sabato 14 aprile 2012

II DOMENICA DI PASQUA "della Divina Misericordia"



  
Oggi 15 aprile celebriamo la    

II DOMENICA DI PASQUA
"della Divina Misericordia"

MESSALE
Antifona d'Ingresso  1 Pt 2,2
Come bambini appena nati,
bramate il puro latte spirituale,
che vi faccia crescere verso la salvezza. Alleluia.

Quasi modo géniti infántes,
rationábile, sine dolo lac concupíscite,
ut in eo crescátis in salútem, allelúia.

Oppure:
  4 Esd 2,36-37
Entrate nella gioia e nella gloria,
e rendete grazie a Dio, che vi ha chiamato
al regno dei cieli.  Alleluia.

Colletta
Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l'inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Per il nostro Signore...

Oppure:
O Dio, che in ogni Pasqua domenicale ci fai vivere le meraviglie della salvezza, fa' che riconosciamo con la grazia dello Spirito il Signore presente nell'assemblea dei fratelli, per rendere testimonianza della sua risurrezione. Per il nostro Signore...
 


LITURGIA DELLA PAROLA
 
Prima Lettura  
At 4, 32-35 
Un cuore solo e un'anima sola.
Dagli Atti degli Apostoli
La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune.
Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.
Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.
Salmo Responsoriale  Dal Salmo 117

Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
Dica Israele:
«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La destra del Signore si è innalzata,
la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
Il Signore mi ha castigato duramente,
ma non mi ha consegnato alla morte.

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Seconda Lettura  1 Gv 5, 1-6

Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.


SEQUENZA  
 
(Facoltativa)Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode.
L'agnello ha redento i suo gregge,
l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.

« Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via? ».
« La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea ».

Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.


Canto al Vangelo
  Gv 20,29 
Alleluia, alleluia.

Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!

Alleluia.

   
   
Vangelo  Gv 20, 19-31
Otto giorni dopo, venne Gesù.

Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
 Parola del Signore.

COMMENTI

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«Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
San Paolo, quando parla di Cristo che vive in Lui, si riferisce al Risorto, perché solo un “Risorto” può essere nostro contemporaneo e può vivere in noi!
Dentro questo paradosso di una morte che dà la vita, di una fede che rinnova la stessa vita concreta, nella carne, si inscrive tutta la verità dell’Avvenimento di Cristo Risorto e l’esperienza della Sua Divina Misericordia.
Una fede dentro la carne, perché senza la carne - cioè senza l’assunzione della condizione umanamente fragile di tutti noi - la risurrezione di Cristo, che è risurrezione della carne, sarebbe incomprensibile e la nostra speranza sarebbe vana, perché staremmo davanti ad un Dio lontano, astratto, che dice nulla e non si può né udire, né toccare né vedere.
Senza una carne non potremmo toccare con mano ciò che il nostro cuore desidera.
Invece - questa è la novità assoluta del cristianesimo! - una luce incancellabile è entrata dentro il limite e perfino la pesantezza della nostra “carne quotidiana”; una luce nuova è entrata dentro la carne dei nostri rapporti umani, facendoli diventare amicizia e compagnia di vita, “un cuore solo e un’anima sola”, così che la carne concreta della compagnia che è la Chiesa è, adesso, il tempio della fede, cioè il luogo dove attingere e comunicare il significato supremo della vita.
Che cosa desiderava Tommaso se non rincontrare Cristo, con quella stessa carne con cui lo aveva visto mangiare e bere, parlare alle folle e compiere miracoli davanti a tutti?
Che cosa desiderava se non sperimentare nuovamente la tenerezza infinita con cui Cristo aveva amato la sua vita fino ad offrirsi per lui?
Perciò prorompe: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi... e non metto la mia mano nel suo costato non crederò». Non si accontentava San Tommaso di astrazioni e di formule di fede, sia pure ortodosse, sulla divinità di Cristo!
Il suo desiderio era giusto. Voleva toccare ancora quell’umanità che era stata tutto per lui. Solo che ormai la carne di Cristo da toccare, da vedere, da udire, erano proprio quei volti che gli stavano attorno, toccati e trasfigurati da un miracolo impossibile di letizia, i quali gli avevano detto: «Abbiamo visto il Signore!».
Solo per questo è stato rimproverato: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Beati quelli che troveranno la felicità del loro cuore guardando la carne di quei volti in cui oggi si identifica il mio Mistero, la mia Presenza.
La risurrezione è “una carne di volti” e “una carne di circostanze” dentro cui vive la fede e dice: «Abbiamo visto il Signore!”. Cristo viene a noi non solo con l’acqua, segno supremo di quella potenza di divinità che è lo Spirito; viene anche, e insieme, con il sangue, con una carne viva che si dà all’umano.
Questo è il compito, questo è lo slancio di testimonianza che sorge quando colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me mi fa toccare le ferite ancora sanguinanti della sua carne, dentro la carne di una compagnia che mi ama.
Portare agli uomini “la verità della vita” deve essere anche un portare “le ferite della loro vita”. Non si può rispondere all’ansia di vita, immaginandola senza ferite, o dimenticandone gli squarci e le devastazioni.
E’ vero solo un abbraccio che, assumendo in sé le ferite della tua vita, le fa toccare, le fa sperimentare come uno squarcio aperto su una salvezza possibile, reale e positività, così che sia possibile dire: «mio Signore, e mio Dio».
Ciascuno è chiamato ad abbracciare se stesso così: le mie ferite non sono più mie, sono la soglia di un Mistero di misericordia, di Divina Misericordia!
Una carne che, portando in sé le ferite del proprio male e di quello del mondo, possa far esclamare: “in te c’è una possibilità per me!” Questo è il comunicarsi della risurrezione, del Risorto che crocifisso vive in me.
«Con grande forza gli Apostoli rendevano testimonianza». Erano concordi, uniti solo per questo e da questo. Erano accomunati dall’unica ferita di Cristo che li faceva andare gli uni verso gli altri e, tutti insieme, in direzione di ogni uomo, versando il sangue della loro dedizione, in tutto; fino al bisogno specifico di ognuno: «Veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno», ma era lo stesso Cristo sempre e comunque che veniva distribuito a tutti secondo circostanze mutevoli. «E tutti essi godevano di una grande stima», perché comunicavano l’unica cosa che il cuore umano, quando è semplice, apprezza.

