sabato 7 giugno 2014

La diplomazia del gesto nei viaggi di papa Francesco



Il  tweet di Papa Francesco: "La preghiera può tutto. Utilizziamola per portare pace al Medio Oriente e al mondo intero. #weprayforpeace" (7 giugno 2014)

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Di seguito la relazione di Marco Tosatti tenuta ieri all’Università della Santa Croce


Devo cominciare questo colloquio con un grande ringraziamento al Papa. E vi spiego perché. Quando gli amici dell’Università e dell’Associazione Giuseppe De Carli mi hanno chiesto di parlare sui gesti dei Papi, e sulla diplomazia, e su come questi due elementi si uniscono e si modellano a vicenda, ho pensato che sarebbe stato bellissimo avere un qualche “appoggio” autorevole che mi facesse sentire meno solo nel cammino.

E dopo aver seguito con estrema attenzione papa Francesco in Israele prendendo tutti gli appunti e le note che avrebbero potuto aiutarmi nel lavoro, ecco: zacchete! Il gruppo dei colleghi italiani, a cui va tutta la mia riconoscenza, ha aperto i giochi nella conferenza stampa sull’aereo per Roma così:

Cito dal Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede

«D. - Santo Padre, in questi giorni Lei ha compiuto dei gesti che sono rimbalzati in tutto il mondo: la mano sul muro di Betlemme, il segno della croce, il bacio ai sopravvissuti, oggi allo Yad Vashem, ma anche il bacio al Santo Sepolcro ieri, insieme, in contemporanea con Bartolomeo, e tanti altri. Volevamo chiederLe se tutti questi gesti Lei li aveva pensati, voluti; perché li ha pensati e quali saranno poi, secondo Lei, le ricadute di questi gesti, oltre – naturalmente – a quello grandissimo di avere invitato Peres e Abu Mazen in Vaticano…».

Ed ecco la risposta:

«R. – (Santo Padre) I gesti, quelli che sono più autentici, sono quelli che non si pensano, quelli che vengono, no? Io ho pensato: si potrebbe fare qualcosa…; ma il gesto concreto, nessuno di questi è stato pensato così. Alcune cose, per esempio l’invito ai due Presidenti alla preghiera, questo era pensato un po’ di farlo là, ma c’erano tanti problemi logistici, tanti, perché loro devono anche tenere conto del territorio, dove si fa, e non è facile. Per questo, si pensava ad una riunione… ma alla fine è uscito questo invito, che spero che venga bene. Ma non sono stati pensati e… non so, a me viene di fare qualcosa, però è spontaneo, è così. Almeno, per dire la verità, qualcuno… “ma, lì si potrebbe fare qualcosa”, ma il concreto non mi viene. Per esempio, allo Yad Vashem, niente; e poi è venuto. È così».

Insomma, mi è sembrato che si fosse esaudita una preghiera silenziosa… perché nella sua risposta papa Francesco ci ha rivelato alcune delle molle – diplomatiche, religiose e umane – dei suoi gesti, così efficaci e incisivi.

E devo anche ringraziare gli amici che mi hanno chiesto di occuparmi di questo tema. Riflettendo sui gesti compiuti da papa Francesco, ma anche da Benedetto XVI, da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Giovanni XXIII mi sono venute in mente alcune considerazioni, che voglio condividere con voi, come base per uno sviluppo di riflessione ulteriore. Ve le espongo così come si sono presentate, prima di parlare più in dettaglio del recente viaggio in Terrasanta del Pontefice, che di gesti è stato ricchissimo.

Il gesto, i gesti
Una prima considerazione che mi è venuta in mente è che il “gesto” sembra far parte di un linguaggio molto particolare, quello della poesia, o del simbolo. Sia la poesia che il simbolo dicono molto di più di quanto si possa esprimere verbalmente. Il loro messaggio, come quello del gesto, è più profondo e suggestivo – nel senso vero del termine, che cioè “suggerisce” qualche cosa allo spettatore. Poesia, simbolo e gesto si prestano a essere elaborati e sviluppati da chi li ascolta, contempla e riceve. Da un punto di vista cristiano poi il gesto assume una valenza particolare: non dimentichiamo che la testimonianza dei primi martiri era legata a un gesto; un gesto che si rifiutavano di compiere, quello di venerare gli idoli, di bruciare incenso agli dei.

