mercoledì 27 marzo 2013

Da non credere: Papa Francesco è "un grande peccatore"!


Appena eletto il cardinale Jorge Mario Bergoglio avrebbe detto agli altri cardinali: “Sono un grande peccatore, confidando nella misericordia e nella pazienza di Dio, nella sofferenza, accetto”.
L'episodio è stato raccontato dal cardinale Angelo Comastri.
Ieri mattina è stata pubblicata la traduzione italiana del libro dell'ex Arcivescovo di Buenos Aires dal titolo: "Umiltà, la strada verdo Dio".
Ancora questa mattina, salutando i dipendenti vaticani, Papa Francesco ha pronunciato queste parole:
 
"Voglio ringraziarvi per questo e chiedervi di pregare per me: ne ho bisogno perché io sono anche un peccatore, come tutti. E voglio essere fedele al Signore. Pregate per me. Vi auguro Buona Pasqua. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca, come Mamma buona. Grazie tante!“.



Che anche il Papa sia, come tutti, un peccatore lo supponiamo, ma che addirittura Lui tenga a ricordarlo così spesso, questo forse sorprende la sensibilità media del "cattolico adulto". Eppure, come insegna la grande Tradizione della Chiesa, è proprio così: chi riconosce i propri peccati è più grande di chi risuscita i morti. Pregheremo per Te, Papa Francesco. E grazie per averci ricordato quanto è importante l'umiltà.


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Vedi utilmente in questo blog anche il post seguente:
03 Lug 2011
Riporto due testi del padre Cantalamessa a proposito del Vangelo di oggi 3 luglio, XIV Domenica del Tempo ordinario. Il primo è una predica che è stata tenuta in Casa pontificia durante la Quaresima del 2007; il secondo è ...

Di seguito propongo un testo del padre Cantalamessa la cui lettura può tornare utile per prepararci spiritualmente ad entrare nel Triduo di questa Pasqua 2013.

DALL'UOMO VECCHIO ALL'UOMO NUOVO
Padre Raniero Cantalamessa

Se si confrontano i testi del Nuovo Testamento sul deporre l'uomo vecchio e sul rivestire il nuovo, si nota una singolare oscillazione. Una volta l'Apostolo dice: "Dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera" (Ef 4,22-24). In questo testo, deporre l'uomo vecchio e rivestire l'uomo nuovo è un imperativo, qualcosa che sta davanti a noi e che bisogna realizzare nella vita. Se ora passiamo a un altro testo dell'Apostolo, notiamo che tutto ciò è presentato, invece, come qualcosa che è già avvenuto e che è dietro di noi: "Vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore" (Col 3,9- 10).

La stessa oscillazione si ripete quando si tratta di "rivestirsi di Cristo". A volte esso è un comando, una cosa da fare: "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo!" (Rm 13,14); altre volte esso è presentato come una cosa già avvenuta nel battesimo: "Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo" (Gai 3,27).

Cosa vuole dire l'esistenza di questa duplice serie di espressioni? La Parola di Dio è forse in contraddizione con se stessa? Al contrario, proprio questo fatto contiene l'insegnamento fondamentale intorno al nostro tema. Ci dice che il passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo è, nello stesso tempo, opera nostra e opera di Dio, opera da compiere e opera già compiuta.

Prima che una decisione, o un programma ascetico, la realizzazione dell'uomo nuovo è un grandioso avvenimento accaduto nella storia e il cui effetto ci ha raggiunto, singolarmente, nel battesimo. Prima che essere opera nostra, è stata opera di Dio. Essa coincide, infatti, con il passaggio dalla vecchia alla nuova alleanza, dalla lettera allo Spirito, dalla legge alla grazia. Noi dobbiamo scoprire cosa siamo diventati nel battesimo, per sapere cosa dobbiamo fare nella vita. Il nostro dovere scaturisce dal nostro essere: "Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25).

Il Rinnovamento nello Spirito trova proprio qui la sua maggiore novità e utilità, cioè nell'aiutare i credenti a riscoprire ciò che sono, la realtà divina che recano in sé, per poter compiere più facilmente ciò che il Vangelo chiede ad essi, e compierlo non più per obbligo, ma per gratitudine, non per timore ma per amore.

Questo mio discorso si indirizza in modo speciale ai giovani, anche se, vedremo, tocca, nella sostanza, ognuno di noi. Il nostro incontro qui a Rimini - nell'anno mondiale della gioventù e all'indomani dell'appassionato appello rivolto dal Sommo Pontefice ai giovani, nella Domenica delle Palme - deve servire a svelare quale potenziale di luce, di novità, di speranza, il Rinnovamento nello Spirito racchiude per i giovani d'oggi; quali traguardi spirituali esso può additare ai loro cuori generosi. Non, certo, il Rinnovamento nello Spirito in se stesso, come insieme di persone, ma piuttosto lo Spirito Santo che il Rinnovamento vuole aiutare a fare riscoprire.