Imploriamo dalla Divina Misericordia, e dalla Beata Vergine Maria, che ne è il riflesso più pieno perché Immacolata, di poter riconoscere il Risorto, presente ed operante nella Chiesa, anche attraverso le nostre esistenze salvate.

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Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp
Se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò
II Domenica di Pasqua
Atti 2, 42-47; 1 Pietro 1, 23-9; Giovanni 20, 19-31



La prima delle due apparizioni di Cristo descritte nel vangelo odierno avvenne la sera di Pasqua, “il primo giorno dopo il sabato”, e la seconda apparizione, quella in cui si colloca l’episodio di Tommaso, avvenne “otto giorni dopo”, cioè di nuovo il primo giorno dopo il sabato. L’insistenza sul dato cronologico di queste due apparizioni mostra l’intenzione dell’evangelista Giovanni di presentare l’incontro di Gesù con i suoi nel cenacolo come il prototipo dell’assemblea domenicale della Chiesa. Anche nell’Eucaristia domenicale Gesù si fa presente tra i suoi discepoli; dà ad essi la pace e lo Spirito Santo; nella comunione, essi toccano, anzi ricevono, il suo corpo ferito e risorto, recitando il Credo proclamano, come Tommaso, la loro fede in lui.

La designazione “primo giorno della settimana” venne ben presto sostituita dall’altra “giorno del Signore” (Ap 1, 10), il cui esatto corrispondente in latino è dies dominica. Dominica, da aggettivo, passa ad essere ben presto sostantivo e si ha così la nostra attuale Domenica.

Un tratto distintivo della Domenica nell’epoca dei Padri è la gioia. Lo vediamo anticipato già nel vangelo odierno: “I discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20). La Domenica è vista come la “piccola Pasqua”, o “la Pasqua settimanale”. Ad essa viene applicato, per estensione, il versetto del salmo che ebrei e cristiani riferivano alla Pasqua: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e esultiamo in esso” (Sal 118,24).

Il cuore della Domenica è naturalmente l’assemblea liturgica. Cosa rappresentasse per i cristiani al tempo delle persecuzioni la celebrazione domenicale dell’Eucaristia ce lo nostrano in modo commovente gli atti dei martiri nordafricani Saturnino e compagni, morti sotto la persecuzione di Diocleziano nel 305 d.C. Al giudice romano che li accusava di aver trasgredito l’ordine dell’imperatore di non tenere riunioni, i martiri risposero: “Il cristiano non può stare senza l’Eucaristia e l’Eucaristia senza il cristiano”. “L’Eucaristia è la speranza e la salvezza dei cristiani”.

Una frase di questi martiri viene spesso citata nella forma: “Noi non possiamo vivere senza la domenica”; questa traduzione però non è esatta e, presa alla lettera, non ha molto senso. La parola tradotta qui con “domenica” (dominicum) significa in realtà “il pasto del Signore”, cioè l’Eucaristia. Il titolo del congresso va dunque inteso semmai nel senso di: “Non possiamo vivere senza la celebrazione domenicale dell’Eucaristia”.

Dobbiamo riscoprire quello che era la Domenica nei primi secoli, quando essa era un giorno speciale non per supporti esterni, ma per forza interna propria. L’obbligo della Messa festiva, da solo, non sembra essere più sufficiente a portare i cristiani in chiesa la domenica. Più che sull’obbligo, dobbiamo far leva sul bisogno che il cristiano ha di comunicare al corpo e al sangue del Signore. “La partecipazione all'Eucaristia, scrive Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte, sia veramente, per ogni battezzato, il cuore della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo per assolvere a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana veramente consapevole e coerente”.

Nessun fedele dovrebbe tornare a casa dalla Messa domenicale senza sentirsi, in qualche misura, anche lui “rigenerato a una speranza viva dalla risurrezione di Gesú dai morti” (1 Pt 1, 3). Quando si torna a casa dall’incontro con il Signore risorto, la domenica acquista una sapore e un colore nuovi: tutto è più bello, anche il sedersi a tavola in casa o al ristorante, anche la partita allo stadio.

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Luciano Manicardi
Nella seconda domenica di Pasqua, la cosiddetta “domenica di Tommaso”, le letture presentano lacomunità cristiana come frutto dell’evento pasquale, luogo di esperienza della resurrezione, spazio vivibile grazie alla fede nel Risorto. La comunità cristiana è l’insieme dei credenti: riuniti dalla fede nel Risorto, essi testimoniano tale fede: la comunione materiale, l’abolizione dell’escludente “mio” per passare alla condivisione che sovviene ai bisogni di ciascuno, è elemento centrale di tale testimonianza, diretto riflesso dell’evento pasquale (I lettura). Se la resurrezione è la vittoria di Cristo sul “mondo” (Gv 16,33), la fede del cristiano, immersa nel combattimento spirituale contro gli idoli, può partecipare a tale vittoria (II lettura). La Pasqua di Cristo non crea solo uno spazio nuovo: la comunità dei credenti, ma istituisce anche un tempo nuovo di memoria della resurrezione che è la domenica (vangelo). Il passo evangelico attesta la scansione ebdomadaria della riunione dei credenti (“otto giorni dopo”): la domenica è tempo sacramentale nel quale il Risorto incontra la sua comunità riunita.
Il farsi presente del Risorto ai suoi discepoli la sera del giorno pasquale provoca un cambiamento nei discepoli stessi: un gruppo di uomini impaurito e ripiegato su di sé, che quasi giace in una tomba, in un luogo chiuso simbolicamente assimilabile a un sepolcro, viene fatto risorgere a comunità capace di testimonianza e di annuncio. Il passaggio dalla paura alla gioia dice che incontrare il Risorto è fare esperienza di resurrezione nella propria vita. Il gesto di Gesù che alita sui discepoli è gesto di creazione (cf. Gen 2,7; Sap 15,11), di passaggio dalla morte alla vita (cf. 1Re 7,21; Ez 37,9), dalle tenebre alla luce (cf. Tb 11,11). Incontrare il Risorto significa anche divenire testimoni della resurrezione: il dono dello Spirito con il potere di rimettere i peccati rende i discepoli partecipi di quella vittoria della vita sulla morte che è la resurrezione. La remissione dei peccati è frutto e testimonianza della resurrezione. La chiesa testimonia la resurrezione di Gesù annunciando e attuando tra gli uomini la remissione dei peccati.