La potenza del gesto è grandissima. È tanto più grande nella nostra epoca e nella nostra civiltà. La comunicazione sembra affidarsi e fare perno sempre di più sulle immagini a scapito di parole e concetti. Anche se è una potenza ambigua, unilaterale. Non implica di per sé una risposta o un’accettazione da parte dell’altro. La sua ampiezza stessa se da un lato lo rende di grande impatto, immediato e suggestivo, dall’altra mantiene libero chi ne è testimone e lo riceve di attribuirgli il significato e la valenza che vuole. Semplificando: la parola, il “logos” chiude nel concetto, mentre l’”icona” è aperta. Ecco, sarà necessario tenere conto di questi elementi quando fra poco entreremo più in dettaglio sui gesti del papa, dei papi, e sul loro significato diplomatico.

Un numero crescente di questi gesti abbiamo visto, nella storia recente della Chiesa, e ne vedremo credo, con il passare degli anni molti altri ancora. Questo può condurre a pensare che la moltiplicazione di questi eventi non sia soltanto un elemento legato alle caratteristiche umane e caratteriali dei singoli personaggi che si sono succeduti sul trono di Pietro, ma che invece ci troviamo di fronte all’uso consapevole e deliberato di uno strumento di comunicazione.

Papi e gesti, ieraticità e umanizzazione
La mia impressione, che vi sottopongo, è che inoltre l’uso crescente di questo genere di comunicazione da parte dei papi sia direttamente legato, e sia una delle conseguenze, della diminuzione progressiva di ieraticità della figura papale, e della sua sempre più marcata umanizzazione. Se noi per esempio prendiamo sotto gli occhi un’immagine famosa, quella di papa Pacelli, Pio XII, in mezzo alla gente del quartiere San Lorenzo, dopo il bombardamento che distrusse il quartiere e fece decine di vittime, ci rendiamo conto di due elementi. Il primo: il Papa con la sua presenza fra la gente lì, fra le macerie ancora fumanti, sta lanciando un messaggio, e al suo gregge e agli autori del bombardamento. E – secondo elemento - vediamo che la sua posizione, il suo gesto, così come ce lo tramandano le fotografie, è estremamente ieratico. È di sicuro uno dei primi gesti “forti” della papalità nei tempi contemporanei, e nello stesso tempo compiuto da una figura, un personaggio decisamente caratterizzato dalla ieraticità che contraddistingueva il Papa all’epoca.

Vedremo più avanti come anche in un personaggio certamente dotato di tocco umano e di bonomia come Giovanni XXIII le distanze – una caratteristica della ieraticità del ruolo papale - vengono ancora mantenute. È certamente un gesto importante, importantissimo – che infatti viene ricordato ancora, nel quartiere, dalle persone molto anziane – la decisione di far fermare la vettura davanti alla sinagoga maggiore di Roma. Era il 17 marzo 1962; era appena finita la funzione del sabato e i fedeli stavano uscendo dalla sinagoga quando la polizia chiese di rimanere immobili. Dopo pochi minuti si vide arrivare il corteo di auto di Giovanni XXIII. Passando davanti alla sinagoga le vetture rallentarono, l’auto papale sollevò il tettuccio e Giovanni XXIII si alzò, guardò i presenti e li benedisse.

Un incontro breve, casuale, ma molto intenso. Un gesto denso, ma sempre a distanza. «Un piccolo grande gesto» lo descrive il rabbino Vittorio Della Rocca, 80 anni, testimone vicino a Elio Toaff dell’inattesa benedizione. Piccolo; ma quando Giovanni XXIII stava morendo, una delegazione della comunità si recò in piazza San Pietro a pregare per lui. E ancora: Giovanni XXIII l’11 ottobre del 1962 suggerì un gesto: «Tornando a casa, troverete i bambini. Date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare, dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza». Giovanni XXIII non carezzò i piccoli, suggerì il gesto. I suoi successori hanno seguito quel solco, e passato un confine. Pensiamo a quello che è accaduto in seguito, a come la carezza o la benedizione ai bambini siano diventati quasi un gesto automatico da parte dei pontefici; per tacere di Papa Wojtyla che li faceva addirittura volare in aria…

Ma torniamo al tema del gesto legato alla crescente umanizzazione del papa. Pensiamo all’abbraccio di Paolo VI ad Athenagoras, che papa Francesco ha voluto ripetere pochi giorni fa con il patriarca ecumenico Bartolomeo. E poi, naturalmente, Giovanni Paolo II, di cui fra poco parleremo almeno un poco, perché certamente è stato – con il suo senso della comunicazione, e nello stesso tempo della poesia e dei simboli – un eccellente creatore e protagonista di gesti.

