sabato 8 agosto 2015

Nuovi romanzi religiosi




Il  tweet di Papa Francesco: "Siamo tutti peccatori. Lasciamoci trasformare dalla misericordia di Dio." (8 agosto 2015)

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Pubblichiamo un articolo uscito sul quinto numero della «Rivista del Clero Italiano», il mensile di aggiornamento pastorale e cultura religiosa dell’Università cattolica del Sacro Cuore fondato nel 1920 ed edito da Vita e Pensiero. Nel saggio Lucetta Scaraffia riflette sul ritorno del cristianesimo nella narrativa contemporanea.
(Lucetta Scaraffia) Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ero bambina, in occasione della prima comunione ricevevamo in dono romanzi di carattere religioso. Le copertine cartonate, illustrate a vividi colori, ci introducevano a una versione in genere ridotta — gli originali erano mattoni lunghissimi — di romanzi come FabiolaQuo vadisBen Hur. Queste letture erano considerate un buon complemento della nostra educazione religiosa, fino a quel momento basata soprattutto sul catechismo di Pio X, che si imparava a memoria, e su un’edizione adattata ai bambini dei Vangeli o, più raramente, del Nuovo Testamento.
Si trattava di romanzi scritti nella seconda metà dell’Ottocento —Fabiola (1854) del cardinale inglese Nicholas Wiseman, Ben Hur(1880) del generale e politico statunitense Lew Wallace, Quo vadis(1894) del polacco Henryk Sienkiewicz — che avevano conosciuto uno straordinario successo e traduzioni in molte lingue, nonché riduzioni teatrali e cinematografiche, moltiplicatesi soprattutto nella prima metà del Novecento, ma anche ben oltre. Il romanzo di Wiseman aveva fatto diventare di moda alcuni nomi di battesimo, come Fabiola e Tarcisio, giovane martire cristiano, mentre lo scrittore polacco Sienkiewicz era stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1905 proprio per Quo vadis, che è tuttora il marchio di una celebre agenda. A Ben Hur poi la palma di un duraturo successo cinematografico in diverse versioni, grazie all’epica corsa delle bighe, che tornerà nel remake annunciato per l’inizio del 2016.
Tutti e tre avevano come oggetto gli anni eroici, e per questo emozionanti, del primo cristianesimo, fra persecuzioni e grandi conversioni. In Ben-Hur. A Tale of the Christ il protagonista addirittura incontra Gesù, che è sullo sfondo dell’intera vicenda, come indica il sottotitolo. Ma i personaggi principali restano sempre figure marginali alla grande tradizione religiosa — accade anche per Pietro, che pure al romanzo del Nobel polacco suggerisce il titolo, ricavato da un’antica tradizione apocrifa — ai quali non si applica l’inventiva dello scrittore. Nessuno di loro, infatti, ha il coraggio di confrontarsi direttamente con i grandi protagonisti (Gesù e gli apostoli, Maria), per i quali devono bastare le parole, controllate dalla Chiesa e sicuramente ortodosse, dei testi canonici.
In sostanza, anche i più popolari scrittori dell’Ottocento, e persino un cristiano non legato ad alcuna denominazione come Wallace, si fermavano con rispetto davanti alle vicende umane di figure divenute modelli fondanti della fede, e le descrivevano solo per brevi tratti, in medaglioni che confermavano l’immagine ieratica tradizionale. Sono romanzi a contrasto secco e prevedibile: i cristiani, o coloro che si convertiranno, buoni, gli altri malvagi. Testi ritenuti i regali più adatti ai giovani anche nei decenni successivi alla prima metà del Novecento, durante i quali — almeno per quanto riguarda la narrativa a tema religioso — non cambia niente. Questi sono i modelli più importanti a cui si ispireranno molti romanzi di area cattolica, distribuiti da editori cattolici e in genere di modesto — o addirittura modestissimo — valore storico e letterario. Al di fuori di questo gruppo di libri, che a poco a poco esce di moda, nulla: la religione sembra scomparire come argomento letterario, sostituita dalla politica, dal sesso, dall’ambizione e dal degrado. Le prime comunioni sono diminuite drasticamente, anche perché sono diminuiti i bambini, e ai pochi comunicandi, invece che Quo vadis, vengono regalati libri comeSiddharta di Hermann Hesse o Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, che garantiscono una educazione morale laica e interculturale, politicamente corretta.
