giovedì 23 ottobre 2014

Lo stupro uccide la famiglia. E la voce del Papa risveglia le coscienze



A colloquio con Denis Mukwege, vincitore del premio Sakharov. Lo stupro uccide la famiglia. E la voce del Papa risveglia le coscienze

(Sandra Isetta) Denis Mukwege ha una figura imponente, anche i suoi movimenti trasmettono una certa solennità, forse è la regalità del giusto, di colui che è in pace con Dio. Ma non con gli uomini. I suoi occhi scurissimi, profondi come i grandi laghi africani, rispecchiano un dolore antico, stanco, ma non sopito. 
Quando gli dico che l’intervista è per l’Osservatore Romano si illumina. Gli regalo l’inserto di «donne chiesa mondo» sull’Africa, si compiace di questo interesse per le donne ma scrolla il capo e guarda lontano: «È incredibile vedere quello che gli uomini riescono a fare alle donne, non sembrano essere umani. 
Compiono violenze che nemmeno gli animali sarebbero in grado di fare. Io nutro una grandissima ammirazione per Papa Francesco, abbiamo bisogno di un Papa così, che parla con semplicità all’orecchio ma le sue parole poi volano in alto. C’è bisogno della voce del Papa per denunciare questi crimini». 
In quattordici anni, Denis Mukwege ha curato circa quarantamila donne vittime dello stupro di guerra, «donne spezzate, rovinate, svestite della loro umanità. La neonata più piccola che ho operato per l’utero perforato aveva sei mesi e la donna più anziana aveva più di ottant’anni. Lo stupro di guerra è un’arma pianificata di genocidio. C’è infatti un’orribile metodicità nella pratica dello stupro che viene compiuto in pubblico e in presenza di familiari e poi seguito da torture sull’apparato genitale per impedire la riproduzione. Lo stupro di massa — trecento donne violentate in un’unica notte e in un unico posto — segue lo stesso modello di traumatizzazione delle decapitazioni mediatiche praticate dall’Is».
Uno sterminio ancora in atto nel Kivu sud, zona strategica per l’approvvigionamento di risorse minerarie come oro e tungsteno, ma si combatte soprattutto per il coltan e la cassiterite, materiali indispensabili per costruire pc e cellulari, come racconta Colette Braeckman nel libro Muganga. La guerra del dottor Mukwege (Roma, Fandango, 2014, euro 16, pagine 190). Ma chiediamo direttamente a muganga (“medico”, in swahili) di raccontarci la sua storia. 
Una vita consacrata alle donne. Doppiamente consacrata. Lei è un pastore — come suo padre — e ha sempre aiutato e curato le donne, anche prima dell’orrore degli stupri di guerra. Perché ha sentito l’esigenza di diventare ginecologo per aiutare le donne del suo Paese, già dagli anni Ottanta?
Ho sentito fin da bambino la vocazione di fare il medico, stando accanto a mio padre, un pastore protestante, che nel suo ministero portava assistenza ai malati. Subito volevo fare il pediatra, infatti mi sono laureato in pediatria. Arrivato però nel mio Paese, ho visto il numero di donne che morivano ogni giorno nel dare alla luce i bambini e ho avuto un vero e proprio choc nel vedere le condizioni in cui le donne portavano avanti le gravidanze e poi partorivano. Ho capito così che la mia vocazione era diventare ostetrico e aiutare le donne, per contenerne la mortalità durante il parto, che è elevatissima nel mio Paese.
Nel 1999 ha scoperto un nuovo volto della guerra, sui corpi devastati delle vittime. Un numero infinito, una cosa incredibile, «sovrumana»: ho letto che nel suo ospedale sono state curate quarantamila donne, con una media di tremila casi per anno. Il suo lavoro di muganga è diventato una missione umanitaria, per denunciare questi stupri di massa come arma di guerra. Vedendo tanto orrore accadere nell’indifferenza del mondo, la fede del pastore ha vacillato?
No, mai. La mia fede non ha mai vacillato. Considero il mio lavoro alla luce dell’insegnamento del nostro maestro, Gesù Cristo, che durante tutta la sua missione ha curato i malati, li ha aiutati, sollevati. Quando mi portano dei malati, nella mia fede cristiana, penso che Gesù ha avuto “com-passione”, e che noi dobbiamo compatire, soffrire insieme ai nostri fratelli. Per questo la mia fede non solo non si è indebolita, ma è divenuta più forte. Di fronte agli autori di questi crimini, di fronte a questi assassini, penso che ogni uomo abbia libertà di scelta, di fare il bene o di fare il male. Il bene è dentro ognuno di noi, tutti possiamo compierlo. Il fatto che alcuni scelgano di fare il male non può indebolire la nostra fede, anzi ci sollecita sempre più a divenirne consapevoli. Nel mio Paese ci sono due tipi di criminali: bambini e adulti. Il primo tipo sono bambini presi tra i 10 e i 13 anni, che vengono iniziati dagli adulti a fare il male, a distruggere la comunità, alla violenza, allo stupro. Sono bambini che subiscono un lavaggio del cervello per istruirli a fare del male e sono anche vittime, afflitte dalla sindrome dello stress post-traumatico. Credo che sia necessario farsi carico di questi giovani e curarli perché sono malati. La seconda categoria è quella degli adulti che io considero dei vigliacchi, perché non sono inconsapevoli, scelgono la violenza, sanno di distruggere dei bambini, di trasmettere le malattie. Sono dei vigliacchi che devono assolutamente rispondere dei loro crimini davanti alla giustizia. Ma questi uomini che compiono il male non devono indebolirci nella fede, anzi interpellano il nostro senso di responsabilità a parlare con loro. 