Le “categorie” dei gesti papali
Ho riflettuto un poco se sia possibile classificare i gesti in categorie precise, a seconda della loro situazione, caratteristica e scopo. L’esperienza mi porta a identificare qualche gruppo di gesti, nella cronaca recente della Chiesa.

Ci sono gesti “indicativi” che tendono a segnare un percorso, mostrare una meta o un modo di comportarsi.

Ci sono gesti più prettamente, religiosamente, simbolici; ogni gesto è simbolico, ma alcuni parlano con più forza di altri del messaggio implicito della Chiesa, e del Vangelo.

Ci sono gesti che vogliono mettere in evidenza, sottolineare un problema, una questione. Sono gesti “evidenziatori”.

Ci sono gesti diplomatici. E a questo punto forse possiamo anche dire che nel campo della diplomazia i gesti possono avere un significato e una valenza duplice. Il gesto può accadere quando la diplomazia intesa come colloquio, scambio di ragioni non è sufficiente, e allora sembra necessario far riferimento a livelli intuitivi, emozionali più profondi e nello stesso tempo più superficiali, epidermici, di rapporto e conoscenza. Il gesto allora può avere una valenza duplice. Riconoscere un’impasse, una debolezza congiunturale: non riesco a procedere sui binari del colloquio, della diplomazia parlata, e allora compio il gesto. Oppure scelgo il gesto come stimolo, per avviare o riavviare un processo che si sta spegnendo.
Poi ci sono i gesti più squisitamente emotivi, che nascono da un impulso del cuore, gesti di compassione, di “sentire insieme”, e manifestati su una strada di espressione fisica.

E, infine, anche alcuni silenzi, scanditi, prolungati, costituiscono dei gesti. E ne abbiamo avuto la prova proprio nel viaggio di papa Francesco in Terrasanta.

Gesti, gli esempi dei papi                                                        
Ecco, abbiamo qui una specie di “griglia” in cui inserire e decifrare di volta in volta quello a cui assistiamo. E continueremo ad assistere, secondo la mia modesta opinione, perché tutto lascia pensare che papa Francesco voglia proseguire nel percorrere una strada imboccata sin dai primi minuti del suo pontificato. Fra i gesti “indicativi” di uno stile nuovo per la Chiesa per esempio, ci viene da citare, così al momento, il modo in cui Jorge Mario Bergoglio appena eletto si è presentato alla loggia centrale della basilica di San Pietro; la sua richiesta di benedizione da parte dei fedeli; la croce di metallo non prezioso, la preferenza per le auto “normali”, la residenza a Santa Marta, l’uso disinvolto del telefono. E nella stessa categoria, parlando di Benedetto XVI, possiamo almeno ricordare la scelta della mitria vescovile, e non della tiara pontificia, per il suo stemma papale.

Fra i gesti “simbolici” di papa Francesco non possiamo dimenticare la lavanda dei piedi, che tanto ha fatto discutere: non più presbiteri, ma dodici giovani di un carcere, fra cui ragazze e musulmani. Mentre fra i gesti eminentemente “diplomatici” io collocherei senza esitazione la visita di Benedetto XVI alla “Moschea Blu” di Istanbul, e la meditazione silenziosa a fianco dell’iman di fronte al Mirhab. Mi ricordo che i giornali della sera istanbulioti spararono la foto in prima pagina, sette colonne su nove, con sopra il titolo “Come un musulmano”. Una presenza che da sola servì a ricucire i rapporti con il mondo islamico, dopo la citazione fatta a Ratisbona sul rapporto fra islam e violenza che aveva scatenato le piazze del Dar al Islam, la porzione di mondo dove i seguaci del Profeta sono maggioranza. E sempre riferendoci a Benedetto XVI, come si fa a dimenticare il gesto più clamoroso compiuto da un papa negli ultimi secoli, cioè la rinuncia al governo della Chiesa?

