mercoledì 24 settembre 2014

Le ragioni di un’atea pro-life


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di Kristine Kruszelnicki*
“Esiste davvero un ateo pro-life?”, ha chiesto Marco Rosaire Rossi nell’edizione di settembre/ottobre di The Humanist. “Cosa verrà dopo, gli agnostici del disegno intelligente? O i laici per la sharia?”.
Gli atei possono non avere un papa, ma agli occhi di molti c’è ancora un dogma a cui tutti loro devono aderire. Essere un ateo vuol dire sostenere l’aborto. Non fatelo e verrete denunciati come “segretamente religiosi”. Quando mi sono unita a un agnostico e a un ateo di Secular Pro-Life per un panel informativo alla Convenzione Atea Americana del 2012, un popolare blogger ateo ci ha accusati di aver “mentito sul fatto di essere atei”.
C’è un’ovvia riluttanza ad accettare che esistano pro-life non religiosi. Ma esistiamo. Differiamo un po’ a livello di approcci e filosofie, ma includiamo pensatori atei come Robert Price, autore di “The Case Against the Case for Christ”, lo scrittore ultraliberale Nat Hentoff, i filosofi Arif Ahmed e Don Marquis e l’attivista liberale pacifista Mary Meehan, solo per fare qualche nome.
Quando in un dibattito del gennaio 2008 con Jay Wesley Richards gli venne chiesto se si opponeva all’aborto ed era un membro del movimento pro-life, il defunto autore ateo Christopher Hitchens rispose:
“Ho avuto molti contrasti con alcuni dei miei colleghi materialisti e laici su questo punto, ma penso che se il concetto di ‘bambino’ significa qualcosa, si può dire che anche il concetto di ‘bambino concepito’ significhi qualcosa. Tutte le scoperte dell’embriologia – molto considerevoli nel corso dell’ultima generazione – sembrano confermare questa opinione, che penso dovrebbe essere innata in ciascuno. È innata nel giuramento di Ippocrate, è istintiva in chiunque abbia mai guardato un sonogramma. Per questo la mia risposta alla domanda è ‘sì’”.

Tra i pro-life laici ci sono atei e agnostici consumati, ex cristiani, conservatori, liberali, vegani, gay e lesbiche e perfino pro-life di fede, che comprendono la forza delle argomentazioni laiche di fronte a pubblici laici. La seguente argomentazione contro l’aborto è una prospettiva, e non rappresenta alcuna organizzazione specifica.
Aborto, questione complessa?
L’aborto è una questione emotivamente complessa, piena di circostanze dolorose che suscitano la nostra simpatia e compassione, ma non moralmente complessa: se i concepiti non sono esseri umani ugualmente meritevoli della nostra compassione e del nostro sostegno, non è richiesta alcuna giustificazione per l’aborto. Le donne dovrebbero mantenere la piena autonomia sul proprio corpo e prendere le proprie decisioni sulla loro gravidanza. Se i concepiti sono esseri umani, però, nessuna giustificazione dell’aborto è moralmente adeguata, se una ragione di questo tipo non può giustificare il fatto di porre fine alla vita di un bambino in circostanze simili.
Uccideremmo un bambino di due anni il cui padre abbandona improvvisamente la madre disoccupata per alleggerire il budget della madre o evitare che il bambino cresca in povertà? Uccideremmo una bambina dell’asilo se ci fossero indicazioni del fatto che potrebbe crescere in una casa violenta? Se i concepiti sono davvero esseri umani, abbiamo il dovere morale di trovare modi misericordiosi per sostenere le donne, che non richiedano la morte di una persona per risolvere i problemi dell’altra.