Il Rinnovamento non si pone, in ciò, in alternativa né, tanto meno, in opposizione o in competizione con altre forze ecclesiali che pure si rivolgono ai giovani. Il suo compito non è quello di tracciare ai giovani dei programmi sui modi di vivere la loro fede e di tradurla in scelte operative sul piano culturale e politico, ma è quello di indicare dove trovare la forza per realizzare tutti i programmi, e cioè nello Spirito Santo. Il suo contributo è dunque umile, in un certo senso il più umile che ci sia, perché non ha nulla di proprio da offrire, nulla che sia frutto di proprio discernimento, o invenzione, o programmazione. Quello che propone è di tutti i cristiani allo stesso modo; tutti lo posseggono. E' il dato cristiano originario, prima delle sue diverse storicizzazioni e diversificazioni contingenti. Per questo, esso è "utile a tutto", come si dice della pietà (cfr. 1 Tiri 4,8). Non è neppure un movimento, nello stesso senso degli altri; non ha infatti né fondatoti né teorici. Non dovrebbe averne. Il Rinnovamento perciò stima ed è grato ai fratelli di fede che si assumono il peso non facile di fare il passo successivo, additando modelli operativi per tradurre la fede nelle diverse situazioni della vita.

L'apostolo S. Giovanni, nella prima lettera, dice: "Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno" (1 Gv 2,14). lo oso fare mie queste parole e dire: Parlo a voi, giovani, per aiutarvi a prendere coscienza che siete forti, che "quello che è in voi è più forte di quello che è nel mondo" (cfr. 1 Gv 4,4) e per esortarvi a essere sempre più forti; per ricordarvi che siete uomini nuovi e per esortarvi a divenirlo sempre di più.

Divido il mio insegnamento, in accordo con le premesse fatte sopra, in due parti. Nella prima tratterò del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo in quanto opera di Dio già compiuta; nella seconda, del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo in quanto opera nostra, da compiere sempre di nuovo.

I. DALL'UOMO VECCHIO ALL'UOMO NUOVO: UN PASSAGGIO COMPIUTO

Il tema del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo, o - ciò che è lo stesso - dal vivere secondo la carne al vivere secondo lo Spirito, è svolto da S. Paolo soprattutto nel testo di Rm 8,1-13. Esso comincia così: "Non c'è più dunque nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte". Tutto il discorso sullo Spirito è svolto qui in contrappunto al discorso sulla legge. Anzi, lo Spirito stesso è definito legge: "la legge dello Spirito" significa infatti "la legge che è lo Spirito".

Questo ci appare sorprendente, perché se ci sono due cose che, secondo l'opinione comune, si escludono a vicenda, queste sono proprio lo spirito e la legge e se si parla talvolta di uno l'spirito della legge", mai si parla però di una 1egge dello spirito". Non è così per la Bibbia e per convincercene basta che risaliamo all'avvenimento dello Spirito, che è la Pentecoste.

Nell'Antico Testamento sono esistite due interpretazioni fondamentali della festa di Pentecoste. All'inizio, la Pentecoste era "la festa delle sette settimane" (cfr. Tb 2, 1 ), la festa del raccolto" (cfr. Nm 28,26ss), quando si offriva a Dio la primizia del grano (cfr. Es 23,16; Di 16,9). Ma successivamente, al tempo di Gesù, la festa si era arricchita di un nuovo significato. Era la festa del conferimento della legge sul Sinai e dell'alleanza; la festa che commemorava, insomma, gli eventi narrati in Esodo 19-20. Secondo calcoli interni alla Bibbia, la legge infatti fu data sul Sinai cinquanta giorni dopo la celebrazione della Pasqua e l'uscita dall'Egitto. Sul Sinai Dio diede a Mosè la legge, il decalogo, stabilendo, sulla base di essa, un'alleanza con il popolo e facendo di esso "un regno di sacerdoti e una gente santa" (cfr. Es 19,4-6). Sembra che Luca, negli Atti, abbia volutamente descritto la venuta dello Spirito Santo sugli Apostoli con i tratti che contrassegnarono la teofania del Sinai.

Cosa ci dice, della nostra Pentecoste, questo accostamento? Che significa, in altre parole, il fatto che lo Spirito Santo scende sulla Chiesa proprio nel giorno in cui in Israele si ricordava il dono della legge e dell'alleanza? A questo punto la risposta è chiara: è per indicare che egli, lo Spirito Santo, è la legge nuova, la legge spirituale, che suggella la nuova ed eterna alleanza e che consacra il nuovo popolo regale e sacerdotale che è la Chiesa. Che rivelazione grandiosa sul senso della Pentecoste e sullo stesso Spirito Santo! Di colpo, si illuminano le profezie di Geremia e di Ezechiele sulla nuova alleanza: "Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa d'Israele dopo quei giorni, dice il Signore: "Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore", (Ger 31,33). Non più dunque su tavole di pietra, ma sui cuori; non più una legge esterna, ma una legge interiore. Ezechiele precisa in che consiste questa legge interiore: "Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo... Porrò il mio Spirito dentro di voi" (Ez 36,26ss). La nuova legge è lo "spirito nuovo", lo Spirito Santo.