La vita comunitaria stessa è luogo di esperienza pasquale. Tommaso, assente durante la prima manifestazione di Cristo (Gv 20,19-23) e presente alla seconda (Gv 20,26-28), non ha bisogno di stendere la mano e metterla nel costato di Gesù per vincere la sua incredulità (Gv 20,24-25): il fatto stesso di essere insieme agli altri nella comunità cambia la sua situazione. La comunità è luogo di esperienza della resurrezione nel passaggio che induce a compiere dall’“io” al “noi”, nel movimento di morte a se stessi per vivere con e per gli altri che essa suscita, nell’evento per cui le negatività e i peccati di uno sono conosciuti, accolti e non giudicati dagli altri. Tommaso, che non ha creduto all’annuncio fatto dai suoi fratelli, è accolto – da incredulo – nel gruppo dei discepoli riuniti otto giorni dopo.
Se la comunità è luogo sacramentale di presenza del Risorto, altrettanto vale per la Scrittura. Il credente incontra il corpo del Risorto nel corpo comunitario e nel corpo scritturistico (e ovviamente nel corpo eucaristico): il libro del vangelo, definito come “segni scritti” capaci di suscitare la fede che conduce alla salvezza, cioè alla comunione di vita con il Signore, appare sacramento della potenza di Dio (“il vangelo è potenza di Dio per chiunque crede”: Rm 1,16). Potenza mostrata nella resurrezione da morte di Gesù e che si manifesta sempre di nuovo nella remissione dei peccati nel nome di Gesù.
Comunità e Scrittura sono anche gli ambiti che oggettivano l’azione dello Spirito – grande dono del Risorto ai suoi – mentre ne sono vivificate. Comunità e Scrittura interagiscono con lo Spirito creando una pericoresi, una circolazione che nella liturgia si esplica pienamente: in essa lo Spirito vivifica il gruppo umano rendendolo corpo di Cristo e resuscita le pagine antiche della Scritture rendendole parola vivente e attuale di Dio per il suo popolo.
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Enzo Bianchi

Quella odierna è la cosiddetta “domenica di Tommaso”, il discepolo assente alla prima apparizione di Gesù risorto e rimasto incredulo nonostante la testimonianza dei suoi fratelli. Ora, quando il Risorto si manifesta per la seconda volta, è presente e giunge a credere pienamente, come dimostra la sua straordinaria confessione di fede, che lo porta a invocare Gesù quale “mio Signore e mio Dio”.
Ma Tommaso non va considerato il tipo del discepolo indegno, l’esempio dell’accanito incredulo contro cui puntare il dito accusatore – come hanno fatto e tuttora fanno alcuni predicatori –; egli è piuttosto colui che riassume e rappresenta in sé il faticoso cammino attraverso il quale i discepoli sono giunti alla fede pasquale. Sì, la fede pasquale non è il frutto di un’esaltazione religiosa o psicologica a basso prezzo, ma è una vittoria di Gesù risorto sui dubbi che paralizzano i suoi discepoli e amici! In altre parole, il vangelo odierno vuole indicare a noi un itinerario per giungere a credere, qui e ora, a colui che viene e resta in mezzo a noi, offrendoci la sua pace e donandoci lo Spirito santo; e questo, in particolare, quando siamo riuniti nell’assemblea liturgica, massima epifania della comunità cristiana.
Nei giorni successivi alla morte in croce di Gesù, i discepoli si trovano in casa, “a porte chiuse, per timore dei giudei”, e tuttavia è possibile scorgere in loro un’attesa, suscitata dall’annuncio di Maria di Magdala che ha sconvolto i loro cuori: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Gesù prende dunque l’iniziativa e si manifesta loro occupando il posto centrale, quello del Signore veniente; egli mette nei loro cuori impauriti la pace – “Pace a voi!” – e, nel contempo, mostra loro i segni della sua passione e morte: le mani e i piedi trapassati dai chiodi che lo tenevano appeso alla croce, il costato trafitto dal colpo di lancia. Gesù è vivo, è certamente “il Primo, l’Ultimo e il Vivente, colui che era morto ma ora vive per sempre” (cf. Ap 1,17-18); ma il suo aver sofferto fino alla morte non può essere cancellato, e per questo i segni della passione restano indelebili, ben visibili nel suo corpo trasfigurato dalla resurrezione. Alitando poi sui discepoli, con un gesto che denota una nuova creazione (cf. Gen 2,7), il Risorto comunica loro lo Spirito santo e li abilita all’unica missione veramente essenzialerimettere i peccati, perdonare in nome di Dio, riconciliare tutti gli uomini. Il quarto vangelo potrebbe chiudersi qui; a questa manifestazione del Risorto manca però Tommaso…

