lunedì 12 gennaio 2015

Domande sulla libertà

Parigi, leader europei al corteo

La risposta della Francia e dell'Europa intera alla dichiarazione di guerra dell'estremismo islamista è stata chiara. Ma quanto avvenuto e i tanti commenti letti in questi giorni mettono in risalto che se tutti siamo d'accordo nel difendere la libertà, nella nostra società ci sono però visioni antitetiche della libertà che portano ad esiti opposti. E in ogni caso si deve essere attenti a non rompere quel delicato equilibrio tra libertà di espressione e libertà religiosa.

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Non siamo Charlie perché non basta la libertà di satira
Osservatorio Cardinale Van Thuân
La strage attuata da militanti del terrorismo islamico presso la sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi induce il nostro Osservatorio ad esprimere alcune considerazioni, dato che quell’atto ha riproposto drammaticamente i gravi problemi della convivenza tra religioni diverse, il senso della democrazia e della libertà di espressione, l’uso della violenza e il terrorismo. Questi gravi problemi sono stati riproposti con la morte violenta di tante persone innocenti cui va prima di tutto il nostro sofferto pensiero di suffragio.
Il terrorismo, di qualsiasi matrice esso sia – ideologica, politica, religiosa – è sempre da condannare. Su questo gli insegnamenti sociali della Chiesa, in particolare quelli degli ultimi Pontefici e segnatamente di Giovanni Paolo II, soprattutto dopo la strage dell’11 settembre 2001, sono inequivocabili. L’azione terroristica, per sua natura, è una forma di violenza nei confronti di persone innocenti. Le idee e le motivazioni di chi le compie, anche quando sono talmente frutto di convinzione da motivare ai loro occhi il sacrificio della loro stessa vita, non possono essere una giustificazione. I terroristi non sono mai “testimoni”. 
In modo particolare desta sgomento il terrorismo “religioso”. Ciò che è contrario alla ragione – aveva detto Benedetto XVI a Regensburg nel settembre 2006 – non viene dal vero Dio. La violenza è contraria alla ragione. Ciò pone il grande problema del rapporto delle fedi religiose con la verità della ragione. Il fanatismo, di qualunque tipo esso sia, non tiene conto di questo rapporto. E’ del tutto evidente che a questo proposito le religioni non sono per niente tutte uguali. Il relativismo religioso della mentalità occidentale pone tutte le religioni sullo stesso piano a questo proposito perché esso stesso ha tagliato i legami con la verità della ragione. Ma le cose non stanno così. La religione cristiana, secondo cui Gesù Cristo è il Logos di Dio, la sua eterna sapienza per cui sono state fatte tutte le cose e la Chiesa è la Sposa del Logos, stabilisce un rapporto profondo e netto tra fede e ragione che, invece, altre religioni non stabiliscono. Nel suo famoso discorso di Regensburg, allora tanto contestato, Benedetto XVI poneva questo problema, lo stesso che in questi giorni è stato posto dall’attacco islamico a Charlie Hebdo
Affrontare questo problema è compito non solo delle religioni, ma anche della politica e della ragione pubblica. Adottare la filosofia del relativismo religioso e mettere tutte le religioni sullo stesso piano significa disarmarsi verso idee e convinzioni che possono anche portare a questi atti. Il rispetto dovuto a tutte le persone non implica una considerazione qualunquistica della diversità tra le varie religioni. Esse possono contenere elementi potenzialmente dannosi per il bene comune. 
E per questo motivo che, mentre aderiamo con convinzione alla condanna del terrorismo, nonaderiamo allo slogan che in questi giorni è stato tanto adoperato nelle piazze e sui media: Je suis Charlie. Se si tratta, con ciò, di difendere la libertà e la libertà di espressione in particolare, va bene. Se si tratta, invece, di sposare l’ideologia di “Charlie”, ossia l’ideologia della denigrazione e dello svuotamento contenutistico della libertà di critica allora non aderiamo. Il pensiero critico è importante ma non è l’unico aspetto del pensiero né sta all’origine del pensare. Si criticano gli errori, il male, il brutto. Ciò avviene perché prima si è affermato il vero, il bene, il bello. Ma criticare tutto e tutti, solo criticare, non ha niente di positivo e svuota la libertà di quanto la rende degna ed umana. Il giornale Charlie Hebdo, in passato, ha più volte manifestato questa sua ideologia dissacratoria di ogni senso, con pesantissime incursioni anche nella fede cattolica. Noi crediamo nella libertà dentro la verità e nei diritti dentro i doveri. Non crediamo in una libertà anarchica e nichilista.
Oggi, quanti manifestano in piazza con la matita in mano e con la scritta Je suis Charlie sul pettointendono difendere la libertà di parola. Ebbene, in Francia la libertà di espressione e di parola viene impedita ormai anche nei confronti di chi difende in pubblico la famiglia tra uomo e donna ed esprime la propria convinzione che non sia giusto il riconoscimento delle coppie omosessuali o permettere loro la filiazione tramite la fecondazione eterologa. Su questo le stesse leggi francesi sono limitative della libertà di espressione. Ne sanno qualcosa i tanti che ne hanno giù subito le pesanti conseguenze. La società francese che oggi, giustamente, difende la libertà di espressione, deve fare però fino in fondo i conti con il suo concetto di libertà. C’è intolleranza in molti aspetti di quella cultura che ora manifesta per la difesa della libertà.  
L’Europa non deve accettare il terrorismo. Per contrastarlo non è però sufficiente fondarsi su unconcetto astratto e quindi ideologico di libertà di espressione. Un concetto vuoto e solo critico non riesce a contrastare nulla, può riempire qualche piazza nei momenti più caldi ma non è in grado di sostenere una vita pensata e vissuta insieme. 