Questa situazione, che si potrebbe definire di secolarizzazione affermata se non trionfante, si interrompe bruscamente in questi ultimi, anzi, ultimissimi anni, quando la religione torna prepotentemente al centro delle narrazioni di alcuni dei più celebri scrittori di oggi, segnando addirittura grandi successi letterari. Tutto ciò nello stupore generale, nello sconcerto di una critica che sembra avere perso la capacità di giudicare un’opera letteraria, e si trova in difficoltà a spiegare l’inaspettato e clamoroso successo di libri come Il regno di Emmanuel Carrère,Sottomissione di Michel Houellebecq, Giuda di Amos Oz e La ballata di Adam Henry di MacEwan.
Intanto bisogna dire che nessuno di questi libri è scritto da un devoto credente, con l’intento di fare propaganda alla sua fede, anzi è il contrario: ai temi religiosi si avvicinano scrittori che mai li avevano trattati prima, che forse neppure ci avevano mai riflettuto. Tuttavia, non per questo scrivono animati da spirito antireligioso, e più specificamente anticristiano, ma piuttosto spinti da genuino interesse e da una passione autentica. Di qui le caratteristiche che li accomunano, e cioè la freschezza di linguaggio e il punto di vista nuovo, talvolta perfino scanzonato, con il quale trattano temi che sono stati sempre considerati gravidi di questioni teologiche e passibili di attirare sull’autore anatemi della Chiesa. È evidente che per questi libri l’imprimatur delle gerarchie ecclesiastiche non viene considerato né necessario né desiderabile, e forse anche per questo gli autori si sentono liberi di mescolare a temi religiosi episodi erotici, fenomeno in questo modo mai registrato. Si è quindi generata una sorta di nuovo filone narrativo che si potrebbe perfino definire erotico/religioso e nel quale, però, la novità e lo scandalo sono costituiti dalla scelta del tema religioso, e non certo di quello, ormai fin troppo abusato, delle descrizioni erotiche.
Solo in uno dei romanzi citati, La ballata di Adam Henry di Ian MacEwan, il tema erotico viene adombrato con leggerezza, ma nello stesso tempo negato fin dall’origine. Per la matura magistrata inglese che bacia il giovane al centro di una sua importante sentenza si tratta infatti più di una questione di maternità rimossa che di eros. E il romanzo di MacEwan è diverso anche perché non vi compaiono personaggi della Bibbia, ma il dilemma religioso tipico dei nostri giorni, quello della scelta fra scienza e fede. Un ragazzo — Adam, ancora per poco minorenne — sta morendo di leucemia. Una trasfusione potrebbe salvargli la vita, permettendo la prosecuzione della terapia, ma i genitori la rifiutano per motivi religiosi. Chiamata a decidere della sorte del ragazzo è una magistrata in carriera, tanto appassionata del suo lavoro da rinunciare alla maternità e trascurare il suo matrimonio. Il caso del ragazzo si snoda contemporaneamente alla crisi matrimoniale che lei sta vivendo e che apre una crepa improvvisa nella sua tranquilla vita di donna benestante e affermata.
E il caso si svolge anche contemporaneamente alla sua normale attività di giudice che si occupa di diritto di famiglia e vede sfilare davanti ai suoi occhi sempre più numerose crisi matrimoniali che la mettono di fronte «alla perversa assurdità delle coppie in fase di divorzio». La sua impressione era che le separazioni avessero registrato «un picco delle proporzioni di un’onda anomala, che aveva travolto intere famiglie, disperso proprietà e sogni luminosi, annegato chiunque non fosse provvisto di un poderoso istinto di sopravvivenza. Promesse d’amore abiurate o riscritte, compagni un tempo sereni che si trasformavano in astuti combattenti acquattati dietro i rispettivi avvocati, senza badare ai costi». Una tempesta sociale che non accenna a placarsi, della quale si accorge di diventare lei stessa vittima, quando il marito se ne va.