Giovanni Paolo II, il precursore
A questo punto, prima di esaminare più da vicino il recente viaggio in Terrasanta, non possiamo non parlare di Giovanni Paolo II, che del gesto ha fatto un uso molto ampio, favorito da un’attenzione mediatica assolutamente inedita – fino a quel momento – nella storia della Chiesa e da una sua particolare sensibilità verso tutto ciò che riguardava la comunicazione. E qui ci riallacciamo all’assunto enunciato qualche riga più sopra, e cioè al rapporto diretto esistente, secondo me, fra la progressiva de-ieraticizzazione della figura del pontefice, il suo focalizzarsi sui contorni umani, e l’intensificarsi dei gesti. In questo ambito rientra, anche se non si tratta di un gesto, ma di una consuetudine, l’uso che Papa Wojtyla faceva dell’appartamento papale. Un imbuto al contrario, ha definito papa Francesco, l’Appartamento, preferendo l’alloggio di Santa Marta, che lo fa sentire inserito al centro di una comunità. Wojtyla, che certamente non era un asociale, ha dato una sua soluzione al problema, aprendo l’appartamento: per la messa del mattino, per il pranzo, per la cena. A cardinali e laici, a ospiti qualunque e a vescovi. Continuando le udienze al tavolo da pranzo, e invitando a tavola chi lo aveva appena intervistato, come Jas Gawronski. Cattolici, cristiani, e non. Ci fu chi definì l’Appartamento dei tempi di Wojtyla una locanda. Si racconta addirittura, da fonte autorevole, di un miracolo compiuto in vita a beneficio di un anziano ebreo americano durante la messa nella cappella privata. Ha semplicemente trasportato la sua vita sulla scena pubblica, come mai era accaduto prima; e aprendo la strada a qualunque cambiamento futuro. Che, come abbiamo visto, non è mancato.


Anche dal punto di vista dei gesti, simbolici e diplomatici Giovanni Paolo è stato un vero precursore. Sarebbe lungo ricordarli tutti: dalla visita alla sinagoga di Roma al biglietto infilato fra le pietre del Muro del Pianto all’ingresso nella moschea di Damasco. Alcuni mi sono particolarmente cari: la sosta silenziosa, guardando il mare, della porta della casa sull’isola di Gorèe, in Senegal, da cui partivano gli schiavi. E l’abbraccio a una donna boliviana, che lamentava la povertà della sua gente. Se la visita alla sinagoga, il biglietto al Muro del Pianto possono essere a buona ragione definiti gesti diplomatici, verso Israele e il popolo ebraico, la sosta pensosa a Gorèe e l’abbraccio alla donna di Bolivia sembrano dettati da sentimenti di umana compassione, verso il dolore del passato, e le ingiustizie attuali. E c’è invece tutta una serie di gesti – quelli verso le donne, e le ragazze – che mi paiono particolarmente significativi. E dirompenti. Mi ricordo il bacio in fronte alla ragazza che ha fatto il suo discorso, allo stadio del cricket di Sidney, nel 1986, un bacio in fronte, tenendole la testa fra le mani. E un altro bacio in fronte, un anno prima, al Palasport di Genova. Una ragazza aveva letto il saluto al Papa, a nome di migliaia di altri ragazzi; e Giovanni Paolo II la baciò in fronte. La ragazza poi andò a salutare il cardinale Siri, che le porse l’anello pastorale da baciare. Due mondi, due Chiese. Ma gesti indicativi di una linea di stima e valutazione della donna che Wojtyla sigillerà in un’enciclica, la prima mai dedicata alla metà del cielo, la “Mulieris Dignitatem”.

Papa Francesco in Terrasanta
E veniamo al viaggio di papa Francesco in Terrasanta. Un viaggio breve nella durata - papa Francesco non sembra amare le lunghe permanenze lontano da casa – ma sicuramente molto denso, soprattutto di gesti. Pensando al compito che questi amici mi avevano assegnato ho cercato di seguire ogni momento del pellegrinaggio, con l’attenzione focalizzata sulle espressioni simbolico-gestuali; un compito reso più facile dalla copertura attenta e ricca garantita dal Centro Televisivo Vaticano. E la prima osservazione che mi è venuta in mente è che questo Papa sorride raramente, o almeno ha sorriso molto poco, in particolare nella prima giornata. È vero che le situazioni con cui si è confrontato – guerra, divisioni, assenza di pace, ingiustizie e via dicendo – non ispirano allegria, tutt’altro. Ma l’impressione che ho ricevuto è stata di grande impassibilità. E forse per questo quando il volto si apre nel sorriso colpisce per contrasto con efficacia speciale. “Abbiamo bisogno del suo bel sorriso e della sua buona salute” gli ha detto il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal; ma per parecchie ore, fino all’incontro con i bambini a Betania, il sorriso non è apparso.

Altra notazione: Francesco non è solo un autore di gesti: li provoca, simbolici. Alla Messa di Betlemme ha in mano un pastorale in legno, fabbricato per lui da un gruppo di carcerati italiani prima della Settimana Santa. E un’altra croce, fabbricata con frammenti del muro divisorio fra Israele e i territori palestinesi, la riceve prima della fine del viaggio.