S. Paolo allude chiaramente alla realizzazione di queste profezie, quando chiama la comunità della nuova alleanza una "lettera di Cristo, composta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori" (cfr. 2 Cor 3,3).

La legge e la grazia

La grande differenza tra le due leggi, dice l'Apostolo, è che la legge nuova dà la vita, mentre la legge vecchia no: "La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8,2). La legge mosaica - e, con essa, ogni legge positiva - essendo una nonna esteriore all'uomo, non modifica la sua situazione interiore; non toglie il peccato, ma lo rivela; non dà la vita, ma mette solo in luce il suo stato di morte.

Il motivo di ciò è il seguente. Il peccato, a cominciare da quello di Adamo, è consistito nell'aver voluto essere come Dio, nell'aver desiderato e pensato di poter esistere senza di lui. Non è il peccato che deriva dalla trasgressione della legge, ma è la trasgressione della legge che deriva dal peccato. Il peccato originale si situa prima della stessa trasgressione del precetto divino; è nell'essersi disamorati di Dio e nell'essersi messi interiormente in contrasto con lui. La disobbedienza alla legge di non mangiare dall'albero è la manifestazione e l'effetto di questo contrasto interiore, come, fino a quel momento, l'osservanza della stessa legge era stata l'effetto, non la causa, dell'interiore amicizia con Dio. La vita e la morte vengono prima della legge; si tratta di qualcosa che avviene nel profondo del cuore umano e di cui la legge, in un caso come nell'altro, cioè sia nell'osservanza come nella trasgressione, non è che la manifestazione.

Ecco perché il peccato di fondo che è l'egoismo, l'amore di sé contro Dio, non può essere tolto dalla legge, ma solo se verrà ristabilito quello stato di amicizia che c'era all'origine e che il serpente, per invidia, ha indotto l'uomo a distruggere. Ed è proprio questo ciò che è avvenuto con la redenzione operata da Cristo: "Ciò che era impossibile alla legge... Dio lo ha reso possibile, mandando il proprio Figlio" (Rm 8,3). Gesù, infatti, grazie alla sua morte e risurrezione, a Pentecoste e, singolarmente, nel battesimo, ci ha donato il suo Spirito che è lo stesso Spirito Santo che possedeva lui. Lo Spirito, venendo nell'uomo, cambia il suo Stato interiore. Finché l'uomo vuole essere come Dio e vive in regime di peccato, Dio gli appare inevitabilmente come l'avversario, come l'ostacolo. C'è tra lui e Dio una sorda inimicizia che la legge non fa che mettere in evidenza. L'uomo egoista "concupisce", vuole determinate cose e Dio è colui che, attraverso i suoi comandamenti, gli sbarra la strada, opponendosi a tali desideri con i suoi "Tu devi...
Tu non devi!". "I desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perhé non si sottomettono alla sua legge " (Rm 8,7).

Nella grazia, Dio cessa di essere l'altro, l'ostacolo. Non perché l'uomo cambia la sua tendenza innata (non per le opere!), ma perché Dio viene verso di lui e annulla, di sua iniziativa, grazie al sangue di Cristo, l'inimicizia. Ecco allora la novità recata dallo Spirito a Pentecoste: mentre prima l'uomo portava conficcato nel fondo del cuore un sordo rancore contro Dio, ora lo Spirito Santo viene in lui da parte di Dio, suscita in lui un altro uomo che ama Dio e fa volentieri le cose che egli gli comanda. Lo Spirito infatti gli attesta che Dio gli è favorevole, che è suo alleato, non nemico; gli mette sotto gli occhi tutto ciò che Dio Padre è stato capace di fare per lui in Cristo; come non abbia risparmiato per lui il proprio Figlio. Conquista, insomma, il suo cuore, sicché faccia volentieri ciò che egli gli comanda.

Dio, del resto, non si limita più a comandargli di fare o di non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che gli comanda. La legge, che è lo Spirito, è dunque ben più che una indicazione di volontà; è un'azione, un principio vivo e attivo. La legge nuova è la vita nuova. Per questo molto più spesso che legge nuova è detta semplicemente grazia: "Non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia" (Rm 6,14; cfr. Gv 1, 17). Se Gesù definisce la sua legge, in confronto a quella mosaica, "un giogo dolce e un peso leggero" (cfr. Mt 11,30), non è perché essa è meno esigente di quella mosaica (lo è incomparabilmente di più!), ma perché non è un giogo e un peso che l'uomo deve portare da solo.

Il comandamento nuovo

Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova dello Spirito? Agisce attraverso l'amore! Potremmo dire che la legge nuova altro non è se non quello che Gesù chiama il comandamento nuovo. Lo Spirito Santo ha scritto la legge nuova nei nostri cuori infondendo in essi l'amore. E' scritto infatti che l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato " (Rm 5,5). Non si tratta qui solo dell'amore con cui Dio ama noi, ma anche dell'amore con cui Dio fa sì che noi amiamo lui e il prossimo; è una capacità nuova di amare. L'amore è il segno e il rivelatore della vita nuova dello Spirito: "Noi sappiamo - scrive S. Giovanni - che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli" (1 Gv 3,14).