Ed ecco che “otto giorni dopo”, dunque nello stesso giorno, il primo della settimana, il giorno del Signore, Gesù si manifesta di nuovo ai discepoli. Questa volta anche Tommaso è presente, è nuovamente unito a quella comunità rinnovata dallo Spirito del Risorto e capace di annunciare la resurrezione; ma è proprio a questo annuncio che egli si era rifiutato di credere: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Tommaso non si fida dei suoi fratelli, vuole avere un rapporto immediato e diretto con il Signore; il vero nome di tale atteggiamento è incredulità, ma ad essa Tommaso non soccombe. Posto infatti davanti a Gesù che lo invita a contemplarlo attraverso i segni della morte: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente”, egli giunge a comprendere, si inginocchia davanti al Risorto per adorarlo e grida: “Mio Signore e mio Dio!”. Il credente ebreo riservava questi appellativi solo a Dio, appunto, ma Tommaso ora li indirizza a Gesù: siamo di fronte alla più alta confessione di fede in Gesù di tutto il Nuovo Testamento…
È faticoso giungere alla fede nella resurrezione, e Tommaso ce lo mostra bene: egli non ha avuto bisogno di “mettere il dito”, eppure ha dovuto vedere con i suoi occhi; ma è grazie a lui se Gesù può pronunciare l’ultima beatitudine: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. I destinatari di queste parole sono tutti i lettori del vangelo, dunque anche noi, chiamati a sperimentare la beatitudine di chi vede Gesù con gli occhi della comunità cristiana, radunata nel giorno del Signore, la domenica, e in ascolto della Parola di Diocontenuta nelle Sante Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ecco dove si incontra il Signore Risorto, perché la resurrezione è esperienza di fede che riposa su un annuncio capace di raggiungerci attraverso la predicazione ecclesiale e la testimonianza di quanto è stato scritto nei libri santi, al fine di suscitare la fede di chi li legge e li medita.
Si comprendono dunque le parole con cui, a questo punto, il vangelo può finalmente concludersi: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.
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COMMENTI PATRISTICI

Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo
(Disc. 8 nell'ottava di Pasqua 1, 4; Pl 46, 838. 841)
Nuova creatura in CristoRivolgo la mia parola a voi, bambini appena nati, fanciulli in Cristo, nuova prole della Chiesa, grazia del Padre, fecondità della Madre, pio germoglio, sciame novello, fiore del nostro onore e frutto della nostra fatica, mio gaudio e mia corona, a voi tutti che siete qui saldi nel Signore.
Mi rivolgo a voi con le parole stesse dell'apostolo: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13, 14), perché vi rivestiate, anche nella vita, di colui del quale vi siete rivestiti per mezzo del sacramento. «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo, né Greco; non c'è più schiavo, né libero; non c'è più uomo, né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 27-28).
In questo sta proprio la forza del sacramento. E' infatti il sacramento della nuova vita, che comincia in questo tempo con la remissione di tutti i peccati, e avrà il suo compimento nella risurrezione dei morti. Infatti siete stati sepolti insieme con Cristo nella morte per mezzo del battesimo, perché, come Cristo è risuscitato dai morti, così anche voi possiate camminare in una vita nuova (cfr. Rm 6, 4).
Ora poi camminate nella fede, per tutto il tempo in cui, dimorando in questo corpo mortale, siete come pellegrini lontani dal Signore. Vostra via sicura si è fatto colui al quale tendete, cioè lo stesso Cristo Gesù, che per voi si è degnato di farsi uomo. Per coloro che lo temono ha riservato tesori di felicità, che effonderà copiosamente su quanti sperano in lui, allorché riceveranno nella realtà ciò che hanno ricevuto ora nella speranza.
Oggi ricorre l'ottavo giorno della vostra nascita, oggi trova in voi la sua completezza il segno della fede, quel segno che presso gli antichi patriarchi si verificava nella circoncisione, otto giorni dopo la nascita al mondo. Perciò anche il Signore ha impresso il suo sigillo al suo giorno, che è il terzo dopo la passione. Esso però, nel ciclo settimanale, è l'ottavo dopo il settimo cioè dopo il sabato, e il primo della settimana. Cristo, facendo passare il proprio corpo dalla mortalità all'immortalità, ha contrassegnato il suo giorno con il distintivo della risurrezione.
Voi partecipate del medesimo mistero non ancora nella piena realtà, ma nella sicura speranza, perché avete un pegno sicuro, lo Spirito Santo. «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 1-4).

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Dai "Trattati su Giovanni" di sant'Agostino, vescovo
121, 4-5

La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, per paura dei Giudei, venne Gesù e si fermò in mezzo e disse loro: Pace a voi! E detto questo, mostrò le mani e il costato. I chiodi avevano trafitto le sue mani, la lancia gli aveva aperto il costato, ed erano rimaste le tracce delle ferite per guarire il cuore dei dubbiosi. E le porte chiuse non impedirono l'entrata di quel corpo in cui abitava la divinità. Colui che nascendo aveva lasciato intatta la verginità della madre, poté entrare nel cenacolo a porte chiuse. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. E Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi (Gv 20, 18-21)! Rinnovando il saluto conferma il suo dono: cioè egli dona pace su pace, come era stato promesso per mezzo del profeta (Is 26, 3). Come il Padre ha mandato me, - aggiunge - così io mando voi. Già sapevamo che il Figlio è uguale al Padre; ma qui noi riconosciamo le parole del mediatore. Egli si presenta, infatti, come mediatore, in quanto dice: Egli ha mandato me e io mando voi. E detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Alitando su di loro, vuol significare che lo Spirito Santo non è soltanto del Padre, ma anche suo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Gv 20, 21-23). La carità, che per mezzo dello Spirito Santo viene riversata nei nostri cuori, rimette i peccati di coloro che fanno parte della comunità ecclesiale; ritiene invece i peccati di coloro che non ne fanno parte. E' per questo che conferì il potere di rimettere o di ritenere i peccati subito dopo aver detto: Ricevete lo Spirito Santo.
5. Tommaso, uno dei dodici, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo veduto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il foro dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa, e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, e si fermò nel mezzo, e disse: Pace a Voi! Poi dice a Tommaso: Poni qui il tuo dito, e vedi le mie mani; e porgi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo ma credente! Gli rispose Tommaso: Signore mio e Dio mio! Vedeva e toccava l'uomo, ma confessava Dio che non vedeva né toccava. Attraverso ciò che vedeva e toccava, rimosso ormai ogni dubbio, credette in ciò che non vedeva. Gesù gli dice: Hai creduto, perché mi hai veduto. Non gli dice: perché mi hai toccato, ma perché mi hai veduto; poiché la vista è come un senso che riassume tutti gli altri. Infatti nominando la vista siamo soliti intendere anche gli altri quattro sensi, come quando diciamo: Ascolta e vedi che soave melodia, aspira e vedi che buon odore, gusta e vedi che buon sapore, tocca e vedi come è caldo. Sempre si dice "vedi", anche se vedere è proprio degli occhi. E' così che il Signore stesso dice a Tommaso: Poni qui il tuo dito e vedi le mie mani. Gli dice: Tocca e vedi, anche se Tommaso non aveva certo gli occhi nelle dita. Dicendo: Hai creduto perché hai veduto, il Signore si riferisce sia al vedere che al toccare. Si potrebbe anche dire che il discepolo non osò toccarlo, sebbene il Signore lo invitasse a farlo. L'evangelista infatti non dice che Tommaso lo abbia toccato. Sia che lo abbia soltanto guardato, sia che lo abbia anche toccato, ha creduto perché ha veduto; e perciò il Signore esalta e loda, a preferenza, la fede dei popoli, dicendo: Beati quelli che pur non vedendo, avranno creduto! (Gv 20, 24-29). Usa il tempo passato, in quanto egli considera, nella predestinazione, come già avvenuto ciò che sarebbe avvenuto nel futuro. Ma questo discorso si è già prolungato abbastanza; il Signore ci concederà di commentare il seguito in altra occasione.