Osservatorio Cardinale Van Thuân Trieste (www.vanthuanobservatory.org)


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Capire Parigi, senza essere Charlie
di Massimo Introvigne

Nel giorno in cui, dai capi di Stato ai calciatori, tutti sono Charlie, molti nostri lettori – che non sono Charlie neanche un po’ – si saranno sentiti isolati, soli contro il mondo intero. Vorrei rassicurarli. Siamo in molti, probabilmente la maggioranza. Per non farsi intimidire si tratta però di dare al «Non sono Charlie» una dimensione culturale, giuridica e politica adeguata. Di questo siamo invece in pochi a parlare, ma – se ci spieghiamo bene e ci organizziamo – possiamo diventare molti.
Occorre anzitutto una premessa, che riguarda il terrorismo islamico. La polizia francese sta ancora cercando di dipanare la matassa, ma è chiaro fin da ora che i terroristi di Parigi non erano «cani sciolti». Avevano contatti reali con la Siria e lo Yemen, erano bene addestrati, e sembra avessero rapporti sia con al-Qa’ida sia con l’Isis. Queste organizzazioni sono entrate da tempo in una fase nuova nella storia del terrorismo ultra-fondamentalismo islamico, che ha come prima priorità quella di creare «emirati» (al-Qa’ida) o un grande «califfato» medio-orientale (l’Isis) che funzionino come veri e propri Stati – s’intende, non riconosciuti da nessuno – i quali battono moneta, hanno una polizia, scuole, tribunali e offrono al mondo l’esempio di aree completamente islamizzate secondo i dettami del fondamentalismo più radicale. Per costituire e difendere questi pseudo-Stati c’è bisogno di molti combattenti. Non bastano quelli reclutati in Medio Oriente. Occorre trovarne tra i musulmani di tutto il mondo, e oggi molti musulmani vivono in Occidente. Per reclutarli serve la propaganda. A differenza di quelli del passato – l’11 settembre, Madrid, Londra – gli attentati attuali non sono tentativi di destabilizzare i governi occidentali o di condizionare la loro politica estera – forse anche i terroristi hanno capito che questa si condiziona già da sola, senza bisogno delle bombe –, ma giganteschi spot per arruolare militanti al servizio del Califfo o degli «emiri» di al-Qa’ida che combattono in Iraq, in Siria, in Somalia, nello Yemen.
Le modalità di funzionamento attuali, nel 2015, di al-Qa’ida e dell’Isis – che sono molto diverse dalle strategie di bin Laden nel 2001 – inducono a pensare che chi ha programmato l’attentato di Parigi – perché è stato programmato, e non è l’opera di pazzi isolati – non avesse come primo scopo quello di «punire» Charlie Hebdo o di reagire alla provocazione rappresentata da certe vignette. La cupola terroristica non è partita daCharlie Hebdo. È partita dalla necessità – lo aveva spiegato un messaggio del leader di al-Qa’ida Zawahiri di un mese fa, uno di quelli che finiscono in un trafiletto a pagina quindici dei nostri giornali – di rilanciare il reclutamento con attentati spettacolari che infiammino l’immaginazione di giovani musulmani occidentali e li spingano ad arruolarsi. Pensando a quale spot per l’arruolamento avrebbe potuto essere più efficace, il terrorismo ha trovato Charlie Hebdo, ideale per un gesto propagandistico popolare perché conosciuto e detestato da tanti musulmani. Ma avrebbe potuto trovare tanti altri obiettivi. Non dobbiamo dunque cadere nella facile trappola che ci farebbe derubricare come «eccesso di legittima difesa» da parte dei musulmani gli accadimenti di Parigi, così come altri passati che presero a pretesto le «vignette danesi», un film americano e persino il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Per il terrorismo ultra-fondamentalista islamico queste «provocazioni» sono sempre pretesti, elementi sfruttati in chiave propagandistica per creare attentati funzionali allo scopo di reclutare nuovi terroristi alzando una bandiera. Dunque nessuna «comprensione» per gli attentatori. Non sono giustizieri, sono terroristi criminali.
Una volta chiarito chi sono i terroristi e perché hanno agito possiamo cominciare a parlare seriamente anche di Charlie Hebdo, non senza un momento previo – che per il cristiano è sempre obbligatorio – di pietà e di preghiera per i morti, chiunque siano. Pietà e preghiera non significano però approvazione incondizionata di tutto quanto i morti hanno fatto in vita, che nel caso dei vignettisti di Charlie Hebdo comprende disgustose vignette pornografiche sulla Trinità e sulla Madonna. Si ha tutto il diritto di dissentire, senza essere immediatamente accusati di essere alleati di al-Qa’ida, da Giuliano Ferrara che ha descritto i vignettisti diCharlie Hebdo come «splendidi, spavaldi, eroici» (Il Foglio, 9-1-2015), e da Camillo Langone che sullo stesso giornale li ha definiti «martiri», dimenticando – eppure lo conosce – il detto di sant’Agostino secondo cui «martyres non facit poena sed causa», non è il modo in cui ti ammazzano che ti fa diventare martire, ma la causa per cui sei morto. Volendo cercare dei martiri, li si troverà più facilmente tra i duemila uccisi da Boko Haram lo stesso giorno in Nigeria. Capisco bene il discorso simbolico sull’attacco a Parigi cuore dell’Europa: ma resta che duemila morti in Nigeria hanno trovato spazio infinitamente minore di sedici in Francia.
