martedì 10 giugno 2014

10 Madonne per me...

Card. Pellegrino

Una lezione inedita del card. Pellegrino in difesa della religiosità popolare: bisogna cercare di scoprire in queste forme gli elementi validi

MICHELE PELLEGRINO*GINEVRA
Nel 1978-79, il suo ultimo anno alla presidenza della Faculté autonome de Théologie protestante dell’Università di Ginevra, François Bovon volle invitare, per un ciclo di un mese di lezioni, il cardinale e professore Michele Pellegrino sul tema: «Le peuple de Dieu et ses pasteurs dans la patristique latine». Il soggetto venne accuratamente scelto e affinato nell’intento di trovare al dialogo ecumenico un terreno storico, piuttosto che dottrinale, di meditazione, utile all’una e all’altra confessione, al fine di riscoprire - presso i Padri della Chiesa - la radice e il nutrimento per incrementare quella speciale «sollecitudine» per il popolo di Dio che i documenti del Concilio Vaticano II avevano rilanciato, e che costituiva una delle linee pastorali più continue della tradizione riformata. 
Quelle lezioni sono ora pubblicate dall’Editore Olschki, nella collana della Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, che venne fondata nel 1965 dallo stesso professor Michele Pellegrino; il testo preparatorio italiano è stato edito nel 2011 dalle edizioni Effatà, Cantalupa (To). Totalmente inedito è invece il seminario che il cardinale tenne nell’ambito del corso di Carlo Ossola, allora docente a Ginevra, incentrato sulla «Religiosità popolare». Testo meditato e ancora attuale, del quale qui pubblichiamo la parte finale.

Vorrei far rilevare altri fatti, che in Italia sono purtroppo all’ordine del giorno, forme di religiosità popolare in cui il vescovo non può essere indifferente, dove la messa viene considerata un numero che fa parte di una festa (che so io, di ex alpini, ex bersaglieri) ma che deve disturbare il meno possibile. Oppure - e qui la cosa è anche più grave - quando io, sul sagrato di San Pietro, quattro volte ho visto, l’anno scorso, ai funerali dei due Papi (Paolo VI e Giovanni Paolo I) e all’insediamento dei due Papi (Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II), che da una parte eravamo noi (cardinali e vescovi), dall’altra i rappresentanti dei governi (parecchi notoriamente atei e alcuni che si professano cristiani ma che forse sarebbe meglio se si professassero atei), mi domandavo che tipo di religiosità è questa. E sognavo il giorno in cui, per una manifestazione di questo genere, vedremmo là gli emarginati delle borgate romane, che hanno diritto di trovarsi col loro vescovo all’inizio della sua missione.
 
Non mi illudo di aver fatto una presentazione della religiosità popolare che sia scientifica, che risponda a canoni rigorosamente scientifici. Ho descritto alcune cose partendo da letture ed esperienze. Adesso mi domando: qual è a questo riguardo il comportamento dei pastori, dei preti, dei vescovi? Ecco, io vedo due atteggiamenti opposti con tutta una gamma di sfumature intermedie. 
Atteggiamento di opposizione decisa da parte di chi concepisce queste manifestazioni come forme di paganesimo o di alienazione, e allora fa o vorrebbe fare come san Martino di Tours quando, andando in giro nella Gallia, ogni volta che trovava un santuario pagano ordinava di abbatterlo immediatamente; o come hanno fatto – lo dicevo oggi nella conferenza su sant’Ambrogio - a Callinicum quei cristiani che hanno incendiato la sinagoga e quei monaci che hanno dato fuoco a un tempio di valentiniani con l’appoggio, purtroppo, di sant’Ambrogio. Era una religiosità popolare praticata da gente che essi non consideravano della Chiesa e che non era certamente della grande Chiesa. Ne ho trovati alcuni decisi nello spogliare o quasi le chiese da una molteplicità di immagini, decisi ad abbandonare certi riti tradizionali come la benedizione delle case, dicendo che non si va nelle case a spruzzare i muri di acqua santa, eccetera. Quindi un’opposizione decisa. In altri ho trovato un atteggiamento segnato da larga tolleranza, in certi casi addirittura approvazione, o per timore di rotture e di allontanamenti, o anche per condivisione di mentalità. […]

Quando stavo preparando questo schema, mi è capitata sott’occhio, anzi l’ho cercata dovendo preparare una lezione su san Gregorio Magno, una lettera di san Gregorio. Gli Angli usavano sacrificare buoi agli idoli; allora scrivono domandando a Gregorio: quando noi facciamo una festa religiosa, una dedicazione di una chiesa, per esempio, o una festa di martiri, questi nostri nuovi cristiani vorrebbero anche allora uccidere e mangiare dei buoi alla gloria di Dio, del Dio vero non degli idoli. E san Gregorio risponde: abbiate pazienza, è impossibile proibire tutto in una volta a gente così rude.