Ha incontrato qualcuno di questi assassini?
Sì, ho incontrato e potuto parlare con alcuni di loro: non riescono a guardarti negli occhi, sanno di essere dei criminali. Sono criminali che devono rispondere alla giustizia, è una cosa orribile che un adulto formi un bambino alla violenza, a compiere azioni terribili, questo è un crimine enorme. Ma non si è fatta giustizia, questi assassini vestono divise, hanno ricevuto gradi militari e promozioni, come se niente fosse accaduto. È triste. Soprattutto per le vittime, che vivono un senso di oppressione permanente nel vedere come questa persona che li ha distrutti non solo è rimasta impunita, ma è stata gratificata e premiata. È veramente duro. Devono essere giudicati, la giustizia non è vendetta, è un atto che restituisce alla vittima, alla persona, quanto gli è stato strappato e non applicare la giustizia è tenere nel pregiudizio le vittime. Non si possono perdonare semplicemente i colpevoli senza che paghino il loro debito, è pericoloso: non avere fatto giustizia è come conservare un seme della violenza che prolifera di nuovo. Lasciandoli impuniti, non si interrompe la catena della violenza, ci saranno sempre adulti criminali che formano bambini criminali. 
C’è stato un accanimento particolare contro le donne cristiane ?
Come si sa, lo stupro di massa è un metodo per distruggere l’edificio sociale, un metodo per annientare comunità intere. Quando ho cominciato a lavorare nel mio Paese, le prime persone che ho visto cadere vittime di questa pianificazione di morte sono stati dei preti con cui lavoravo nell’ospedale di Lemera, poi è stato ucciso l’arcivescovo di Bukavu, quindi sono stati distrutti molti conventi e missioni. Il mio Paese è molto cristiano. Credo che la donna rappresenti un grande valore nella società, come la Chiesa: distruggere la Chiesa ha la stessa finalità dello stupro di massa delle donne, l’abbattimento dei valori più alti della società. Per tutta la famiglia, la mamma è la rappresentazione della dignità, la rappresentazione della fedeltà e della credibilità: e dunque se viene viola-ta in pubblico non c’è più dignità e cre-dibilità, sono distrutti i valori della famiglia. Allo stesso modo uccidere suore, pastori, religiosi è fare anche di questa fede in Dio un obiettivo, per far crollare il tessuto etico sociale: la classe familiare insieme a quella religiosa. Franano insieme la famiglia e la Chiesa, i fondamenti della società.
Oltre che con le operazioni chirurgiche, che sono già dei veri miracoli, come aiutate le donne che sono sopravvissute alla violenza?
Il nostro è un aiuto olistico. All’inizio facevamo solo operazioni chirurgiche, poi ci siamo resi conto che non erano sufficienti. Adesso facciamo quattro tipi di intervento: dopo il chirurgo, operano in sinergia lo psicologo, l’assistente socio-economico e legale. Forniamo un accompagnamento giudiziario, per dare alla donna vittima di stupro la possibilità di rientrare nella società, perché non riceva solo pietà attraverso l’aiuto economico, ma anche un supporto psicologico nel percepire che quello che ha subito è stato riconosciuto dalla società come violenza, di cui non ha colpa, e che il colpevole è stato assicurato alla giustizia: una giustizia riconosciuta e una riparazione avvenuta. Penso che questo sia un fattore molto importante nel percorso di guarigione. Senza giustizia non ci sono diritti. In questo modo la donna può rientrare nella società, che ne ha bisogno. 
Lei ha dichiarato che gli uomini che accetterebbero di sposare le donne vittime di stupro di guerra rifiutano però i bambini nati dal frutto della violenza. I cristiani sono più disposti ad accettarli? Qual è l’importanza del fattore religioso? 