Accanto a questa disfatta sociale, la famiglia di Adam unita e amorosa, che aveva ritrovato un senso alla vita e un equilibrio nel matrimonio entrato in crisi grazie alla conversione a una setta religiosa, i Testimoni di Geova. Salvare la vita del giovane a tutti i costi accettando la trasfusione significa, per il ragazzo e per i suoi familiari, mettere in dubbio questo forte riferimento esistenziale. Lo scrittore lo chiarisce molto bene: non si tratta di superstizione o tanto meno di circonvenzione da parte degli anziani della setta, ma della fedeltà della famiglia a chi ha risposto a un bisogno profondo. Non è banale il modo scelto da MacEwan per rappresentare la fede religiosa, e ancora più interessante è il fatto che egli riconosca questa capacità di dare senso a una setta culturalmente disprezzata come i Testimoni di Geova. La magistrata capisce benissimo l’importanza che la fede ha assunto in queste vite, e quindi le è chiaro che non bastano le ragioni scientifiche per prendere quella che da fuori sembra la decisione più ragionevole: imporre per legge la trasfusione. Proprio per questo motivo vuole incontrare personalmente il ragazzo, e va in ospedale, dove trova un punto di contatto profondo con lui, poeta e aspirante musicista, attraverso la musica e la poesia. Sono la musica — che amano entrambi — e le strofe cantate insieme, che rivelano al ragazzo stesso la sua voglia di vivere, e a lei la ragione per cui deve obbligarlo alla trasfusione.
Ma non si tratta di un romanzo a lieto fine: dopo un periodo di euforia, Adam entra in una fase di tormento, durante la quale cerca insistentemente delle risposte dalla giudice che, salvandolo, ai suoi occhi si è resa interamente responsabile della sua vita. Responsabile, cioè, di dirgli perché deve vivere, di dirgli qual è il senso della sua vita. La donna, pur affascinata dal giovane, che riapre nel suo cuore la ferita della maternità negata, fugge da questa responsabilità. Anche perché non saprebbe che risposta dare a una domanda di senso così esigente e profonda. Lei stessa sta vivendo una crisi che nasce anche dal suo lavoro, che si fa sempre più difficile: non solo le famiglie che si sfasciano, i bambini senza protezione — neppure più quella dei genitori impegnati a distruggere e ricostruire la loro vita — ma sentenze di ordine bioetico che la costringono a prendere decisioni di vita o di morte. Come il caso di Adam, o quello precedente di due gemelle siamesi, una più sviluppata dell’altra, quando aveva preso la decisione di eliminare la gemella più debole per garantire la sopravvivenza alla più forte. Mentre i genitori, anche in questo caso credenti, chiedevano che venissero lasciate in pace, a morire entrambe quando sarebbe venuto il loro momento.
A cosa serve la religione? Quali sono le ragioni per cui val la pena vivere anche senza Dio? Come ci si può mettere al posto di Dio per decidere se una persona deve vivere o morire? Decisioni sempre più difficili e drammatiche, situazioni emotive sempre più dolorose pesano sulle spalle di persone che non sanno più come orientarsi, che hanno perduto ogni punto di riferimento che non sia la loro razionalità.
Raramente un libro ha messo in luce con tanta drammaticità l’angoscia che pervade la società occidentale contemporanea, orfana di Dio e sola davanti a dilemmi morali sempre più inquietanti. MacEwan rivela il fallimento della secolarizzazione che stiamo vivendo attraverso il racconto della vita di ogni giorno, una vita che è attraversata da dilemmi medici e giuridici che non sappiamo come e perché affrontare. E rivela il dramma di una società che sa solo distruggere la fede, ma poi non ha risposte da dare alle vere domande che l’esistere come esseri umani ci pone.