L'amore è detto da Gesù comandamento nuovo, nonostante che esistesse già nell'Antico Testamento, perché esso esisteva prima come un comandamento tra gli altri comandamenti; esisteva come legge vecchia. La novità consiste nel fatto che ora esso non è più "un" comandamento, ma "il" comandamento. Non è soltanto l'oggetto dell'amore che è cambiato (si è dilatato, infatti, fino ad abbracciare ogni uomo, e non soltanto il connazionale e l'amico), ma anche la sua natura. Non si tratta infatti di un amore acquisito con i propri sforzi, ma di un amore infuso in noi da Dio gratuitamente. Non è più lettera, ma Spirito.

Se Gesù si fosse limitato a promulgare il comandamento nuovo, dicendo: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri" (Gv 13,34), esso sarebbe rimasto, com'era prima, legge vecchia. L quando egli, a Pentecoste, infonde, mediante lo Spirito, quell'amore nei cuori dei discepoli, che esso diventa, a pieno titolo, legge nuova, legge dello Spirito che dà la vita. Ora tale comandamento è doppiamente nuovo: non solo perché è nuovo, ma anche perché fa nuovi; non solo in senso passivo, ma anche in senso attivo. "L questo amore che ci rinnova - esclama S. Agostino - rendendoci uomini nuovi, eredi del testamento nuovo, cari del cantico nuovo. Esso rinnova le genti, raccoglie tutto il genere umano, sparso ovunque sulla terra, per farne un sol popolo nuovo, il corpo della novella sposa dell'unigenito Figlio di Dio" (In Ioh. 65, 1).

Chi si accosta al vangelo con la mentalità secolare trova strano che si faccia dell'amore un "comandamento". Che amore è, si dice, se non è libero, ma comandato? Per rispondere a questa obiezione dobbiamo sapere che vi sono due modi secondo cui l'uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa cosa: o per costrizione, o per attrazione. La legge ve lo induce per costrizione, con la minaccia del castigo; l'amore ve lo induce per attrazione. Ciascuno è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione. L'amore è come un peso dell'anima che attira verso l'oggetto del proprio desiderio, dove sa di trovare il proprio riposo.

In questo senso, l'amore è una legge, un comandamento: esso crea nel cristiano un dinamismo che lo porta a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, senza neppure doverci pensare, perché ormai ha fatto sua la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama. 1-:amore attinge la volontà di Dio alla sua stessa sorgente, prima che venga codificata in leggi e prescrizioni scritte. Attinge, nello Spirito, la vivente e santa volontà di Dio.

Essa, tuttavia, è anche la legge più impellente che ci sia, perché spinge a fare cose così ardue quali nessuna legge scritta riuscirebbe a far compiere con la minaccia del castigo. "Chi ama Vola, corre, giubila, è libero e nulla potrà tenerlo... Spesso l'amore non conosce misura, ma divampa fuori misura. L'amore non sente peso, non cura fatiche, vorrebbe fare più di quello che può; non adduce a pretesto l'impossibilità, perché si crede lecito e possibile tutto. L'amore si sente capace di qualsiasi cosa e molte cose fa e vi riesce, mentre chi non ama viene meno e si arrende" (Imitazione di Cristo, 111,5).

Avviene cosi quando un giovane o una giovane sono afferrati dall'amore umano; quanto più, dunque, se sono afferrati dall'amore divino?

Dall'uomo vecchio all'uomo nuovo: un passaggio da compiere

A sentire descrivere questa nuova esistenza suscitata dallo Spirito e tutta basata sull'amore, tanti, forse, si sono innamorati di essa. Proprio questo voleva ottenere la Parola di Dio: suscitare in noi il desiderio ardente di appartenere a questo nuovo mondo. Accanto al desiderio, però, può essere affiorato anche un senso di scetticismo e di scoraggiamento: dov'è, qualcuno si chiede, quella libertà, quella capacità di amare e di osservare i comandamenti? Dov'è quella vita nuova? P dunque tutto solo una bella, ma astratta teoria? E perché alcuni raggiungono tale vita nuova e tale libertà, mentire altri no?

S. Paolo risponde con poche parole a tutte queste domande nel seguito del suo testo: "Se con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete!" (Rm 8,13). E' stata pronunciata, così, la parola-chiave: mortificazione. Dall'uomo vecchio all'uomo nuovo c'è un solo ponte e questo ponte si chiama mortificazione. Ecco dove comincia la parte propriamente nostra. Lo Spirito "dà la vita", ci ha detto l'Apostolo all'inizio del suo testo, ma la dà "attraverso la mortificazione", ci dice ora al termine di esso. Il battesimo ha fatto di noi degli uomini nuovi; ma questa novità, per mantenersi, deve essa stessa rinnovarsi di giorno in giorno (cfr. 2 Cor 4,16). "Non pensare - scriveva Origene - che basti essere rinnovati una volta sola; bisogna rinnovare la stessa novità: 'Ipsa novitas innovanda est` (Origene, In Rom. 5,8; PG 14, 1042). La mortificazione dell'uomo vecchio è la condizione perché ci sia questo continuo rinnovamento.