Ma c’è un aspetto ancora più delicato. L’attentato di Parigi ha purtroppo ridato fiato alla tesi secondo cui chiunque discuta di possibili limitazioni al diritto dei vignettisti di offendere le religioni è sullo stesso piano dei terroristi. Non è così. La libertà di espressione fa certamente parte delle libertà fondamentali ma non è assoluta. Diversamente, dovrebbe essere lecito anche ripubblicare le caricature naziste contro gli ebrei. Nel 2011, come molti lettori sanno, sono stato Rappresentante dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Quella esperienza mi convince che trovare il punto di equilibrio fra libertà di espressione – specie quando si presenta, a ragione oppure (come nel caso di Charlie Hebdo) a torto, come espressione «artistica» – e libertà religiosa, che comprende il diritto delle persone e delle comunità religiose a non essere offese, è una questione molto delicata e giuridicamente complessa. Se il pendolo va troppo dalla parte del diritto delle comunità religiose a essere tutelate dalle offese, ci troveremo con i musulmani che considerano qualunque rappresentazione critica come islamofobia e ne chiedono la repressione penale. Ero tra i relatori alla conferenza dell’Osce sull’islamofobia che si tenne a Vienna nel 2011. Per fortuna prevalse il buon senso, ma diversi Paesi musulmani chiedevano direttive internazionali che avrebbero messo fuori legge qualunque critica dell’islam, una specie di versione planetaria delle leggi contro la blasfemia in nome delle quali si condannano all’impiccagione cristiani come Asia Bibi in Pakistan. Se però, spaventati da queste proposte, lasciamo che il pendolo vada troppo dalla parte della libertà di espressione indiscriminata, assoluta e senza nessun limite ci ritroveremo, anzi ci siamo già ritrovati, con le vignette porno sulla Trinità e la Madonna. 
Occorre dunque uno sforzo culturale e giuridico per far riflettere almeno chi è ancora disponibile a pensare sul fatto che l’Occidente si vanta a ragione della sua nozione ampia della libertà di espressione, ma ampia non significa senza limiti, e anche le vignette possono diventare strumento di quell’intolleranza che è il terreno su cui nascono la discriminazione e la persecuzione. Aiutiamo chi ne dubita a riflettere su come le vignette della stampa popolare nazista, che dipingevano gli ebrei con l’occhio torvo e il naso adunco intenti a divorare bambini tedeschi, abbiano contribuito – e non poco – a creare un clima in cui molti in Germania hanno tacitamente approvato le leggi antisemite di Norimberga e le deportazioni.
Oppure sfogliamo la collezione di Charlie Hebdo e prendiamo un esempio, e non scelgo quello ovvio della fin troppo famosa vignetta dove il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono raffigurati, con tutti i dettagli, impegnati in un rapporto a tre omosessuale. Dopo che un certo numero di militanti islamici sono stati massacrati in Egitto, Charlie Hebdo ha pubblicato una copertina dove vediamo un musulmano crivellato di colpi mentre cerca di difendersi facendosi scudo con il Corano. ll commento è: «Il Corano è una merda. Non ferma le pallottole». Per spiegarsi meglio, il disegno raffigura un Corano dal sospetto e sgradevole colore marrone. Prendo questo esempio perché qualche giornale italiano lo ha riprodotto, esaltandone la fine ironia. Dal momento che qualcuno ora minaccia un’edizione italiana di Charlie Hebdo mi chiedo che reazioni susciterebbe, sugli stessi giornali, una prossima copertina, la prima volta che la mafia ammazza un poliziotto o un giudice, con il Corano sostituito dalla Costituzione, e il commento: «La Costituzione è una merda. Non ferma le pallottole». Sarebbe disgustoso e da condannare senza se e senza ma, con sequestro del giornale in edicola? Certo che sì. Ma perché offendere gli italiani dovrebbe essere illecito e offendere i musulmani o i cristiani no?
Trovare il punto di equilibrio giuridico fra libertà di espressione e libertà religiosa è un esercizio difficile e serio. Non possiamo risolvere la questione né scrivendo intemperanze su Facebook né indossando una maglietta «Je suis Charlie». Capire quello che è successo a Parigi senza essere Charlie: richiede riflessione e pacatezza, ma si deve e si può.