Alla ricerca della fede, nella speranza che dia non solo una vera ragione di vita, ma anche un’identità forte da contrapporre alla crisi e al disfacimento culturale della società, è anche il protagonista e alter ego del romanzo Sottomissione di Houellebecq. Egli tenta di convertirsi due volte, prima davanti alla Vergine di Rocamadour, poi andando a vivere per un periodo nel monastero di Ligugé, dove Huysmans, il suo autore di riferimento, aveva ritrovato la fede e si era ritirato a vivere nei suoi ultimi anni. Se davanti alla Madonna si era sentito «abbandonato dallo spirito, ridotto al proprio corpo dolorante, perituro», la sua fuga precipitosa dopo due giorni di vita nell’antico monastero nasce da un senso indefinito di irritazione. Per l’impossibilità di fumare in stanza, per il linguaggio sdolcinato, che gli suona irrimediabilmente falso, con il quale si esprimono i monaci nel dépliant che illustra al visitatore la vita del monastero e del quale cita qualche esempio, come «la vita dovrebbe essere un costante scambio amoroso, sia nella prova che nella gioia». La partecipazione a tutte le funzioni liturgiche previste per la giornata, che tanto aveva esaltato l’anima di Huysmans, gli sembra priva di incanto in un edificio che è sì ben conservato, ma costeggiato dalla linea del treno ad alta velocità e da costruzioni industriali. A questa delusione si aggiunge poi quella di vedere con quale facilità la Chiesa in Francia accetta il governo ispirato da principi islamici, che però le permette di sopravvivere in enclave protette e finanziate. La sua conversione all’islam, motivata da innegabili vantaggi — riconoscimenti professionali e stipendio più alto, a cui si aggiunge la poligamia — sembra essere la logica conseguenza di questo fallimento.
Una conversione fallita segna anche l’inizio del romanzo di Carrère, raccontata con sapiente ironia. Anche qui, le motivazioni dell’avvicinamento alla fede nascono da un disagio personale: lo scrittore era caduto in una profonda depressione e il suo matrimonio, dal quale erano nati due figli, era in forte crisi: «C’è stato un momento della mia vita in cui ho creduto». Credere per lui, come lo racconta adesso, è credere a una serie di assurdità — in primis la resurrezione. Spiega l’adesione al cattolicesimo da parte di un intellettuale moderno con queste illuminanti parole: «Siamo orgogliosi di questa follia, perché non ci somiglia, perché facendola nostra sorprendiamo noi stessi e rinunciamo a noi stessi, perché nessuno attorno a noi la condivide». La fede viene letta come un punto estremo di anticonformismo, che garantisce un momento alto di autocompiacimento. E Carrère ne è consapevole: «La mia è una fede non priva di enfasi, di esibizionismo stilistico».
Ma la domanda sulla resurrezione, fondamentale, è vera, e percorre tutto il libro, e ci costringe a domandarci, a nostra volta, se ci crediamo veramente. Ci costringe a prendere atto che se ne parla pochissimo, perfino da parte della Chiesa stessa, come se fosse un argomento leggermente sconveniente.
Anche la moglie, atea, vede in questo avvicinamento del marito al cattolicesimo una possibilità di salvare il matrimonio e lo sostiene di buon grado, accettando anche di celebrare il matrimonio religioso. Ma il matrimonio non si salverà e, dopo meno di due anni, Carrère torna a una rassicurante quotidianità agnostica in cui yoga e psicanalista prendono il posto di preti e preghiere: «Sono diventato quello che avevo così paura di diventare. Uno scettico. Un agnostico — nemmeno abbastanza credente da essere ateo. Un uomo che pensa che il contrario della verità non sia la menzogna ma la certezza».