La Chiesa collabora con noi e ha sempre aiutato molto nella mediazione famigliare, ha un ruolo chiave per tenere unita la famiglia nel sacramento del matrimonio. Grazie alla Chiesa oggi abbiamo sempre più ricongiungimenti famigliari, famiglie che malgrado la tragedia vissuta tornano a vivere insieme. La riabilitazione della donna stuprata è al centro del conflitto sociale tradizione-Chiesa: i religiosi hanno aiutato gli uomini a capire che lo stupro è un atto subito, non volontario, che le donne violate meritano il rispetto sociale. Credo che la Chiesa possa aiutare molto nella mediazione famigliare, tra donna, uomo, bambino. L’aborto è illegale in Congo, è prevista una pena di cinque anni per chi lo pratica. Disgraziatamente, alcune donne cercano di abortire clandestinamente con metodi orribili, in situazioni non presidiate medicalmente: arrivano poi nel nostro ospedale in setticemia e in condizioni molto difficili. Tentano l’aborto soprattutto le donne che hanno vissuto devastanti esperienze di schiavitù sessuale.
Come descriverebbe l’aiuto delle religiose, delle suore missionarie? Sono numerose?
Le suore hanno un’altissima formazione medica, sono loro che hanno aperto centri di formazione e di cura. Io lavoro con una suora di Bunyakiri: non ho mai visto una persona così energica, così impegnata in favore delle donne. Sono veramente impressionato da questa suora. La vedo correre in auto per portare le malate in ospedale, per nasconderle, proteggerle. Per noi sarebbe difficile fare il nostro lavoro senza di lei. Dimostra una forza eccezionale, malgrado le minacce di morte che riceve per avere accolto tante donne, per averle curate e accompagnate nel recupero. Per proteggerla preferisco non dire il suo nome. 
Le Nazioni Unite, o altre associazioni, danno un contributo specifico per le donne vittime di stupro di massa? La maggior parte delle donne sono infettate dall’Aids, vengono distribuiti contraccettivi e preservativi?
Innanzi tutto il preservativo non serve alle donne vittime di stupro, perché l’obiettivo è infettarle, è un’operazione clinica per spargere la malattia, per far nascere bambini con l’Aids. Informiamo le donne del pericolo dell’Aids conclamato, però non abbiamo la quantità necessaria di questi farmaci, ed è la cosa più grave. 
Quale messaggio, quale appello vuole affidare all’Osservatore Romano? O, in altre parole, come possiamo sostenerla nella sua battaglia? 
Sono convinto che abbiamo bisogno della voce del Papa perché lo stupro delle donne è una nuova arma di guerra che distrugge non solo la persona ma tutta la famiglia, il tessuto sociale. Purtroppo queste conseguenze si trasmettono sulle generazioni: attraverso l’Aids, attraverso i disturbi psicologici dei bambini nati dalla violenza. La voce del Papa può risvegliare le coscienze, perché oggi abbiamo bisogno che gli uomini si ergano a condannare chi distrugge la donna, e che dunque distrugge la nostra umanità. È riduttivo, ma il messaggio che sento di dover portare ovunque è questo: come abbiamo detto stop alle armi chimiche, dobbiamo dire stop agli stupri di massa, che sono un mezzo altrettanto grave di distruzione delle generazioni. Sono entrambe armi di guerra.
Ananas e cipolle per pagargli il biglietto di ritorno
Figlio di un pastore protestante, Denis Mukwege si laurea in medicina nel 1983 presso l’università del Burundi. Nel 1984 riceve una borsa di studio per la specializzazione in ginecologia all’università d’Angers in Francia. Torna nel suo Paese e fonda l’ospedale Panzi a Bukavu nel Kivu Sud, dove si dedica alla ricostruzione degli organi genitali delle donne vittime di violenza sessuale ed è riconosciuto come uno degli esperti mondiali nel trattamento delle fistole. Da anni è impegnato nel far conoscere al mondo la barbarie dello stupro collettivo come arma pianificata di guerra. In un articolo pubblicato su «Le Monde» critica sia l’insufficiente operato dei diciassettemila soldati della locale missione Onu, sia l’esercito regolare reo di violentare le donne esattamente come le milizie ribelli, e accusa l’interesse della Repubblica Democratica del Congo nel mantenere il Paese nell’instabilità. Di particolare importanza il discorso che nel settembre del 2012 ha tenuto alle Nazioni Unite, dove ha ribadito la gravità dell’impunità degli stupri di massa, chiamando in causa pubblicamente la comunità internazionale e il Governo congolese. Passato indenne attraverso otto attentati, è costretto a un soggiorno forzato in Belgio e in Svezia, ma nel 2013 fa ritorno in Congo dove la popolazione lo accoglie con calore lungo tutto il tragitto dall’aeroporto di Kavumu alla città di Bukavu: in prima linea le sue pazienti, che hanno raccolto fondi per pagare il suo biglietto di ritorno vendendo frutta e verdura, ananas e cipolle. (sandra isetta)

L'Osservatore Romano