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Per quale libertà vogliamo lottare
di Riccardo Cascioli

Diceva oltre un secolo fa lo scrittore inglese G.K. Chesterton che il grave errore delle Scienze sociali è l’uso dello schema medico, ovvero cercare di definire la malattia prima di ricercare la cura. Ma nella società umana, avverte Chesterton, questo schema porta in un vicolo cieco, il rimedio non si trova mai. «In ambito sociale – spiega – ci si deve prima curare della piena definizione di uomo e della sua dignità, prima di considerare i suoi mali». Vale a dire, che è facile e ovvio essere d’accordo su ciò che è male, il problema nasce quando passiamo a definire il bene, perché non c’è dubbio che quello che una parte della popolazione considera bene, un’altra parte lo considererà un male peggiore. Queste riflessioni mi sono tornate in mente guardando l’oceanico corteo umano che ieri ha attraversato Parigi e le altre analoghe manifestazioni in tutta la Francia. 
In effetti il terrorismo, la violenza cieca del fanatismo religioso è un male evidente su cui tutti siamo d’accordo: per quel che è successo a Parigi il 7 gennaio – come altrove nel mondo – non ci può essere alcuna giustificazione. Il problema – e la divisione – nasce quando passiamo a definire come è possibile fermare tale fanatismo, come si costruisce – o su quali valori si costruisce - una società dove diverse culture possano convivere pacificamente.