Ma non è finita lì: siamo solo all’inizio del libro e, per così dire, il bello deve ancora venire. Sempre roso dal problema della resurrezione, Carrère torna sul luogo del delitto, i vangeli, «da investigatore» scrive, ma sarebbe più giusto dire da romanziere, e da grande scrittore. Affrontando il tema da una porticina laterale, cioè da due uomini che si chiamano Paolo e Luca, e in particolare da quest’ultimo, con il quale sente l’affinità che lo unisce a uno scrittore come lui. Da questo momento segue e racconta l’evangelista come se lo vedesse, questo medico greco attratto dalla religione ebraica, che incontra Paolo e ne viene in un certo senso rapito.
I libri di esegesi lo scrittore li legge tutti, così come i libri di storia, ma senza la reverenza che di solito si impone allo studioso. E Carrère non è uno studioso, è uno scrittore che legge solo per trovare altro materiale per nutrire la sua ispirazione. «Ho cercato di zoomare, come si fa con Google Maps, sul preciso punto dello spazio e del tempo in cui fa la sua comparsa il personaggio che negli Atti dice “noi”». E avanza un’ipotesi suggestiva: che Luca avesse condotto un’inchiesta su Gesù in Giudea, quando vi si era recato in compagnia di Paolo, senza far sapere niente a quest’ultimo; e che delle notizie raccolte non avesse parlato con nessuno prima di scriverle, alla fine della vita: «Nel Vangelo dell’infanzia che scriverà in seguito, Luca dice due volte che “tutte quelle cose, Maria le custodiva nel suo cuore”. È quello che deve avere fatto anche lui. Di “tutte quelle cose” che riguardavano Gesù, Luca non sapeva cosa pensare di preciso, e forse non ci pensava spesso, forse non occupavano molto spazio nella sua mente. Ma le custodiva nel suo cuore». E ipotizza che le abbia poi scritte al suo ritorno a Roma, anni dopo la morte di Paolo, per far capire cos’era il cristianesimo al suo protettore Teofilo, al quale i suoi libri sono dedicati.
Leggendo Carrère in fondo non ci importa sapere quanta probabilità hanno di essere fondate le sue supposizioni storiche, perché siamo incantati dalla forza reale dei suoi personaggi: è difficile che un lettore de Il regno non pensi a Luca e a Paolo nel modo che gli suggerisce lo scrittore anche molto tempo dopo la fine della lettura. Troppo avvincenti le sue parole, troppo vivi e umani i suoi personaggi per avere dei dubbi: sembra di sentire le onde, la sabbia, la sete nei viaggi e il sollievo delle affettuose accoglienze dei discepoli durante le soste.
Pur continuando a domandarsi come fanno persone moderne e ragionevoli a credere nella resurrezione, lo scrittore non si esibisce in una facile critica alla Chiesa, ma la difende: «Non mancano motivi per rimproverarle di aver tradito il messaggio del rabbino Gesù di Nazareth, il messaggio più rivoluzionario di tutti i tempi. Ma rimproverarglielo non significa rimproverarle di aver vissuto?». E ricorda che la Chiesa stessa pensa, come i suoi critici più violenti, «che quei due o tre anni in cui Gesù ha predicato in Galilea e poi è morto a Gerusalemme rappresentino il momento della sua verità assoluta, dopo la quale le cose non potevano che peggiorare, e per sua stessa ammissione la Chiesa è viva soltanto quando si avvicina a quel momento». Alla fine del libro l’autore si domanda — ma noi lettori l’avevamo già capito — se sia veramente agnostico, o se piuttosto quest’opera non sia stata un modo per ribadire la sua fedeltà a quel giovane uomo credente che è stato in passato.