Perché dovrei condannare certe forme di religiosità solo perché non mi vanno, perché non mi piacciono? Perché dovrei condannare il contadino che porta al santuario l’ex voto che ritrae la stalla, le sue vacche, il suo mondo? Cerchiamo di rispettare le persone. Il rispetto vieta al responsabile della comunità (il parroco, il prete) di far trovare la comunità di fronte a innovazioni non preparate: dieci madonne sono forse troppe in una chiesa, ma farne sparire nove stanotte, con il rischio di far preoccupare o star male la gente, non è altrettanto male? Preparare la gente è un modo per rispettarla. 
Un altro principio importante: cercare di scoprire in queste forme di religiosità popolare gli elementi validi. Leggo cosa dice un eminente liturgista, don Pinell, monaco di Montserrat. A Montserrat vengono da tutta la Catalogna offrendo «frutta, pane, vino, olio, verdure, fiori, animali da cortile, lavori di artigianato, lampade votive, trofei sportivi» – se siete mai stati al santuario di Oropa quante maglie della Juventus e del Torino avete visto esposte! – «stemmi o gonfaloni delle loro organizzazioni ricreative o culturali». Ma aggiunge che c’erano gruppi di giovani «venuti a piedi dalla loro città, distante da Montserrat quasi duecento chilometri, e portavano un fascio di trentotto spighe di grano, che avevano raccolto dalle trentotto zone agricole in cui è divisa naturalmente la Catalogna». Quando dico elementi validi, mi pare che questi siano veramente validi, direi che fa eco al racconto della creazione: «al termine Dio vide che era buono».

Dice don Mattai, nell’articolo «Religiosità popolare»: «Nella pietà popolare si manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere» (vedi ancheMt 11, 25-28: «Ti ringrazio Padre Signore del Cielo e della Terra che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate agli umili»: non dimentichiamo che il Vangelo non è zona di caccia riservata per gli intellettuali, è per tutti, e chi vuol capirlo, anche se è dotto, si deve – Agostino non si stanca mai di dirlo - abbassare nell’umiltà dello spirito). E aggiunge: «inoltre tale pietà “rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso profondo degli attributi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione”». […]

Bisogna dunque cercare di riconoscere questi elementi validi, ma non fermarsi lì. Consolidare, rafforzare, non tanto guardando a singole espressioni, ma «rafforzare» – dice don Sartori - «tutt’intero il mondo della cultura popolare specifica di cui si nutre la religiosità di un popolo e di una comunità» («Criteri per una assunzione critica della religiosità popolare», inReligiosità popolare e cammino di liberazione). Dunque purificare, da una parte e dall’altra. Purificare chi segue certe forme di religiosità popolare che non si possono accettare, ma anche purificare l’atteggiamento di chi pretende di farla da giudice ergendosi così ad arbitro di ciò che fa il fratello senza rendersi conto abbastanza dei valori che sono in gioco.

E infine – l’ultima cosa - prendendo ancora don Sartori, «elevare, ricapitolare in Cristo» per l’edificazione della comunità. Voi sapete - è un’immagine paolina - proprio quello che conta è edificare, costruire la comunità valendosi di tutto il materiale umano di cui è composta questa comunità con la ricerca della verità, nel rispetto e nella carità. Forse anche a questo riguardo sta bene un’espressione cara a sant’Agostino, «humili charitate» (Contra Epistolam Parmeniani libri tres, III, 2, 16): una carità che è nutrita di umiltà, un’umiltà che si espande nella carità verso il fratello.

*Arcivescovo di Torino 1965-1977, nato a Centallo (CN) nel 1903, morto a Torino nel 1986. Ieri a Milano, al Museo del Duomo, sono stati presentati i tre volumi dei suoi "Scritti patristici", curati da Paolo Siniscalco per le Edizioni di Storia e Letteratura