Lo Spirito dunque dà la vita, ma la dà attraverso la morte. Come per Gesù! Egli fu "messo a morte nella carne" e per questo Dio lo rese "vivo nello Spirito" (cfr. I Pt 3,18). Il vero uomo nuovo è Gesù; non si può pervenire a essere uomini nuovi, se non "diventandogli conforme nella morte" (cfr. Fil 3, 10). "Se con lui moriamo, con lui anche vivremo" (2 Tm 2,11).

Quando noi parliamo della vita nuova nello Spirito, corriamo sempre il rischio di intendere tale espressione alla maniera umana, come un potenziamento e un accrescimento della precedente vita, come una risposta al nostro naturale bisogno e istinto di vivere, come una nuova ondata di vitalità che ci pervade piacevolmente corpo e anima. Invece vita nuova indica qualcosa di completamente diverso e più radicale; indica, alla lettera, una nuova vita, una vita che comincia daccapo, dopo l'intervento di una morte, Un viandante può dire di avere imboccato una via "nuova" in due sensi: o perché la via che percorreva prima è stata rinnovata, asfaltata, raddrizzata, o perché la via che percorreva prima è arrivata a una svolta e si è affacciata su un'altra strada. La vita nuova nello Spirito è nuova in questo secondo senso.

Accostiamoci dunque e guardiamo con atteggiamento nuovo questo volto della mortificazione che ci fa tanta paura. Gesù, una volta, disse: "Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv 15,1-2). La mortificazione ha la stessa funzione che ha la potatura. In noi è stato innestato, nel battesimo, un germe di vita nuova. Guardiamo cosa avviene in agricoltura, quando si pratica un innesto. Per un po' di tempo, si lascia sussistere il resto dell'albero, perché non muoia il vecchio e il nuovo. Ma una volta che l'innesto ha attecchito e ha messo le prime gemme, il contadino taglia, pota, uno ad uno, tutti i rami dell'albero vecchio, altrimenti tutta la forza dell'albero sarà assorbita da essi e servirà a produrre solo i frutti selvatici che produceva prima.

Anche in noi permane, dopo il battesimo, il vecchio albero che è l'uomo vecchio. I suoi rami sono le diverse passioni e i suoi frutti selvatici sono le opere della carne. Di essi l'Apostolo ci dà, altrove, un elenco, dicendo che i frutti della carne sono: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere (cfr. Gal 5,19-21).

La santità, come la scultura, si ottiene, "per arte di levare", cioè eliminando le parti inutili. Si racconta che un giorno Michelangelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: "In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori!". E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all'angelo che aveva intravisto.

Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grezza, con addosso tanta "terra" e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: 1n questo pezzo di pietra è nascosta l'immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo!". Se d'ora in poi sentiamo dei colpi di scalpello e vediamo dei pezzi di noi cadere a terra, cerchiamo di non ingannarci più. Non continuiamo a dire: "Che ho fatto di male? Perché Dio mi castiga così". Sforziamoci, piuttosto, di dire a noi stessi: "E' Dio che mi ama e vuole formare in me l'immagine del suo Gesù. Resisti, anima mia!". La croce è lo scalpello con cui Dio
sci plasma i suoi eletti. E stato sempre così.

I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall'esterno, ma collaborano anch'essi, per quanto è loro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. "Se vogliamo essere completamente liberati - diceva un Padre del deserto - impariamo a spezzare la nostra volontà, e cosi, poco a poco, con l'aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. E' possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: 'Guarda là!', ma lui risponde al suo pensiero: 'No, non guardo!', e spezza la sua velontà' (Doroteo di Gaza, Insegnamenti 1,20; SCh 92, p. 177).

Questo Padre porta esempi tratti dalla vita monastica che però è facile adattare ad altri stati di vita, per esempio a quello dei giovani. C'è uno spettacolo malsano alla televisione, un manifesto provocante sul muro, una rivista pornografica a portata di mano: l'uomo vecchio ti dice: "Guarda!" e ti fornisce contemporaneamente cento pretesti e scuse per farlo. Ma tu rispondi: "No!" e spezzi la tua volontà. C'è una discussione frivola tra amici; si sta parlando male di qualcuno: il tuo uomo vecchio ti dice: "Partecipa anche tu; di' quello che sai. Ma tu rispondi: "No!". E mortifichi l'uomo vecchio. Passi accanto a un compagno, a una compagna che non ami o che non ti ama e che ti è antipatico; il tuo orgoglio ti dice: "Stai sulle tue, e non rivolgergli la parola!". E tu invece fai un sorriso, dai un saluto, e vinci te stesso, spezzando il tuo orgoglio. Incontri un povero, magari un forestiero, che sai ti chiederà qualcosa; vorresti tirare diritto o cambiare strada, invece gli vai incontro per amore di Gesù: hai fatto vincere l'uomo nuovo.

