parlo lo si può ricavare dal linguaggio corrente, come per esempio quando diciamo “prendere sul serio”, “fare o parlare seriamente”, “questo è un amore serio o un affare serio”. Non mi riferisco invece all’attributo di “serio” come quando diciamo per esempio: “perché sei così serio?” o “è sempre serio”. Qui evidentemente non ci riferiamo ad una virtù.
Se ci chiediamo quale può essere il fondamento biblico della serietà morale come virtù, dobbiamo riconoscere che effettivamente non esiste in ebraico un termine esattamente corrispondente. Probabilmente quello più vicino  è quello del “timorato di Dio”, l’ebraico chassìd, che corrisponde al pius della religiosità romana, che è passato nella religione cattolica.
Gesù, è vero, nei Vangeli non parla mai di “serietà”. E così nella stessa cultura romana e quindi in latino non esiste come categoria etica  la serietas. C’è però l’aggettivo serius, che significa “grave”, “importante”. Da qui il latino tardo serietas, da cui l’italiano “serietà”. Lo si potrebbe quindi accostare addirittura alla nozione ebraica biblica fondamentale del “santo”, il qadòsh, che implica appunto un qualcosa di “pesante” come diremmo oggi, “una personalità di peso, importante”. Serio, quindi, in fin dei conti, designa uno speciale concetto molto importante, come già troviamo del resto nella coscienza morale secolare moderna.
La “serietà” della quale parlo risulta infatti dai seguenti fattori: 1. fede ferma e precisa; 2. senso di responsabilità; 3. sapienza e prudenza morali; 4. rispetto per il sacro; 5. timor di Dio; 6. sincero amore per il prossimo; 6. capacità di distinguere l’assoluto dal relativo. La cosa si potrebbe riassumere col proverbio: “scherza con i fanti e lascia stare i santi”.
La serietà quindi in fin dei conti appare legata alla santità ed alla perfezione cristiana. Certamente essa continua a contrapporsi alla scherzosità, quella virtù che Aristotele chiamava “eutrapelìa”, che è la capacità di rendersi piacevoli e simpatici agli altri. Oggi in un certo cattolicesimo corrente, diffuso soprattutto tra i giovani, l’eutrapelìa sembra essere assurta al grado di virtù massima del cristiano, per un’esagerata valutazione dell’esortazione paolina: “siate sempre lieti”, dimenticando il saggio detto risus abundat in ore stultorum.
E invece, se guardiamo alla vita dei santi, vediamo come essi sanno alternare sapientemente il momento della serietà, o anche del lutto, a quello dello scherzo e dell’ironia. E’ questa la vera  serietà cristiana, la vera sapienza, non una maschera arcigna, sussiegosa e cupa della rigidezza farisaica, ma una serietà tutta animata da dolcezza, semplicità ed umiltà, – pensiamo a S.Filippo Neri – la vera carità, della quale abbiamo tanto bisogno, perché oggi come oggi, l’esagerata stima per l’allegria e il ridere sottende un fondo di secolarismo, di superbia, di vuoto, e alla fine di disperazione, come il famoso disgraziato disilluso che beve per dimenticare.
Non si risolve nulla a ballare mentre la nave sta affondando. Leopardi invidiava gli animali perché non si rendono conto del dramma dell’esistenza. Ma non è questa la vera saggezza e in fondo Leopardi, che non era uno stupido, lo sapeva.
Esiste bensì una falsa serietà, alla quale ho accennato, che nasce dalla superbia e dall’illusoria convinzione di salvarsi comunque,quando addirittura non si è convinti, con la scusa della vita di grazia, di identificarsi con Dio. Ma anche queste persone, che spesso sono intelligenti ed anche geniali, sanno benissimo nel loro intimo del vuoto e del nichilismo delle loro idee e per questo finiscono col raggiungere lo spirito disperatamente godereccio degli sciocchi buontemponi, che vedono Dio non in un astratto Assoluto, ma nel piacere di un buon pranzo, i quali viceversa vedono in quegli spiriti gnostici e spavaldi una specie di autorevole conferma al loro spirito mondano e alla fine disperato, al di là di un’“allegria” che serve solo a coprire il loro tormento interiore.
C’è un Autore protestante, ma vicino a noi cattolici e addirittura a S.Tommaso, il Kierkegaard[3], che conoscono anche i ragazzi del liceo, il quale dice cose estremamente sagge e vere su questa tematica della sciocca ed empia ironia, quando parla dei famosi tre stadi della vita: quello “estetico”, appunto della sciocca ironia, dal quale si sale a quello “etico”, che non è ancora la perfezione, perché è la rigidezza  orgogliosa e farisaica – la falsa serietà – e infine il terzo stadio, quello del “cavaliere della fede”, il quale è il vero cristiano, la cui gioia non è quella sboccata e chiassosa dei cristiani da strapazzo, mondani ed incoscienti, ma è quella intima ed ineffabile del sacrificio di Abramo, che si affida totalmente a Dio nel “salto della fede”, al di là dell’angoscia e della tragedia, perdonato dalla colpa, a un Dio che pare troppo esigente, ma in realtà è il Dio della misericordia, che ci rende padri di molte generazioni. La vita cristiana è una cosa seria, serissima, ma proprio per questo sorgente inesauribile della vera allegria e dell’eterna beatitudine, quella “acqua, come dice Cristo, che zampilla fino alla vita eterna”. (p. Giovanni Cavalcoli O.P.)                                                             

[1] Se prendete un manuale di teologia morale tradizionale o scolastico, difficilmente fra le virtù cristiane troverete la “serietà”. Semmai la potrete trovare in  un qualche trattato di ascetica o di spiritualità. Ma questo fatto sembra denotare che la serietà non è presa in considerazione dai moralisti accademici. Nello stesso S.Tommaso non esiste la virtù della “serietà”, anche se poi di fatto, come ho detto, risulta dal confluire di altre virtù.
[2] Questa serietà si è perduta anche in molti studentati o noviziati degli istituti religiosi, che si vantano di essere “moderni”, simili a semplici collegi o gruppi universitari, dove la qualità principale che i formatori sembrano chiedere ai giovani candidati, non è tanto l’amore per la sana dottrina, lo spirito di penitenza o la capacità di raccoglimento nella preghiera e nella adorazione, ma quella di ridere e scherzare in chiassosa compagnia – le cosiddette “ricreazioni”. Si vede poi qual è il risultato, dopo pochi anni, di questa “formazione” per cui il soggetto o lascia l’istituto o seguita a  passare le giornate a vivacchiare scrupolosamente in conformità con i costumi del mondo che egli identifica con quelli della Chiesa. La santità poi non gli interessa per niente, l’importante è sbarcare il lunario alla meno peggio preoccupato soprattutto che il mondo non parli male di lui e che non gli dia noie. Il risultato di questa “formazione” è  il prodursi di soggetti privi di carattere, sottoposti ad ogni vento di dottrina ed incapaci di resistere alla prova.
[3] Vedi gli importanti studi di Cornelio Fabro