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Dai "Discorsi" di sant'Agostino, vescovo
88, 2

In un passo lo stesso Signore stima superiori a quelli che vedono, e quindi credono, coloro che pur non vedendo credono. In effetti a quel tempo la fede dei discepoli del Cristo era talmente vacillante che, pur vedendolo già risorto, per credere alla sua risurrezione, ritennero necessario anche di toccarlo. Non bastava che lo vedessero con gli occhi se non avessero accostato anche le mani alle sue membra e non avessero toccato anche le cicatrici delle ferite recenti; in tal modo il discepolo che dubitava, dopo aver toccato e riconosciuto le cicatrici, subito esclamò: Signore mio e Dio mio!. Le cicatrici rendevano manifesto Colui che aveva guarito in altri tutte le ferite. Il Signore non poteva forse risorgere senza cicatrici? Sì, ma egli conosceva le ferite nel cuore dei discepoli, e al fine di guarirle egli aveva conservato le cicatrici nel suo corpo. E che rispose il Signore al discepolo che ormai dichiarava ed esclamava: Mio Signore e mio Dio? Tu hai creduto - disse - perché hai visto: beati quelli che credono senza vedere. Di chi parlava, fratelli, se non di noi? Non di noi soli, ma anche dei nostri posteri. In effetti, poco tempo dopo che si allontanò dagli occhi mortali perché fosse rafforzata la fede nei cuori, tutti quelli che han creduto lo hanno fatto senza vedere e la loro fede ha avuto un gran merito; per avere questa fede accostarono solo il cuore pieno di religioso rispetto verso Dio, ma non anche la mano per toccare.


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Dai "Discorsi" di san Pietro Crisologo

Sermo 84. PL 52,437‑440.

I discepoli videro il Signore e furono pieni di gioia, perché come fa piacere la luce dopo il buio e il bel tempo dopo la fosca caligine dell'uragano, cosi la gioia conforta dopo la tristezza.

Gesù augura ai suoi la pace e ripete quell'annunzio due volte. Con il primo saluto egli trasfonde quiete nei loro sentimenti e con il secondo esprime la volontà di vedere regnare sempre la pace tra i suoi discepoli.

Gesù sa bene che più tardi si farà un gran discutere sul ritardo della sua venuta; gli uni si rattristeranno di aver dubitato, gli altri potranno vantarsi della fermezza della loro fede.

Per tagliar corto alla vana superbia di questi e all'incertezza di quelli, il Maestro previene gli eventuali conflitti formulando il suo desiderio di pace: lui sa che tali problemi nascono dai fatti e non dai discepoli. Gesù non vuole evitare che i suoi si accusino a vicenda di quello che lui, il solo offeso, ha già perdonato.

Pietro rinnega, Giovanni fugge, Tommaso dubita e gli altri abbandonano Gesù. Dando la sua pace, il Signore taglia corto a future dispute tra i discepoli. Senza il dono della pace, ad esempio, gli altri avrebbero potuto rifiutare a Pietro il diritto al primato, poiché il rinnegamento aveva di che farlo retrocedere all'ultimo posto nel gruppo apostolico.

Gli altri discepoli annunziarono a Tommaso. "Abbiamo visto il Signore!". Ma egli disse loro: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ".

Perché Tommaso esige quelle prove? Perché tanto amore verso il suppliziato e tanta durezza verso il risorto? Perché riapre per amore le piaghe inferte dall'odio? Per quale ragione la sua mano pia e obbediente cerca di squarciare ancora il costato trafitto dall'empia lancia del soldato?

Come mai la sua curiosità affettuosa rinnova i dolori inflitti dalla furia dei persecutori? Perché la ricerca del discepolo provoca il Signore a gemere, Iddio a patire, il medico celeste a sanguinare?

La potenza del diavolo crolla, il carcere infernale si spalanca e le catene dei morti si spezzano, perché la morte del Signore ribalta i sepolcri e la sua risurrezione muta totalmente la condizione dei mortali.

Il Signore stesso rotolò la pietra dalla tomba e slegò le bende mortuarie. La morte fuggì davanti alla gloria di Cristo risorto; la vita ritorna, la carne si ridesta per non conoscere mai più il trapasso.