Molte nobili battaglie vengono additate, oggigiorno, da molte parti, ai giovani: guerra alla droga, alla fame, alle ingiustizie, all'inquinamento, guerra alla guerra... Gesù ne addita ad essi una che è diversa da tutte le altre, senza la quale tutte le altre non sono che dei palliativi: la guerra al proprio "io", all'uomo vecchio. La guerra contro se stessi.

Nel battesimo e nella cresima (e poi nell'effusione dello Spirito che ha rinnovato, in molti di noi, questi sacramenti), noi siamo stati consacrati soldati di Cristo. Ma non dobbiamo ingannarci. t questa anzitutto la guerra per la quale siamo stati fatti soldati: "Prendi anche tu la tua parte di sofferenza come un buon soldato di Cristo", scriveva S. Paolo al suo giovane discepolo Timoteo (2 Tiri 2,3).

Dobbiamo fare il possibile, nel Rinnovamento nello Spirito, per riscattare la parola "mortificazione" dal sospetto che grava su di essa. L'uomo d'oggi, cedendo senza accorgersene ai richiami dell'uomO vecchio, si è creato una filosofia speciale, per giustificare e anzi esaltare il soddisfacimento dei propri istinti o, come si dice, delle proprie pulsioni naturali, vedendo in ciò la via all'autorealizzazione della persona umana. Come se, in questo campo, occorresse incoraggiare l'uomo con una apposita filosofia e non bastassero già, da soli, la natura corrotta e l'egoismo umano!

La mortificazione è vana ed è anch'essa "opera della carne", se fatta per se stessa, senza libertà, o, peggio, se fatta per accampare diritti davanti a Dio o trarne vanto dinanzi agli uomini. ~ così, purtroppo, che molti cristiani hanno conosciuto la mortificazione e ora hanno paura di ricadervi, avendo gustato la libertà dello Spirito. Ma c'è un diverso modo di considerare la mortificazione che la Parola di Dio ci ha additato, un modo tutto spirituale e carismatico, perché discende dallo Spirito: "Se, con l'aiuto dello Spirito, fate morire le opere della carne, vivrete!" (Rm 8,13). Questa mortificazione è frutto dello Spirito ed è per la vita.

S. Francesco d'Assisi riconciliò gli uomini del suo tempo con la povertà che tutti aborrivano, presentandola amorevolmente al mondo come una grande signora, come "Madonna Povertà". lo vorrei fare lo stesso con la mortificazione: presentarla a me stesso prima e poi a voi, come la sposa dello Spirito, come colei che si unisce allo Spirito per darci la vita. Come "Madonna Mortificazione"!

La mortificazione custodisce l'amore. "Se un uomo - scrive Kierkegaard - dice veramente e con sincerità: 'Dio è amore', costui non ha, per ciò stesso, che un unico desiderio: quello di amare Dio che è amore, con tutto il suo cuore, con tutte le sue forze. Quando Dio scopre un uomo che abbia un tale desiderio, subito gli dice: 'Sì, mio caro bambino, io ti sarò di aiuto, ti aiuterò a mortificarti perché senza questo tu non mi puoi amare'. Considera una situazione puramente umana. Se un amante non può parlare la lingua dell'amata, allora o lui o lei deve imparare la lingua dell'altro per difficile che sia, poiché altrimenti il loro rapporto non potrebbe diventare un rapporto felice, essi non potrebbero mai conversare insieme. E così anche con il mortificarsi per amore di Dio. Dio è Spirito; solo chi è mortificato, può, in qualche modo, parlare il suo linguaggio. Se non ti vuoi mortificare, allora non puoi neppure amare Dio; tu parli infatti di tutt'altre cose da lui" (Diario, a cura di C. Fabro, Brescia 1963, n. 2709).

"Prendete il mio giogo su di voi! "

Ora vorrei raccogliere l'appello che scaturisce da tutto ciò che abbiamo ascoltato. E Gesù stesso che ci rivolge, dal vangelo, tale appello, dicendo: "Prendete il mio giogo sopra di voi!" (Mi 11,29). L'immagine del giogo è usata spesso nella Bibbia per indicare la legge. Anche la legge nuova di Cristo, la legge dello Spirito, è un giogo, qualcosa che costa sacrificio all'umanità decaduta, che "pesa" all'uomo vecchio, perché richiede mortificazione, rinnegamento di sé. Ma è un giogo "dolce", un peso 1eggero". Che cos'è che rende questo giogo dolce, amabile e desiderabile? Che cos'è che ha sempre infiammato i santi e le anime generose ad accettare questo giogo della mortificazione, a ricercarlo anzi, fino a non potere più vivere senza di esso? E' che quel giogo è il giogo dell'amore, il giogo che unisce all'amato. In un'opera del II secolo d.C., scritta nello stile dei Salmi, si leggono queste parole stupende messe sulla bocca di Cristo:

"Io posi su di loro il giogo dei mio amore, poiché come il braccio dello sposo sulla sposa, così è il mio giogo su coloro che riti conoscono" (Le Odi di Salomone, 42,8).