Mi permetto di pensare che sia così, e che Carrère abbia trovato Gesù facendo il suo mestiere, quello di narrare, confrontandosi con un altro scrittore, Luca, uno della «banda dei quattro», come dice con la sua allegra disinvoltura. Leggendo queste ultime parole, mi viene in mente quell’artigiano della ceramica che una sera, tornando a casa con il cuore pesante per la malattia della moglie, trova sul suo cammino — siamo vicino a Deruta, ancora oggi nota per la sua produzione di ceramiche — un coccio sul quale è dipinta la Madonna con il Bambino: la moglie guarisce e sul posto verrà eretto il santuario della Madonna dei Bagni. Ognuno ha la sua occasione di incontrare Gesù, che sa entrare nel suo mondo per farsi conoscere.
Completamente diverso il punto di vista di Amos Oz nel romanzoGiuda. Qui siamo fuori dalla cultura di matrice cristiana, totalmente immersi nel mondo di un ebreo contemporaneo, un giovane, Shemuel, un po’ scombinato che vive nella Gerusalemme ancora in parte appartenente alla Giordania verso la fine degli anni Cinquanta. Il destino degli ebrei, il loro diritto contestato a crearsi uno Stato in Palestina, speranze che condivide mescolate ad aneliti socialisti rivoluzionari, suscitano in Shemuel una curiosità verso colui che ha segnato la divisione fatale al mondo ebraico, Gesù di Nazareth. Lavora infatti a una tesi di dottorato su Gesù dal punto di vista ebraico, ma poi scopre che il personaggio che veramente lo affascina è Giuda. È Giuda all’origine dell’ostilità che tanto dolore è costata al suo popolo, Giuda, un ebreo che nei secoli successivi diventa quasi il prototipo di tutti gli ebrei: «Gesù e tutti i suoi discepoli erano ebrei figli di ebrei. Ma nell’immaginazione popolare cristiana l’unico fra loro bollato come giudeo — anzi come colui che rappresenta l’intero popolo ebraico — è Giuda Iscariota!» scrive Shemuel nei suoi appunti, e aggiunge: «Ancora dopo ottanta generazioni e quasi due millenni, siamo tutti Giuda Iscariota».
Pur non essendo religioso, questo tema lo affascina, ma è distratto dagli studi da vari avvenimenti che lo inducono a cambiare vita: la sua ragazza lo lascia, il padre non può più mantenerlo. Nella casa della città vecchia dove si trasferisce per lavorare come assistente di un vecchio paralizzato del quale si occupa una nuora vedova affascinante e misteriosa, Shemuel scoprirà la storia di un altro giuda, Shaltiel Abrabanel, il padre della donna, che era stato uno dei dirigenti dell’Agenzia ebraica, poi espulso perché contrario alla creazione di uno Stato ebraico. E per questo considerato da tutti un giuda, un traditore. Indagando sulla vita di Abrabanel, anche perché soggiogato dal fascino della figlia, scopre l’esistenza di un punto di vista diverso sulla presenza degli ebrei in Palestina, capisce che è esistito un progetto alternativo a quello impersonato da Ben Gurion, un progetto che voleva due popoli insieme nella stessa terra, capaci di vivere in pace, scambiandosi aiuto e culture. «Il padre di Atalia sognava che ebrei e arabi si sarebbero amati gli uni con gli altri, bastava risolvere le incomprensioni» gli racconta il vecchio: «Era una di quelle persone che credono sia sufficiente la buona volontà di conoscersi a vicenda per cominciare subito a volersi bene». Abrabanel infatti diceva che la guerra non sarebbe stata la soluzione, ma l’inizio di un incubo: «D’ora in poi gli arabi vivranno giorno per giorno la tragedia della loro disfatta e gli ebrei vivranno notte per notte la paura della loro vendetta.» Ma proprio per questo «tutti pensavano che fosse ammattito. Lo insultavano pure e imprecavano contro di lui, lo chiamavano traditore, amico degli arabi». Al padre di Atalia viene contrapposto tacitamente Micah, il figlio del vecchio e marito della donna, seviziato e ucciso nella guerra del 1948. Un eroe o un martire inutile?