Perché solo tu, Tommaso, investigatore troppo guardingo, chiedi di vedere soltanto le cicatrici come prova di fede? Se dal corpo di Cristo le piaghe fossero scomparse, avresti fatto correre un tremendo pericolo alla fede, con quel tuo indebito voler renderti conto. Avevi proprio bisogno di mettere la mano nel fianco trafitto dalla crudeltà dei Giudei? Non c'erano altre prove della risurrezione del Signore e del suo amore?

Considerate piuttosto, fratelli, che le richieste e le esigenze di Tommaso nascono dall'affetto e dalla dedizione, affinché in futuro non possano più sussistere dubbi sulla risurrezione.

Tommaso non placa soltanto l'inquietudine del suo cuore, ma anche quella di tutti gli umani. Prima di partire per predicare alle genti, Tommaso, da servo zelante. cerca una base solida per una fede tanto misteriosa.

Negli interrogativi dell'Apostolo vediamoci uno sguardo prudente gettato sul futuro più che dubbio e scetticismo. Come infatti Tommaso avrebbe potuto sapere che le ferite di Cristo sarebbero rimaste a riprova della risurrezione se un'ispirazione profetica non lo avesse preavvisato?

Il Signore aveva concesso spontaneamente agli altri discepoli quello che Tommaso ora deve implorare: infatti quando era apparso la prima volta, Gesù aveva mostrato le mani e il costato trafitti.

Venne Gesù a porte chiuse. I discepoli potevano a ragione prenderlo per uno spirito, ma i segni e le cicatrici della passione provano a questi increduli che si tratta proprio di lui.

Gesù dice a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente! Riapri le ferite da cui sono sgorgati l'acqua del perdono e il sangue della redenzione, perché ne zampilli la fede sul mondo intero".

Tommaso allora esclama: Mio Signore e mio Dio! Ascoltino i miscredenti e non siano più increduli, ma credano, come invita il Signore. Infatti la risposta di Tommaso non manifesta soltanto la presenza corporea di Gesù, ma attraverso le sofferenze del suo corpo attesta ch'egli è Dio e Signore.

Veramente è Dio colui che è risuscitato dai morti e dopo tali ferite e tale strazio vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.


Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo Omelie per la Risurrezione, 1-4
Sii credente, e sii mio apostolo


“Metti il dito nel posto dei chiodi”. Mi cercavi quando io non c’ero, ora approfitta della mia presenza. Io conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, io so quel che pensi. Ti ho sentito parlare e, pur invisibile, ero vicino a te, vicino ai tuoi dubbi; senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare, per scrutare meglio la tua impazienza. “Metti il dito nel posto dei chiodi; e non essere più incredulo ma credente”.
Allora Tommaso lo tocca, e s’infrange tutta la sua diffidenza; pieno di una fede sincera e di tutto l’amore dovuto al suo Dio, grida: “Mio Signore e mio Dio!” E il Signore gli dice: “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Tommaso, porta la novella della mia risurrezione a coloro che non mi hanno visto. Porta tutta la terra a credere non a quello che vede, bensì alla tua parola. Percorri i popoli e le città lontane. Insegna loro a portare la croce sulle spalle invece delle armi. Non fare null’altro che annunciare me: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altra prova. Di’ loro che sono chiamati per grazia, e tu, contempla la loro fede: Beati, in verità, coloro che pur non avendo visto hanno creduto!
Tale è l’esercito che arruola il Signore; tali sono i figli del fonte battesimale, le opere della grazia, la messe dello Spirito. Hanno seguito Cristo, pur senza averlo visto, l’hanno cercato e hanno creduto. L’hanno riconosciuto con gli occhi della fede, non con quelli del corpo. Non hanno messo il dito nel posto dei chiodi, ma si sono attaccati alla sua croce e hanno abbracciato le sue sofferenze. Non hanno visto il costato del Signore ma, per la grazia, si sono uniti alle sue membra e hanno fatto propria questa parola del Signore: “Beati coloro che pur non avendo visto hanno creduto!”

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Dal Discorso sulla Pasqua di san Basilio di Seleucia. In sanctum Pascha, 2-4. PG 28,1083-1086.

