lunedì 29 settembre 2014

Quella riforma che nasce dal Vangelo



Dal Vaticano II la spinta per una riorganizzazione delle strutture ecclesiali. 

(Vinicio Albanesi) Nell’immediato dopo concilio sorse una polemica, chiamata «delle due Chiese»: una carismatica, l’altra istituzionale. La prima faceva appello ai carismi e alla profezia, la seconda rispondeva con l’istituzione e la legge. Letta oggi, quella polemica ha poco senso: ogni creatura umana vive la condizione di essere corpo e spirito, individuale e comunitario. Il Vaticano II aveva ben presente questa situazione quando affermava: «La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino» (Lumen gentium, 8). 
Proprio questa complessità va, di epoca in epoca, monitorata, attenti a non tradire lo spirito di Cristo: il resto è tutto relativo e può e deve essere rivisitato. Nell’evolvere storico del complesso rapporto tra dottrina sulla natura della Chiesa e sua organizzazione giuridica si è consolidata una grave frattura tra legge ecclesiastica e richiami evangelici che si riferiscono al discepolato. Al di là delle vicende storiche, credo siano indispensabili, anche parlando di diritto, i richiami ai dettati del Vangelo. La mediazione storica della compilazione della legge canonica ha talmente influito sulle strutture ecclesiali al punto da minarne la relazione con il messaggio evangelico. 
Il richiamo ai valori fondanti del cristianesimo è indispensabile pena la fondazione di una legge che può risultare solo umana, anche se promulgata «per la salvezza delle anime». Il Vangelo di Matteo, nei capitoli 5-7 (con i relativi passi paralleli) descrive la «proposta evangelica»: una serie di indicazioni, destinate da Gesù alla folla che lo ascolta, attorniato dai suoi discepoli. Quella «folla» rappresenta gli abitanti del mondo, a partire dai cristiani. Il celebre «discorso della montagna» inizia con un invito alla gioia (beati!), indirizzato a persone che perseguono comportamenti pieni di saggezza e di rettitudine o che vivono in particolari condizioni di povertà, di sofferenza, di ingiustizia. Conosciamo bene le beatitudini rivolte ai poveri, ai miti, a coloro che piangono, agli affamati e assetati di giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, a coloro che fanno opera di giustizia, a coloro che sono perseguitati.
Le parole del Signore esprimono le linee guida di un progetto di vita personale e comunitaria con una promessa implicita: il credente che seguirà il Maestro su queste vie raggiungerà la pienezza della felicità. Anche ogni legge canonica, finalizzata all’edificazione della Chiesa come comunità di discepoli, trova dunque nel Vangelo non solo i destinatari delle proprie attenzioni, ma anche la strada da percorrere perché gli strumenti umani di organizzazione (compresa la legge) aiutino a vivere nella beatitudine promessa. L’incoraggiamento del Signore è forte: voi siete il sale della terra, la luce del mondo. Poi, con il versetto 17 del capitolo quinto, le indicazioni giuridiche si fanno forti: il Signore vuole dare compimento alla legge e non certo abolirla. Le precisazioni sul non uccidere, sul non commettere adulterio, sul giuramento, sulla crudeltà della pena, sul perdono, sul formalismo, sull’aiuto al povero, sulla preghiera costituiscono una vera e propria «legge fondamentale della Chiesa».
Il capitolo settimo dello stesso Vangelo continua con precetti che riguardano il giudizio tra fratelli, la preghiera, la misericordia reciproca, la verità del cuore, le false indicazioni. La conclusione è chiara: chi osserva la legge evangelica, «colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo, 7, 21), entrerà nel regno di Dio. Ogni legge canonica, ogni legge ecclesiastica deve far riferimento a queste istruzioni. La tensione recente tra legge e Vangelo si ritrova nella storia della Chiesa, tecnicamente descritta come contrasto tra Ecclesia abscondita o spiritualis e Ecclesia universalis o visibilis. È stato Lutero ad aver estromesso il diritto canonico dal contenuto della fede, per aver negato ogni legame tra il dogma e il giuridicismo della Chiesa. Artefice sistematico di questa riflessione è stato Rudolph Sohm (1841-1917), che affermava sinteticamente: «La natura della Chiesa è spirituale, la natura del diritto è mondana».
Molti sono stati i tentativi di coniugare esigenze dello spirito ed esigenze della legge. Rimane profondo l’interrogativo di come la legge canonica, pure necessaria nell’ambito della comunità ecclesiale, si distingua dalla legge umana (sia naturale che positiva) e come possa rimanere fedele ai principi ispiratori del Vangelo. Poiché è necessaria la mediazione tra dettati evangelici e legge ecclesiastica, non può comunque rimanere elusa la domanda sulla migliore legge possibile interprete della sequela di Cristo, visto che molte parti del vigente Codice di diritto canonico sono debitrici più che altro del diritto civile e penale, anche quando trattano argomenti inerenti le cose sacre.
La domanda finale resta: «Quale legge costitutiva della Chiesa, dei sacramenti, dei patrimoni, dei delitti e delle pene è più consona alle indicazioni dei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo e di tutta la parola di Dio?». La domanda che riguarda la legge ne invoca una precedente: quale Chiesa? C’è un nesso profondo tra il volto della comunità cristiana e le sue forme di organizzazione. A fronte della crisi di fede che ha colpito i Paesi occidentali, è naturale interrogarsi sulla natura della Chiesa che suggerisce e garantisce la fede. Riflessione fattasi intensa, a cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II, così da riesaminare le indicazioni del concilio stesso, comprese quelle sull’organizzazione della Chiesa. La difficile spiegazione teologica che accompagna la descrizione della natura della comunità cristiana indica la distanza tra riflessione teorica e vita vissuta dai cristiani che pure vi appartengono. Comunemente la Chiesa è interpretata come organizzazione a capo della quale c’è il Papa, con tutti gli organismi della curia romana. Nel territorio esistono le diocesi con a capo il vescovo; nelle parrocchie vivono i sacerdoti che amministrano i sacramenti. Infine vi sono i «cristiani semplici», chiamati laici, i quali sarebbero i destinatari degli insegnamenti della gerarchia. Non è una lettura grossolana, ma esperienza di vita che indica la distanza tra fede vissuta e fede proposta. Una distanza che è diventata insopportabile, perché sembra che le parole «teologiche» e quelle «di esperienza» descrivano due realtà diverse e incomunicabili. Da una parte la riflessione di pensiero e dall’altra l’esperienza vissuta. Tale divario non è attribuibile frettolosamente a chi è fedele periferico, ma indicatore di una concezione della Chiesa che si è strutturata come organizzazione nella quale esistono gli addetti alle cose sacre (il clero e i religiosi/e) e i destinatari delle loro parole e decisioni (i fedeli laici).
Tale difficoltà è poco avvertita dai pensatori (teologi, giuristi, liturgisti, pastoralisti) e dalla gerarchia; è invece molto sentita dal clero a diretto contatto con le persone che hanno fede, ma che mal sopportano la distanza tra la fede vissuta e un’organizzazione lontana, verticista e spesso in contraddizione con quanto le indicazioni evangeliche suggeriscono. Una difficoltà reale, espressa da chi non vuole ridurre la Chiesa a un riferimento puramente spirituale, ma chiede con insistenza una modifica del funzionamento ecclesiale, diventato troppo clerico-centrico. Il riferimento per una revisione della concezione della Chiesa è la riflessione offerta dal Vaticano II: da qui dobbiamo ripartire per verificare se e come l’organizzazione della comunità cristiana corrisponda alle nuove esigenze pastorali.
L'Osservatore Romano