È proprio il Muro di separazione il luogo del primo dei gesti storicamente significativi di questo viaggio. Francesco, fuori del programma stabilito, fa fermare il corteo davanti al Muro, e resta in piedi sotto una grande scritta. “Pope we need some1 to speak about justice. Bethleem looks like Warsaw Ghetto”. “Papa, abbiamo bisogno di qualcuno che parli di giustizia. Betlemme sembra il ghetto di Varsavia”. Appoggia la mano, si ferma in silenzio davanti al cemento. Una foto che provoca reazioni in Israele, un gesto “evidenziatore” di un problema, un gesto che ne porterà un altro, di bilanciamento: l’invito a fermarsi davanti alla lapide delle vittime del terrorismo da parte del premier Netanyahu. Invito che il Papa accetterà.

E poi, a Betlemme, c’è il grande gesto diplomatico del viaggio: l’invito a un momento di preghiera «a casa mia», in Vaticano, per Abu Mazen e Shimon Peres. Ricordiamo le parole di Francesco sull’aereo per spiegare il gesto: «Per questo, si pensava ad una riunione… ma alla fine è uscito questo invito, che spero che venga bene. Ma non sono stati pensati e… non so, a me viene di fare qualcosa, però è spontaneo, è così». Si era dunque ipotizzato, magari, azzardiamo noi, con il Segretario di Stato, un gesto diplomatico da realizzare in loco. Le difficoltà della situazione hanno imposto al Papa l’invenzione di un luogo “neutro”, a cui non era possibile opporre un rifiuto, «casa mia».

Proseguiamo. Con Abu Mazen c’è un abbraccio alla Messa di Betlemme; mano nella mano con il leader palestinese si avvia all’elicottero, e lo saluta con un altro grande abbraccio. Scende dall’elicottero, e dà la mano all’aviere che è sceso prima di lui e ha appoggiato a terra la scaletta. Un altro abbraccio, questa volta al presidente, Shimon Peres; Netanyahu deve accontentarsi di una stretta di mano. E ancora abbracci, questa volta con il patriarca ecumenico di Costantinopoli. Un abbraccio ripetuto, per creare una foto opportunity, al Santo Sepolcro. E ancora: al Muro del Pianto si ripete il gesto dei fedeli israeliti, reso celebre da Giovanni Paolo II, e anche Francesco pone uno scritto, a mano, da lui personalmente, fra le pietre. Il testo di Giovanni Paolo II era un impegno di fratellanza con il popolo ebraico. Francesco ha rafforzato con il biglietto la sua iniziativa diplomatica. Ecco il suo testo: «O Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio di Gesù Nazareno, dal cuore di questa santa Città, patria spirituale di Ebrei, Cristiani e Musulmani, faccio mia l'invocazione dei pellegrini che salivano esultanti al tuo tempio: “Chiedete pace per Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano; sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi. Per i miei fratelli e i miei amici Io dirò: 'Su te sia pace!'. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene"».


Una citazione del salmo 122.  E davanti al Muro del Pianto si abbracciano, e camminano tenendosi abbracciati, Papa, rabbino Skorka e l’iman Omar Abboud. Le tre religioni nella diplomazia dell’abbraccio. Se volete potete “passare” queste icone alla griglia dei possibili significati e moventi, e vedere a quale si adattano di più. Alla luce di quanto abbiamo visto ci sentiamo di affermare che sia proprio l’abbraccio, questo incontro fisico umano primordiale, il simbolo unificatore del pellegrinaggio in Terrasanta.

Così come mi pare sicuro che a Yad Vashem, il memoriale della Shoah, sia stato il cuore che ha ispirato a papa Francesco di baciare la mano ai sopravvissuti dei campi di sterminio, quattro uomini e due donne. E a lungo il Papa è rimasto in piedi, in silenzio, dopo aver pronunciato il suo discorso tremendo, sull’uomo e sulla libertà: «Forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso!». Anche il silenzio è un gesto, talvolta; per esprimere ciò che non può essere detto con parole. Lo sgomento di fronte all’immensità del male. A quell’abisso che è il cuore umano.

La domanda di tutti è: che cosa uscirà da tutto questo? È una domanda a cui, ovviamente è impossibile rispondere. Ma una cosa appare se non certa molto plausibile: che in quella regione straziata da mille conflitti, e da dolori antichi e nuovi, l’immagine ripetuta di gesti di amicizia e comprensione sia stata, e sia, una forma di alta diplomazia; rara ma preziosa.