Scienza contro pseudoscienza

Se alcuni sostenitori dell’aborto hanno accusato i pro-life di usare una “pseudoscienza”, nei fatti le prove scientifiche sostengono fortemente le dichiarazioni pro-life secondo le quali l’embrione e il feto umani sono membri biologici della specie umana. Il libro “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology”, del dottor Keith L. Moore, usato nelle scuole di medicina di tutto il mondo, è solo una delle risorse scientifiche che confermano questo fatto. In esso si legge:
Lo sviluppo umano inizia con la fecondazione, il processo durante il quale un gamete maschile o sperma (sviluppo dello spermatozoo) si unisce a un gamete femminile o ovocita (ovum) per formare una singola cellula chiamata zigote. Questa cellula altamente specializzata ha caratterizzato l’inizio di ciascuno di noi come individuo unico”.
A differenza di altre cellule che contengono DNA umano – sperma, ovulo e cellule della pelle, ad esempio –, l’embrione appena fecondato ha la totale capacità di avanzare attraverso tutti gli stadi dello sviluppo umano. Al contrario, sperma e ovulo sono parti differenziate di altri organismi umani, ciascuno con la propria funzione. Fondendosi, entrambi smettono di esistere nel loro stato attuale, e il risultato è una nuova entità con un carattere unico verso la maturità umana. In modo simile, le cellule della pelle contengono informazioni genetiche che possono essere inserite in un ovum enucleato e stimolate a creare un embrione, ma solo l’embrione possiede questa capacità intrinseca autodiretta verso tutto lo sviluppo umano.
Definire l’essere persona
La questione dell’essere persona lascia il regno della scienza per quello della filosofia e dell’etica morale. La scienza definisce cosa sia il concepito, ma non può definire i nostri doveri nei suoi confronti. Dopo tutto, il concepito è un’entità umana molto diversa da quelle che vediamo intorno a noi. Un essere più piccolo, meno sviluppato, situato diversamente e dipendente dovrebbe avere i diritti dell’essere persona e la vita?
Forse la domanda più significativa è: queste differenze sono moralmente rilevanti? Se il fattore è irrilevante per l’essere persona di altri esseri umani, non dovrebbe essere importante neanche quando si parla del concepito. Le persone piccole sono meno importante di quelle più grandi o più alte? Un adolescente che si può riprodurre è più degno di vivere di un bambino che non sa ancora nemmeno camminare? Se questi fattori non sono rilevanti per garantire o aumentare la personalità di chiunque sia già nato, non dovrebbe esserlo neanche per il concepito.
Si potrebbe giustamente affermare che garantiamo maggiori diritti in base ad abilità ed età. Ad ogni modo, il diritto di vivere e di non essere ucciso è diverso dai permessi sociali garantiti sulla base delle abilità e della maturità acquisite, come il diritto di guidare o quello di votare. Non ci viene permesso di guidare prima dei 16 anni; non siamo uccisi e non ci viene evitato di poter mai raggiungere quel livello di maturità.

