mercoledì 20 marzo 2013

Il rapporto tra ebrei e cristiani alla luce dell’elezione del Pontefice.

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 Un dialogo sempre più intenso

"Pagine ebraiche" - Due storiche a confronto. Nel numero di aprile «Pagine Ebraiche», il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, diretto da Guido Vitale, pubblicherà anche alcuni approfondimenti sull’elezione di Papa Bergoglio. Anticipiamo ampi stralci del «confronto a due voci dopo la fumata bianca» nel quale le due storiche, Anna Foa e Lucetta Scaraffia — una ebrea e una cattolica, entrambe editorialiste del nostro giornale — proseguono il dialogo che le vede protagoniste ogni domenica su Radio Rai Uno nel programma “Dio e le donne”, e l’articolo scritto dal nostro direttore sulla scelta del nome Francesco da parte del Pontefice. 

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Mentre parliamo, Francesco è stato eletto Pontefice da due giorni e non sappiamo molto di lui, al di là di poche notizie sulla sua storia e delle parole che ha pronunciato dopo la sua elezione, dei gesti che meglio ancora delle parole lo hanno finora caratterizzato. Su questi elementi di novità, e sulle speranze ad essi legate, vogliamo porci insieme delle domande.
FOA: Se parliamo di novità, vorrei prima di tutto sottolineare come questo Papa salga al soglio pontificio grazie ad un elemento di straordinaria novità, la rinuncia di Benedetto XVI. Quando è avvenuta, molte sono le voci che si sono levate a dire che questo gesto cambiava radicalmente la natura stessa della Chiesa. È su questa frattura che si inserisce l’elezione di Francesco, anche se ormai nessuno sembra più ricordarsi di questo. Non sono convinta che la generale esultanza, autentica o rassegnata che sia, per tutti gli elementi di novità che questo papato preannuncia, avrebbe potuto esserci se questa rottura precedente non si fosse verificata,
SCARAFFIA: Hai ragione. Le novità che sta portando Francesco, non sarebbero state pensabili senza la grande novità delle dimissioni di Benedetto. È questo che ha aperto la strada a un modo nuovo di vedere il ruolo del Papa, meno legato al potere, meno compassato e inamovibile. Tra le novità, poniamo subito la prima e la più grande, quella di un Papa che non è europeo, che viene da lontano. Un Papa argentino sottolinea evidentemente la dimensione mondiale della Chiesa, la disancora dalla storia europea e da quella italiana. Sembra che l’ebraismo negli ultimi decenni sia stato tutto teso a tornare alle origini, a conquistarsi una patria, rifiutando la diaspora, cioè la dispersione nel mondo, mentre la Chiesa si stava aprendo a una dimensione sempre più larga dello spazio, al mondo tutto.
FOA: Sì, certo, e questo per il cristianesimo non è certo una novità, da quando Paolo ha orientato la sua opera di diffusione evangelica verso i gentili, rifiutando la dimensione di una nuova religione rivolta solo agli ebrei. È più una novità dell’ultimo secolo il ritorno nella Terra di Israele per gli ebrei, anche se la diaspora non è certo scomparsa. Possiamo interpretarlo come una chiusura spaziale? In un certo senso sì, in altri no, come quando anche in Israele si sottolinea il valore del nesso indistruttibile fra Israele e la diaspora, come molti fanno e hanno fatto. A me piace pensare anche lo Stato di Israele come figlio della diaspora, come l’esito dei rivolgimenti e dei progetti di un mondo fortemente diasporico, non come arroccamento territoriale.
SCARAFFIA: Il nuovo Papa si è presentato come vescovo di Roma, e come tale capo visibile della Chiesa. Penso alla contrapposizione fra Roma e Gerusalemme, al fatto che il cristianesimo, cacciato dalla sua terra d’origine, abbia trovato una patria in Roma, quella Roma che ha distrutto il Tempio di Gerusalemme.
FOA: Sì, i cristiani hanno trovato il centro della loro religione a Roma, almeno per la Chiesa d’occidente. Quanto a Roma, era quella stessa che nello stesso periodo combatteva le guerre giudaiche e distruggeva il Tempio di Gerusalemme ma era anche la stessa che bruciava e dava in pasto alle belve i martiri cristiani. Per gli ebrei, Roma fu certo Edom, il nemico, il Male. Ma Roma era anche il luogo di una presenza ebraica già antica di almeno due secoli. Gli ebrei di Roma restano neutrali in questa guerra tra Roma e Gerusalemme, e si limitano a riscattare i prigionieri, senza nessun entusiasmo per gli zeloti del Regno di Giudea. A livello ideologico cristiano, di percezione antiebraica dei primi secoli, può forse rientrare in questo discorso di contrapposizione fra Roma e Gerusalemme il fatto che prevalesse un’interpretazione della caduta del Tempio e della diaspora dopo il 70 come punitiva degli ebrei che non avevano accettato Cristo.