Oggi i discepoli vedono Cristo risorto dai morti e questa nuova apparizione rafforza la loro fede nella risurrezione. Gesù entra a porte chiuse: colui che ha smantellato la muraglia infernale sa entrare nonostante gli usci sprangati, perché la volontà di Dio sospende le leggi della natura. Ancora ieri Gesù camminava sulle acque, senza che l'elemento liquido cedesse sotto i suoi piedi; egli calcava i flutti del mare che per lui diventava duro come il suolo. Gesù entra mentre le porte sono sbarrate. Eppure al momento della risurrezione rotolò la pietra tombale e aprì l'entrata del sepolcro. Così diventava manifesto che l'inferno subiva invisibilmente la medesima sorte della tomba visibile. Dal sepolcro aperto si arguiva che ben più demolite erano state le porte della morte. Bisognava che la tomba fosse spogliata al pari dell'inferno e il visibile apparisse abbandonato come l'invisibile. Quelli che dubitavano della risurrezione restano stupefatti al vedere Gesù che entra a porte chiuse. Questo nuovo prodigio è per essi la garanzia tangibile dell'altro miracolo.
Cristo entra nella casa ove si erano nascosti gli apostoli e appare loro a porte chiuse. Ma Tommaso, che non era presente, non ci crede; desidera vedere Gesù con i propri occhi e rifiuta i racconti dei compagni. Si tura gli orecchi perché vuole aprire gli occhi. Lo divora l'impazienza, quando pronunzia queste parole: Se non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Troppo esigente per credere, Tommaso vomita fuori diffidenza, sperando di procurarsi un'apparizione di Gesù. E' come se dicesse: I miei dubbi svaniranno soltanto quando lo vedrò. Metterò il dito nei segni dei chiodi e abbraccerò il Signore che tanto sospiro. Rimproveri pure la mia incredulità, ma mi lasci contemplarlo. Se non credo, si farà vedere da me, e quando lo stringerò crederò e godrò della sua presenza. Voglio vedere quelle mani trafitte che hanno guarito le mani scellerate di Adamo. Io voglio vedere quel petto che ha espulso la morte dal nostro petto. Voglio essere un testimone oculare del Signore, e non basarmi solo su testimonianze altrui. Il vostro racconto esaspera la mia brama, ma anche inasprisce il mio dolore. Il mio male guarirà, quando stringerò il farmaco fra queste mie mani. Gesù riappare allora otto giorni dopo e dissipa la tristezza e l'incredulità del discepolo. Non sopprime soltanto il dubbio di Tommaso, ma colma la sua attesa. Il Signore entra nella casa, quando le porte sono sprangate, e conferma a Tommaso l'incredibile miracolo della risurrezione con una incredibile apparizione. Gli dice: "Metti il dito nel posto dei chiodi. Mi cercavi, quando non ero presente; approfitta ora. Conosco la tua brama, anche se taci. Prima che tu parli, so quel che pensi. Udii le tue parole e, anche se invisibile. ti stavo accanto. Anche se non mi mostravo, ero vicino ai tuoi dubbi; senza farmi vedere, davo tempo alla tua incredulità, in attesa del tuo desiderio. Metti il tuo dito nel posto dei chiodi e stendi la tua mano nel mio costato e non essere incredulo, ma credente". Tommaso lo tocca, la diffidenza gli cade e, infiammato da fede sincera e da un amore degno di Dio, esclama: Mio Signore e mio Dio! E il Signore a lui: Perché mi hai veduto. hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
"Tommaso! Porta l'annunzio della mia risurrezione a quelli che non l'hanno vista; attira la terra intera, perché creda non per aver visto ma per aver ascoltato la tua parola. Percorri popoli e città barbare, insegna loro a cingersi della croce e non delle armi. Basterà che tu predichi: quelli crederanno e mi adoreranno senza esigere altre prove. Dì loro che sono chiamati per grazia, e contempla la loro fede: Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
Questo è l'esercito che ormai recluta il Signore, questi sono i figli dell'abluzione spirituale, opera della grazia, messe dello Spirito. Essi hanno seguito Cristo senza averlo visto, ma l’hanno cercato e hanno creduto. L’hanno riconosciuto con gli occhi della fede, non con quelli dei corpo. Non misero le dita nel posto dei chiodi, ma si sono attaccati alla croce e hanno abbracciato la passione di Cristo. Non contemplarono il suo costato trafitto, ma per grazia si sono uniti alle sue membra, confermando in se stessi la parola del Signore: Beati quelli che pur non avendo visto crederanno.

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Dal trattato "Sulla Trinità" di sant'Ilario di Poitiers

De Trinitate, III,20; VII,12. PL 10,87-88. 209.
Porgo ascolto al Signore e credo alle cose che sono state scritte. Perciò so che, subito dopo la risurrezione, Cristo spesso si offrì in corpo alla vista di molti ancora increduli. E precisamente si fece vedere a Tommaso, che non voleva credere se non avesse potuto toccare con mano le sue ferite, così come disse: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Il Signore si adatta alla nostra debole mente e, per chiarire i dubbi di chi non riesce a credere, opera un miracolo caratteristico della sua invisibile potenza.
Tu che indaghi minuziosamente le realtà celesti, chiunque tu possa essere, spiegami il modo con cui avviene questo fatto. I discepoli erano in un ambiente chiuso e tutti quanti insieme tenevano una riunione in un luogo appartato. Ed ecco il Signore, per rendere ferma la fede di Tommaso, accetta la sfida, si presenta e offre la possibilità di palpare il suo corpo, di toccare con mano la sua ferita. Naturalmente, poiché doveva essere riconosciuto per le sue ferite, egli dovette mostrarsi con il corpo che aveva ricevuto le ferite.
All'incredulo io domando attraverso quali parti dell'abitazione che era chiusa, Cristo, dotato di corpo com'era, poté penetrare. Con molta precisione l'Evangelista annota infatti: Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro. Forse che, penetrando nella struttura delle pareti e nella compattezza delle parti in legno, attraversò la loro natura impenetrabile? Infatti, eccolo lì in mezzo a loro con un corpo reale, non sotto apparenze simulate o false.
Segui, dunque, con gli occhi della tua mente la via battuta da lui nel penetrare, accompagnalo con la vista dell'intelletto mentre entra nell'abitazione chiusa.
Tutte le aperture sono intatte e sbarrate, ma ecco compare in mezzo colui al quale tutto è accessibile in virtù della sua potenza. Tu vai cavillando sui fatti invisibili, io a te domando la spiegazione di fatti visibili. Non viene meno in alcun modo la compattezza e il materiale ligneo e pietroso non lascia passare cosa alcuna attraverso gli elementi che lo compongono, per una specie di infiltrazione impercettibile. Il corpo del Signore non perde la sua natura fisica per poi riprenderla dal nulla: eppure di dove viene colui che si ferma in mezzo? A queste domande si arrendono pensiero e parola, e il fatto nella sua verità supera l'umana capacità di intendere.
Tommaso esclama: Mio Signore e mio Dio! Dunque, colui che egli confessa come Dio è il suo Dio. Senza dubbio Tommaso non ignorava le parole del Signore: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.Come la fede di un Apostolo, professando Cristo come Dio, poté dimenticare il massimo precetto che ordina di vivere nella confessione dell'unità divina? Ma la potenza della risurrezione fece intendere all'Apostolo il mistero della fede nella sua pienezza. Già sovente egli aveva udito le parole di Gesù: Io e il Padre siamo una cosa sola. Tutto quello che il Padre possiede è mio. Io sono nel Padre e il Padre è in me. Ormai, senza pericolo per la fede, Tommaso può attribuire a Cristo il nome che designa la natura divina.
La sua fede schietta non esclude di credere nell'unico Dio Padre proclamando la divinità del Figlio di Dio. Infatti, egli crede che il Figlio di Dio non possiede una natura diversa da quella del Padre.
E la fede nell'unica natura non correva il rischio di trasformarsi in empia confessione di un secondo Dio, perché la perfetta nascita di Dio non aveva portato una seconda natura divina. Pertanto, fu con piena conoscenza della verità contenuta nel mistero evangelico che Tommaso confessò il suo Signore e il suo Dio. Qui non si tratta di un titolo d'onore, ma del riconoscimento della sua natura. Egli credette che Cristo era Dio nella piena realtà della sua sostanza e della sua potenza.
Il Signore confermò che l'affermazione di Tommaso non era un semplice riconoscimento di onore, ma atto di fede, dicendo: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
Infatti, Tommaso credette perché vide. Ma tu mi puoi domandare: Che cosa ha creduto? Che cosa poté credere se non ciò che ha dichiarato:Mio Signore e mio Dio? Nessuna natura, se non quella divina, avrebbe potuto risorgere per propria virtù dalla morte alla vita; e la sicurezza di una fede ormai certa fa professare a Tommaso questa verità, cioè che è Dio.
Non possiamo pensare che il nome Dio non indichi una natura reale. Infatti quel nome non è forse stato pronunziato in base a una fede nella natura divina fondata su prove? Sicuramente quel Figlio, devoto al Padre suo, che faceva non la sua volontà, ma quella di colui che lo aveva mandato e cercava non la propria gloria, ma quella di colui dal quale era venuto, avrebbe ricusato nei propri confronti l'onore implicito in un nome del genere, per non distruggere l'unità divina che aveva proclamato.
Ma in realtà, egli conferma il mistero espresso dalla fede dell'Apostolo e accetta come suo il nome che indica la natura del Padre; così egli insegnò che erano beati coloro che, pur non avendo visto quando risorgeva dai morti, afferrando il senso della risurrezione avevano creduto che egli era Dio.