L’impossibilità di rispondere a questa domanda sembra paralizzare le vite nell’antica casa, mentre la coppia opposta di Micah e Abrabanel ricorda a Shemuel quella di Gesù e Giuda, finendo per suggerirgli un’interpretazione diversa del traditore per eccellenza, Giuda. Un’interpretazione che — se accettata — potrebbe riavvicinare ebrei e cristiani, porre fine a un conflitto millenario. Così come Abrabanel sperava di ricucire lo strappo violento fra ebrei e musulmani, egli prova a difendere le ragioni del traditore: «Giuda Iscariota è il fondatore della fede cristiana». E immaginando che fosse «un nobile mandato dai sacerdoti a spiare Gesù», non esita a dichiarare che sia poi divenuto «il suo più ardente discepolo» e «il più entusiasta degli apostoli». Giuda è il primo ad avere creduto alla divinità di Gesù, ed è proprio per questo che induce il maestro a recarsi a Gerusalemme, per avere il grande riconoscimento: sarà condannato a morte e — lui ne è certo — risorgerà sotto gli occhi di tutti. Così sarà riconosciuto da tutti come vero Dio. Dopo qualche esitazione, Gesù lo segue a Gerusalemme, dove morirà come un uomo comune. «E Giuda, il cui scopo e senso della vita si infransero sotto i suoi occhi sgomenti, Giuda capì di aver causato con le proprie mani la morte dell’uomo che più amava e ammirava, se ne andò a impiccarsi. Così morì il primo cristiano. L’ultimo cristiano. L’unico cristiano».
Naturalmente si tratta di un’interpretazione immaginaria, fortemente eterodossa: ma affascinante, soprattutto se letta in controluce insieme alla vicenda dell’altro traditore, Abrabanel. Come se il tradimento potesse nascere anche dalla troppa fede, dalla troppa passione, da un eccesso di bene, quindi non solo dal male.
Carrère e Oz hanno in comune la capacità di far rivivere personaggi dei vangeli e del Nuovo Testamento in modo nuovo e imprevisto, ben lontani dalla paludata e rigida immagine che è stata tramandata dalla storia sacra, ma senza per questo essere motivati da una volontà di dissacrarli. Anzi, questa scrittura si presenta soprattutto come atto di amore, come se cercassero di vedere il mondo con i loro occhi, di viverlo attraverso le loro passioni. Per questo i personaggi risultano vivi e affascinanti, ma anche persone con i loro limiti, proprio come noi, e per questo li sentiamo più vicini. Ed entrambi gli scrittori colgono il cuore della fede proprio nella Resurrezione.
Ma, nel complesso, questi nuovi romanzi “religiosi” non sono adatti a essere regalati ai bambini per la prima comunione, non sono finalizzati a fortificare una fede che si suppone già esistente, già salda, quella di chi è per nascita cristiano. Sono romanzi drammatici, che hanno al cuore un grido di dolore che nasce dalla crisi della secolarizzazione, dalla perdita di senso della vita, dalla paura di una morte senza speranza. Sono romanzi in cui la via della conversione, se pure ricercata, non risulta sempre risolutiva.
La fede di oggi ha perso molta vitalità, molto fascino, e sembra vivere unicamente delle glorie del passato, incapace di risvegliare quel fuoco che alcuni di questi autori — come Carrère, ma non solo — comunque accendono al solo avvicinarsi alla fiamma, a Gesù. Perché lo guardano con occhi nuovi e si avvicinano, disposti a farsi bruciare pur di capire. Perfino Houellebecq, che in apparenza è il più negativo, il più gelidamente opportunista, mostrando con grande realismo come può diventare un paese di tradizione cristiana che ha perso la sua anima, ci mette di fronte a una realtà drammatica, che scuote nel profondo. Sì, per capire qualcosa della fede oggi serve molto leggere i romanzi di questi scrittori che si dichiarano non credenti, ma con qualche esitazione. E questo equivale a lasciare aperta una fessura attraverso la quale passa un vento forte, che scuote i luoghi comuni laici e devoti.
L'Osservatore Romano