Allo stesso modo, la coscienza e la consapevolezza di sé, spesso proposte come giusti indicatori della personalità, si limitano a identificare livelli dello sviluppo umano. La coscienza non esiste in un vacuum. Esiste solo come parte della grande totalità di un’entità vivente. Dire che un’entità non ha ancora la coscienza è tuttavia parlare di quell’entità nella quale risiede la capacità inerente di coscienza, e senza la quale la coscienza non potrebbe mai svilupparsi.
Come sottolinea l’ateo Nat Henthoff,
“Dire che lo sterminio può avere luogo perché il cervello ancora non funziona o perché quella cosa non è ancora una ‘persona’ manca un punto fondamentale. Indipendentemente dal fatto che vita venga eliminata alla quarta settimana o alla quattordicesima, la vittima è uno della nostra specie, e lo è stato fin dall’inizio”
L’intrinseca capacità di tutte le funzioni umane risiede nell’embrione perché è un’entità umana completa. Come non si butterebbero via le banane verdi insieme a quelle marce anche se entrambe non possono essere al momento usate come cibo, non si può eliminare un feto che non ha ancora raggiunto una funzione accanto a una persona cerebralmente morta che ha perso permanentemente quella funzione. Eliminare un feto perché non ha ancora raggiunto un livello di sviluppo specifico significa ignorare il fatto che un essere umano a quello stadio dello sviluppo umano funziona come un essere umano di quell’età.
Localizzazione e dipendenza
Ricordando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo a sostegno della sua posizione per cui “gli esseri umani come persone sono nati”, Rossi ha dichiarato: “Il fatto è che la nascita ci trasforma. Ci rende simultaneamente individui e membri di un gruppo, e inserisce in noi protezioni che comportano diritti”.
Questa affermazione è ampiamente fallace. In primo luogo, ciò che è non rappresenta necessariamente ciò che dovrebbe essere. Il fatto che le convenzioni sociali della personalità trascurino il concepito non sorprende, ed è la vera questione al centro del dibattito. In secondo luogo, la nascita non possiede poteri magici di trasformazione. Alla nascita, un essere umano in fase di sviluppo cambia localizzazione, inizia ad assumere ossigeno e nutrienti in un modo nuovo e a interagire con un maggior numero di altri esseri umani, ma un semplice viaggio nel canale del parto non cambia la natura essenziale dell’entità in questione.
Il bioeticista Peter Singer concorda con il pro-life su questo punto. Afferma infatti:
“I gruppo pro-life avevano ragione su un fatto: la localizzazione di un bambino dentro o fuori il grembo non può fare grande differenza morale. Non possiamo dire con coerenza che è giusto uccidere un feto una settimana prima della nascita ma appena il bambino nasce bisogna fare di tutto per mantenerlo in vita”

(Singer poi continua osservando che visto che non c’è alcuna differenza significativa tra un feto che sta per nascere e un neonato, allora l’infanticidio è giustificato). La nascita è indubbiamente un momento significativo nella nostra vita, ma non è il nostro primo momento.
Cosa dire della dipendenza? Sicuramente, un feto è significativamente più dipendente da sua madre che in qualsiasi altro momento della sua vita. Ma gli esseri umani dipendenti non sono pienamente umani? La dipendenza di un gemello siamese dal cuore o dai polmoni del fratello o della sorella gli toglie personalità? Possiamo uccidere adulti fortemente dipendenti o un bambino che non riesce nemmeno ad alzare la testa?
Se la questione è quella che Rossi definisce “l’assoluta dipendenza dalle nostre madri”, si può porre un’altra domanda: perché la dipendenza da una singola persona significa che una persona non è preziosa o degna di vita e protezione? Se un bambino difficile dovesse salire sullo yacht di un estraneo venendo scoperto il giorno dopo in mare, sarebbe temporaneamente dipendente solo dalle risorse del marinaio. Quest’ultimo sarebbe giustificato a gettarlo dalla barca in acque infestate dagli squali?
È inoltre segno di un popolo civilizzato che quanto più vulnerabile e dipendente è un essere umano, più possiamo giustificare la sua morte?
Violenza e autonomia del corpo