Sì, la mortificazione è il giogo che tiene uniti a Dio. Gesù si è messo per primo sotto il giogo della croce ed è tuttora lì, anche se risorto, ad aspettare chi vuole affiancarsi a lui, prendendo su di sé l'altro capo del giogo; chi accetta sulla propria spalla il suo braccio di sposo.

La mortificazione non ci tiene uniti solo a Cristo, ma anche tra di noi; è la via per poter fare unità con i fratelli. Tanto si dà ai fratelli, quanto si è disposti a togliere a se stessi; per compiacere il prossimo, bisogna rinunciare a voler costantemente compiacere noi stessi (cfr. Rm 15,1-2). Perciò, più si mortifica il proprio "io", più fiorisce, nei gruppi, nelle parrocchie, nella Chiesa, l'unità.

La mortificazione tiene uniti anzitutto l'uomo e la donna nel matrimonio.Toglie di mezzo infatti l'egoismo e l'affermazione tenace di sé che è il principale nemico. Nel matrimonio, la mortificazione custodisce l'amore. Essa insegna a trattenere le parole cattive che amareggiano e raffreddano, e insegna a dire solo parole buone, che servono alla mutua carità ed edificazione (cfr. Ef 4,29).

Gli sposi sono detti "coniugi" o "coniugati" che, stando all'etimologia, significa "uniti sotto lo stesso giogo". Se questo giogo è il giogo della carne, del piacere, o anche del solo dovere, esso diventa ben presto pesante e insopportabile. Gesù offre agli sposi cristiani che vivono nello Spirito la possibilità di diventare "coniugi" in un senso tutto diverso: coniugi, perché posti sotto lo stesso giogo, quello di Cristo, che è il giogo del suo amore. Ad essi egli ripete, in un modo tutto particolare: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime" (Mi 11,28).

Troverete ristoro! Ecco perché S. Paolo esorta chi si sposa a sposarsi "nel Signore" (1 Cor 7,39). Sposarsi nel Signore implica molto di più che il semplice sposarsi in Chiesa; significa mettere il proprio matrimonio sotto la signoria di Cristo, affidando così la propria decisione nel tempo a qualcosa che appartiene realmente all'eternità. Se uno si sposa facendo affidamento soltanto sul proprio sentimento o sull'entusiasmo di un amore allo "stato nascente", quando questo verrà meno, si ritroverà solo davanti all'obbligo di dover amare per sempre, e l'obbligo, da solo, non basterà a sorreggerlo. Ma se, al contrario, hai messo
la natura al riparo della grazia, se hai costruito sulla roccia che non muta, allora potrai tornare sempre di nuovo ad attingere ad essa; ogni volta, scavando, ritroverai il fondamento dell'unità. Vale anche, per chi si sposa, la parola che si legge nel profeta Zaccaria: "Non con la potenza, né con la forza, ma con il mio Spirito, dice il Signore degli eserciti" (Zc 4,6).

Dagli uomini nuovi nascono, dunque, spontaneamente, delle famiglie nuove. Ma nascono anche dei sacerdoti nuovi ed è questo l'ultimo appello che vi prego di ascoltare, l'appello vocazionale. S. Paolo parla di un servizio dello Spirito (diakonia Pneúmatos) che è proprio dei ministri del Nuovo Testamento (cfr. 2 Cor 3,8). Questo servizio si esplica, normalmente, attraverso il sacerdozio e la vita consacrata. La Chiesa non tralascia occasione per far giungere ai giovani il suo "Venite! C'è bisogno di voi. La messe è molta, gli operai sono pochi, sempre più pochi...".

Non è questa una chiamata, una "vocazione"? Troppo spesso ci si affanna a cercare per anni dentro di sé chissà quali segni per riconoscere la propria vocazione; ma non è questo, da solo, un segno? Dio chiama oggi attraverso la Chiesa; è anch'essa voce di Dio. "Oggi, se ascoltate questa voce, non indurite il vostro cuore". t bello formarsi una propria famiglia, ma è ancora più bello impegnarsi per riunire e servire la famiglia di Dio. Salvate la vostra vita, o giovani, perdendola. Non lasciatevi scoraggiare dalla nostra mediocrità; voi potete essere - e sarete - sacerdoti migliori di noi: sacerdoti nuovi di una Chiesa nuova.

Le due vocazioni - matrimonio e vita consacrata - vengono dallo stesso Spirito; sono l'una e l'altra un carisma (cfr. 1 Cor 7,7). Come ogni carisma, ognuna non serve solo a se stessa, ma è "per l'utilità comune". Sta nascendo, in mezzo al popolo di Dio, una nuova unità e una mutua integrazione tra sposati e consacrati, per l'edificazione reciproca. Gli sposati sono un segno e un dono per i sacerdoti e i religiosi e questi lo sono per gli sposati. Gli uni sentono il bisogno degli altri.