SCARAFFIA: Certo, l’ossessione colpevolizzante nei confronti degli ebrei non manca mai, per molti secoli. Ma sappiamo anche che nel 70 la divisione fra ebrei e cristiani, almeno agli occhi dei romani, non era così chiara e netta. E il fatto che fossero entrambi monoteisti — quindi “i diversi” in un mondo politeista — contribuiva a creare confusione. Vediamo però che i cristiani — anche se per secoli, con le crociate, tenteranno di riprendersi Gerusalemme — di fatto spostano il loro centro sacro a Roma, mentre gli ebrei no, o semmai lo trasferiscono in un libro, la Bibbia, che si può portare dappertutto. Una piccola patria tascabile, come ha scritto Heine.
FOA: Quanto al rapporto secolare fra gli ebrei di Roma e il Papa, un rapporto ambivalente che ha legato la più antica comunità ebraica della diaspora occidentale al vescovo di Roma fra protezione, disprezzo, tradimento e fedeltà, forse questo rapporto si presenta ora come definitivamente sepolto, se già non lo è stato prima. Il nuovo vescovo di Roma avrà come suoi interlocutori gli ebrei del mondo, e in primo luogo quelli che ha già avuto vicini in Argentina, con cui ha acceso una luce di Hanukkah in una sinagoga di Buenos Aires.
SCARAFFIA: Certo nella realtà è così, ma comunque il rapporto con gli ebrei di Roma conserva ancora una determinante carica simbolica, come dimostra il fatto che uno dei primi gesti di Francesco è stato scrivere al rabbino capo di Roma, Di Segni, per invitarlo alla sua messa di inaugurazione del pontificato. Comunque, Roma rimane il teatro simbolico del rapporto fra ebrei e cristiani.
FOA: Un altro grande elemento di novità è il nome preso dal nuovo Papa e il fatto per di più che quel nome, Francesco, sia stato assunto da un Papa gesuita, un ordine che non ha mai dato Pontefici dai suoi ranghi. Personalmente, ho sempre subito il fascino dei gesuiti, da quando lessi il Loyola di Barthes fino ad oggi. Certo, nella storia della Chiesa verso gli ebrei hanno avuto ruoli assai diversi. Se Ignazio di Loyola rifiuta di applicare le leggi di limpieza de sangre all’ordine poi, alla fine del Cinquecento, quando l’ordine infine le adotta, sono fra le più dure che siano state elaborate. E «La Civiltà Cattolica» conduce alla fine dell’Ottocento una vera e propria campagna antisemita. Ma poi, quante aperture in senso opposto! E anche in altri campi, non è forse stato un gesuita tedesco del primo Seicento il più coraggioso difensore delle donne bruciate come streghe, Friedrich von Spee? I gesuiti riservano sempre delle sorprese, non sono mai banali. Quanto al richiamo a Francesco d’Assisi, è evidente di per sé un proclama rivoluzionario, di trasformazione della Chiesa e di ritorno alle origini. In questo senso vanno i segnali di umiltà, povertà, condivisione del destino dei fedeli.
SCARAFFIA: Un’ultima questione. Quali sono le speranze che ebrei e cristiani possono avere dal nuovo pontificato? E sono le stesse? Mi è sembrata significativa, nei giorni che sono passati fra le dimissioni di Ratzinger e l’elezione del nuovo Papa, l’attenzione spasmodica dei media mondiali. Non era solo corsa per lo scoop, eccitazione per la novità. Si è capito che tutto il mondo, anche non cattolico, guardava con ansia e speranza all’elezione del nuovo Papa perché la sua voce — ascoltata in tutto il mondo — induce alla riflessione e magari al cambiamento anche chi non si sente fedele della sua religione. È diventata sempre più una voce importante nel concerto mondiale. Mi pare che ebrei e cristiani abbiano lo stesso interesse a che le questioni importanti siano affrontate in modo profondo e libero, che non siano soffocate da ragioni politiche o, peggio ancora, finanziarie, come spesso accade. E la voce del Papa svolge un ruolo importante affinché questo non accada, soprattutto quando sa e può mettersi in sintonia con quelle di altri pensieri religiosi: penso alle ampie citazioni del rabbino Bernheim fatte da Benedetto XVI, ad esempio.
FOA: Hai assolutamente ragione, l’allargamento dell’ambito della Chiesa non si è verificato solo geograficamente ma anche culturalmente. La Chiesa è diventata una voce importante nel concerto mondiale, fatto di cristiani e di fedeli di altre religioni, di credenti e di laici. Questo vuol dire che un rinnovamento della Chiesa ha un ruolo importante anche al di là della Chiesa. Gli ebrei, che certo sono stati individuati a partire dalla Nostra aetate come suoi interlocutori privilegiati, non possono che rallegrarsi e riporre molte speranze in un rinnovamento della Chiesa cattolica, al di là della questione specifica del dialogo fra ebrei e mondo cristiano. Certo, il dialogo è fondamentale, e tutto lascia credere che riprenderà e si approfondirà a partire dal punto in cui è giunto al momento dell’abdicazione di Papa Ratzinger, un punto importante e di grande apertura teologica. Ma il dialogo guadagnerà molto anche dal fatto di essere inserito nel contesto di una Chiesa rinnovata e attenta al mondo, ne sono profondamente convinta. L'Osservatore Romano, 21 marzo 2013.