Niente aggiunge più emozione al già emotivo dibattito sull’aborto della questione dello stupro. È ad ogni modo fondamentale che non si confonda l’abominio dello stupro e il desiderio di confortare la vittima con la domanda fondamentale relativa al fatto che le difficoltà giustifichino l’omicidio. Se il concepito è un essere umano, le circostanze del concepimento di una persona non hanno rilevanza sul suo diritto di non essere sterminato.
“Unplugging the Violinist” di Judith Jarvis Thompson (in cui una persona viene rapita dagli amici di un violinista morente che ha bisogno di un rene e costretta a rimanere collegata a lui per nove mesi per salvargli la vita) illustra il dilemma dell’autonomia del corpo, suggerendo l’aborto in casi di stupro.
La Thomson, tuttavia, non riconosce che il rapporto tra un concepito e la madre è diverso dall’unione artificiale di una persona a un estraneo. Il feto non è un intruso. È nella “casa” appropriata per un essere umano della sua età e con il suo stadio di sviluppo. A differenza dei reni, che esistono per il corpo della donna, l’utero esiste e ogni mese si prepara ad accogliere il corpo di qualcun altro. Una donna ha il diritto al proprio corpo, ma un feto ha il diritto all’utero che è la sua “casa” biologica.
Riconoscendo le responsabilità biologiche con cui siamo evoluti come specie, capiamo che se una persona non è sempre obbligata nei confronti di un estraneo, si è invece obbligati a fornire sostentamento e protezione di base al proprio figlio biologico. Una madre che allatta non può reclamare “l’autonomia del corpo” e abbandonare il proprio figlio mentre viaggia, né una madre incinta può abbandonare la propria responsabilità nei confronti del bambino. Se la vittima di stupro non ha scelto quella situazione ed è messa ingiustamente in quella condizione, il suo dovere fondamentale nei confronti del figlio non è meno reale di quello del marinaio nei confronti di un clandestino indesiderato.
L’aborto non consiste semplicemente nello “staccare la spina a un estraneo morente”. L’aborto smembra e uccide quello che altrimenti sarebbe un essere umano sano che è in un’unione appropriata per la sua età e naturalmente dipendente da sua madre. Rebecca Kiessling, concepita in occasione di uno stupro, afferma: “Può essere che quando avevo quattro anni o quattro giorni non fossi uguale a come ero quando mi trovavo ancora nel grembo di mia madre, ma ero innegabilmente me e sarei stata uccisa [per il crimine di mio padre]”.
L’aborto non elimina lo stupro di una donna né la aiuta a guarire. Puniamo lo stupratore, non suo figlio.
Personalmente pro-life – ma la legge non cambia?
Alcuni risponderanno al peso della scienza e della ragione ammettendo di essere “personalmente pro-life” ma di volere che l’aborto resti legale perché possa rimanere sicuro. Senza addentrarsi nelle statistiche sugli aborti legali contro quelli illegali, sui numeri degli aborti effettuati illegalmente nelle cliniche o sul ruolo giocati dagli antibiotici nel rendere l’aborto più sicuro anche prima della Roe vs. Wade, la domanda è sempre quella: sicuro per chi?
Se una persona si oppone personalmente perché crede che l’aborto ponga fine a una vita umana, non ha senso dire che la fine della vita umana dovrebbe rimanere legale per salvare delle vite. Legale o illegale, tutti gli aborti uccidono. A volte la madre, ma sempre il figlio o la figlia.
Conclusione
L’autrice Frederica Matthews-Green ha sottolineato una volta che “nessuna donna vuole un aborto come vuole un gelato o una Porsche. Vuole un aborto come un animale preso in trappola vuole strappare la propria gamba”. La sfida per la nostra società in continua evoluzione è questa: daremo alla donna una sega e l’aiuteremo ad amputare la propria gamba? O siamo abbastanza saggi e capaci da trovare modi creativi per rimuovere la trappola senza distruggere la gamba nel processo – soprattutto quando quella “gamba” è un altro essere umano?
La società può continuare a opporre le donne ai propri figli o possiamo iniziare a parlare di vere scelte, vere soluzioni e vera misericordia – come quelle suggerite da gruppi come Feminists for Life. La filosofia pro-life secolare significa includere i membri più piccoli e più deboli della nostra specie e non escludere i dipendenti e vulnerabili dai diritti di personalità e di vita. Siamo evoluti come specie in una comunità complessa e interdipendente che sta eliminando gradualmente pregiudizi come il razzismo, il sessismo e la discriminazione nei confronti dei disabili.
Bandiamo ora la discriminazione letale dell’età.
Con le parole della Pro-Life Alliance of Gays and Lesbians, “nessuno di noi è veramente libero fino a che tutti non siamo liberi, con tutti i nostri diritti intatti e garantiti, incluso il diritto fondamentale di vivere senza minacce o vessazioni”.
Possiamo fare meglio dell’aborto.
——
*Kristine Kruszelnicki è direttore esecutivo di Pro-Life Humanists e scrittrice freelance. Risiede a Ottawa (Canada).
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]
fonta: ALETEIA