Tutti siamo stati concordi nel definire la strage del Charlie Hebdo e dell’ipermercato Kosher «un attacco alla libertà». Ma è quando andiamo a definire cosa sia la libertà che allora le strade si dividono e si comprende che quel popolo così unito in piazza contro il terrorismo ben difficilmente lo sarà domani quando si tratterà di decidere cosa fare per difendere la libertà.
La libertà, per chi condivide il pensiero dei giornalisti di Charlie Hebdo, è totale assenza di legami, disconoscimento di ogni paternità. Per questo diventa fanatismo laicista, l’obiettivo preferito è la religione, tutte le religioni. È l’espressione di una ragione “ridotta”, secondo la definizione di Benedetto XVI nella tanto citata quanto incompresa lezione di Ratisbona, una ragione che esclude la possibilità del divino. È l’altra faccia – sempre seguendo Benedetto XVI - di una fede in un Dio che agisce anche contro la ragione, come avviene nell’islam, e produce perciò quel fanatismo cieco cui stiamo assistendo.

Ma tornando all’Occidente, diceva papa Ratzinger, «una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture». È la fotografia dell’Europa odierna, che ad esempio fa ancora fatica a capire il fallimento del multiculturalismo.

Di più: siamo di fronte – diceva il cardinale Giacomo Biffi nel 2000 nella famosa lettera alla città di Bologna - a una «ricerca della ”libertà senza verità", che finisce col mortificare la dimensione etica della vita. In conseguenza di questa libertà incondizionata e vuota di valori, l’uomo è insidiato nella sua stessa dignità e perfino nella sua sopravvivenza: le fantasie genetiche, il crollo della natalità, il disprezzo della vita umana (soprattutto con la vergognosa legalizzazione dell’aborto), la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell’istituto della famiglia e il permissivismo dilagante ne sono i segni più manifesti». 
E una libertà senza verità tende a diventare totalitarismo, arbitrio del potere. Così succede oggi: tutti difendono la libertà di Charlie di offendere e bestemmiare, nella stessa Francia dove appena pochi mesi fa la polizia picchiava e arrestava tranquilli padri di famiglia colpevoli di essere in piazza a chiedere il rispetto della famiglia naturale. E anche in Italia i soliti giornaloni e leader politici si stracciano le vesti per la minaccia alla libertà di satira proprio mentre stanno cercando di impedire che a Milano si svolga un convegno in difesa della famiglia naturale, mentre infamano le Sentinelle in piedi e vogliono tappare la bocca a tutti coloro che rifiutano l’ideologia omosessualista.
La libertà senza verità si trasforma inesorabilmente nella libertà di dire solo ciò che vuole il potere, qualunque esso sia.
Nella tradizione cristiana, che ha forgiato l’Europa facendone una grande civiltà fondata sul valore sacro della persona – perché immagine e somiglianza di Dio -, la libertà è invece adesione al vero, è fare il bene, cercare e vivere nella verità. È questo attaccamento alla verità che nei secoli ha permesso sia di integrare nuove popolazioni sia di difendersi da aggressioni. L’islam più volte nella storia ha cercato di conquistare l’Europa con la forza ma alla fine è sempre stato respinto, e grazie alla fede di un popolo per cui la libertà consisteva nell’appartenenza alla Chiesa.
Oggi invece l’islam trova “la cultura del niente”, come l’ha definita sempre il cardinale Biffi nella già citata lettera. Così che quanto accaduto a Parigi sembra rappresentare ciò che ancora Biffi aveva profetizzato: «Io penso che l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l’atteggiamento dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa “cultura del niente” (sorretta dall’edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all’assalto ideologico dell’islam che non mancherà». Da qui l’unica strada possibile: «Solo la riscoperta dell‘avvenimento cristiano come unica salvezza per l’uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell’antica anima dell’Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto». 
Prima di qualsiasi analisi sul male del terrorismo, dunque, dobbiamo scegliere quale libertà vogliamo perseguire. Da domani non basta più dire “Non sono Charlie”, dobbiamo dire chi siamo.