Ci sono paesi e culture nel mondo non cristiano (ma talvolta, purtroppo, anche nel mondo cristiano), dove il rapporto tra sacerdote e popolo è basato ancora su una rigida spartizione tra lo spirituale e il temporale: il sacerdote prega, compie riti e sacrifici per il popolo, dà ad esso le cose di Dio; il popolo mantiene il sacerdote e dà a lui le cose del mondo. Ho osservato questa cosa di recente, nel corso di un viaggio in Oriente e ne sono rimasto molto colpito. Tutta la religiosità del popolo del villaggio, si esauriva nel riempire, al mattino, la ciotola dei bonzo che poi avrebbe pregato e meditato anche per lui.

Tra noi non ci si può accontentare di questo rapporto che riduce i laici a soli servitori della materia e del mondo. Anch'essi vivono "nello Spirito", hanno i loro doni spirituali, con i quali, dice un testo del Vaticano II, santificano il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, 12). Tra noi lo Spirito insegna dunque un ben diverso rapporto. Sì, i laici contribuiscono talvolta al mantenimento del clero (e ora, dopo il Concordato, saranno chiamati a farlo ancora più direttamente, avendo smesso di farlo lo Stato), ma il loro apporto al Regno e agli stessi sacerdoti non si esaurisce certo qui. Il Signore chiama oggi in numero sempre maggiore i fedeli a pregare, a offrire anch'essi sacrifici, per avere sacerdoti santi. Quella dei sacerdoti santi è un'ansia e una passione che si diffonde, come segno dei tempi, nella Chiesa di oggi. Madre Teresa di Calcutta non fa che ripetere questo. Lei, che raccoglie il grido dei poveri del mondo, quando si trova a dover parlare ai sacerdoti e deve trasmettere ad essi il grido di questi poveri (come fece una volta davanti al Sinodo dei vescovi), dice: "Essi mi mandano a dirvi che hanno bisogno di sacerdoti santi!".

Il sacerdozio regale o universale dei fedeli ha trovato, così, un nuovo modo di esprimersi: quello di contribuire alla santificazione del sacerdozio ministeriale. Dai monasteri di clausura, dove tale vocazione era finora coltivata segretamente, essa si sta diffondendo sempre più anche in mezzo ai semplici fedeli. Nel Rinnovamento nello Spirito è una realtà assai diffusa, è una chiamata che Dio rivolge a molti. Con la preghiera essi sostengono l'annuncio della Parola e ne aumentano l'efficacia e la fecondità. lo stesso che vi sto parlando, so che in questo momento, di mio, ci metto il tempo, lo studio, la conoscenza che ho potuto acquisire dei tesori della Chiesa; ma altri, non conosciuti, ci mettono la cosa più preziosa: la preghiera e la sofferenza. Non posso perciò vantarmi e, se lo faccio, sono un ladro e un usurpatore.

Alcune anime Dio le chiama a un compito ancora più alto: espiare per i sacerdoti. A una di esse - una straordinaria madre di famiglia messicana morta nel 1937 e di cui è avviato il processo di canonizzazione - Gesù disse un giorno queste parole: "Questo sarà il vero sollievo del mio cuore: darmi sacerdoti santi; dimmi che accetti, che apparterrai con me ai sacerdoti, per sempre, perché la tua missione in loro favore continuerà in cielo. Ma ecco un altro martirio: ciò che i sacerdoti faranno contro di me, tu lo sentirai, perché è in questo che consiste in fondo l'associarsi al mio sacerdozio in loro: nel fatto che tu senta e soffra a causa delle loro infedeltà e miserie. In tal modo renderai gloria alla Trinità. Avremo gli stessi motivi di sofferenza" (cfr. Conchita. Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.M. Philipon, Città Nuova 1979, p. 396).

"Solo l'uomo può essere sacerdote - ha scritto P. Claudel ma non è precluso alla donna di essere vittima". Solo gli uomini possono essere sacerdoti, ma la sapienza di Dio ha riservato alle donne un compito, in un certo senso, ancora più alto, che il mondo non comprende e anzi rifiuta con sdegno: quello di formare i sacerdoti, di contribuire ad elevare, non la quantità, ma la qualità del sacerdozio cattolico.

Termino ora con queste vibranti parole di S. Agostino che sono il miglior commento al nostro terna: "0 fratelli, o figli, o popolo cristiano, o santa e celeste stirpe, o rigenerati in Cristo, o creature di un mondo nuovo, 'cantate al Signore un canto nuovo (Sal 33.3). Spogliatevi di quanto in voi è vecchio; avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi, lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia. Lo canti, però, non con le labbra, ma con la vita... Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere, senza potere spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti, coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi di tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lasciar cadere le sillabe delle parole e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che sta a indicare che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? ineffabile infatti è ciò che non può essere detto; e se non puoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare?' (S. Agostino, Sermo 34,6; Enar. Ps. 32,8;).

Che ci resta, cioè, se non cantare in lingue?