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 Riporto da "Avvenire" di oggi, 20 marzo.
Pizzaballa: Per custodire il gregge si deve amare la Verità
​ Ha seguito con attenzione l’omelia da Gerusalemme, e padre Pierbattista Pizzaballa si è subito sentito provocato dalle parole di papa Francesco. La sua profonda riflessione sulla figura di san Giuseppe come custode della Chiesa hanno interpellato in qualche modo anche il francescano bergamasco che da nove anni è custode dei luoghi santificati dal passaggio di Cristo.

Nell’omelia il Papa ha insistito molto sulla figura di san Giuseppe come custode di sua moglie Maria e di suo figlio Gesù. Per lei che significato ha quello di custodire i luoghi della redenzione?
È necessario innanzitutto rimanere nella Verità, amare i propri, accudire il gregge, e bisogna amare la Chiesa nella verità che è Gesù. Fare il custode significa per prima cosa essere fedele e fermo su questo punto, perché se il custode si allontana dal gregge oppure il gregge si allontana dal custode e va per una strada sbagliata è compito del custode richiamare il gregge. Non è soltanto un volersi bene così generico, ma è anche – e specialmente – un rimanere fermi sul percorso che il gregge deve compiere. Ma fissare lo sguardo su Cristo è il compito di tutta la Chiesa.

Custodire, ha detto il Papa, chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Ma come è possibile vivere questa tenerezza di cui parla Francesco dentro il conflitto che la Terra Santa vive da molti anni?
Il custode del gregge non è solo colui che sta dietro alle pecore, le deve anche amare, accudire, curare. Perché custodire non vuol dire solo conservare. Per avere la tenerezza in questa terra di conflitto dobbiamo custodire innanzitutto la testimonianza che ci ha dato Gesù, una testimonianza di perdono, di libertà nelle relazioni. E poi dobbiamo custodire anche la Parola che abbiamo ricevuto qui, quello stile che è stato proprio del Signore. Come ha detto il Papa, non solo di tenerezza, ma anche di carità e amore. Per me significa questo, abbiamo bisogno di qualcuno che sappia amare oltre ogni forma di divisione.

In un passaggio Francesco ha detto che per poter "custodire" gli altri dobbiamo custodire anche noi stessi...
Mi ricorda quello che si dice nella Sacra Scrittura: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Per amare e avere cura dell’altro bisogna avere cura di sé. Le cose vanno insieme, è un rapporto inscindibile che però deve essere illuminato dalla relazione fondamentale, quella con Dio. Senza Dio non andiamo da nessuna parte.

Alla fine – è una frase che ha ripetuto spesso in queste prime occasioni – il Papa ha chiesto ai fedeli di pregare con lui, come se anche lui volesse essere custodito in qualche modo. C’è un aspetto di reciprocità tra il custode e chi viene custodito?
Naturalmente, il Custode per eccellenza è Dio, noi siamo custodi a sua immagine e dobbiamo custodirci l’un l’altro. Il successore di Pietro, il Papa è il custode del gregge che è la Chiesa di Dio, ma anche noi come gregge dobbiamo avere a cuore il nostro pastore e amarlo. 

E la figura di san Giuseppe, a cui papa Francesco ha dedicato la sua omelia nel giorno della festa, come la provoca nel suo compito quotidiano affidatogli dalla Chiesa?
È uno dei santi meno conosciuti eppure più importanti. Sappiamo poco o nulla, non abbiamo nessuna parola detta da lui, ma soltanto alcuni, pochi gesti. E credo sia espressione dello stile di vita di tante persone nella Chiesa, che nel silenzio, custodendo la parola che hanno ricevuto e non comprendendola fino in fondo, come san Giuseppe l’hanno tradotta in azioni concrete per il bene di molti. Senza fare rumore, tanti santi hanno cambiato il volto della Chiesa. Io amo molto san Giuseppe per il suo silenzio, per il ruolo che ha avuto nella vita familiare. Il giorno di san Giuseppe è la festa del padre, che è in realtà un modo nuovo di esprimere la paternità, di una presenza importante e non invasiva, una figura che accompagna, che sa guidare e costruire.

A questo proposito, papa Bergoglio ha sottolineato che Giuseppe viveva nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio. È questo il segreto che rende possibile a un padre di essere anche custode?
Questo è un passo molto bello che dice una grande verità: un padre non deve custodire un progetto suo, ma cercare di comprendere il progetto del figlio e farlo crescere, cercando anche di scomparire un po’. E così il padre, anche nella Chiesa, è colui che deve vedere il progetto di Dio che cresce nel gregge. E aiutarlo a crescere sempre di più. (A. Avveduto)