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Dal Trattato "La Vita in Cristo" di Nicola Cabasilas
VI,2. PG 150,645-648.

Chi ama possiede due mezzi per riportare vittoria: fare del bene all'amato secondo ogni modo possibile, o soffrire per lui atroci tormenti. Quest'ultima prova di amore è di gran lunga superiore alla prima. Ora, Dio era nell'impossibilità di soffrire, dato che è impassibile. Amico degli uomini com'è, Dio poteva colmare l'uomo dei suoi benefici, ma era incapace di patire piaghe e dolori per lui. All'amore infinito mancava il segno che lo manifestasse.
Eppure Dio non poteva più lasciarlo ignorato e nascosto. Per mostrarne l'immensità e per convincerci del suo amore estremo, escogitò il suo annientamento e si rese capace di soffrire mali e tormenti. Così, con tutto quello che avrebbe sopportato, Dio sarebbe stato in grado di testimoniare la straordinarietà del suo amore e avrebbe ricondotto a sé il genere umano. Infatti gli uomini lo fuggivano, credendosi l'oggetto della sua ostilità.
C’è ancora qualcosa di più sorprendente. Il Signore non subì soltanto i più atroci supplizi finendo col soccombere alle torture. Quando risuscitò, dopo aver strappato il corpo alla corruzione, conservò le piaghe e si presentò agli angeli coperto di cicatrici, come cinto di un ornamento e compiaciuto di mostrare ciò che aveva patito. Ormai il suo corpo glorioso si è spogliato di ogni pesantezza, senza più dimensioni, mutamenti o altre proprietà corporee; però ha voluto mantenere piaghe e cicatrici, stimando doverle proprio conservare per amore dell'uomo. Non l'ha forse ritrovato grazie alle proprie piaghe? Non ha forse preso di nuovo l'amato grazie alle sue trafitture? Altrimenti come spiegare la presenza sul suo corpo glorioso di quelle lesioni che la natura o la chirurgia pòssono far sparire sopra corpi mortali e corruttibli?
A quanto pare, il Signore avrebbe voluto soffrire molte volte per noi. Ma non era possibile, perché il suo corpo non era più soggetto alla corruzione. E poi voleva risparmiare agli uomini il delitto di tormentarlo ancora. Perciò stabili di conservare sopra di sé i segni della sua immolazione, di conservare in eterno il marchio delle ferite impresse una volta per sempre durante la crocifissione. Nel suo ineffabile splendore eterno, egli rimane il crocifisso che ha il costato trafitto per salvare gli schiavi, e le piaghe sono il suo regale ornamento.
A cosa paragonare un simile amore? L'uomo sarà mai capace di amare tanto? Quale madre è così tenera verso la sua creatura? Quale padre è così affettuoso con i propri figli? Un uomo giusto potrà mai dar prova di un amore cosi sragionevole al punto da sopportare i colpi di colui che ama, serbando intatta l'amicizia verso l'ingrato, e da stimare infinitamente preziose le ferite ricevute?
Non pago di amarci, il Signore ci tiene in grandissima stima. Il colmo dell'onore che ci fa è di non arrossire delle nostre debolezze fisiche e di sedere sul trono regale coperto di quelle piaghe che ne sono il retaggio. Dio non ha elevato in dignità la nostra natura a danno di chiunque sia, ma ci invita tutti alla corona celeste. Tutti ci ha liberati dalla schiavitù e gratificati della filiazione divina. A tutti apre il cielo e mostrando la via e il modo di volare, da anche le ali. Anzi, non ancora soddisfatto, lui stesso guida, sostiene e incita gli infingardi che siamo. Non è ancora tutto. La dedizione del Signore verso i suoi servi va oltre: egli non si accontenta di renderci partecipi dei suoi beni e di venirci in aiuto, ma consegna se stesso a noi. Cosi diveniamo tempio del Dio vivente e membra del corpo di Cristo, di cui i cherubini adorano il Capo. E le mani e i piedi di quel Corpo, ossia noi, vengono retti e dipendono dal Cuore divino. 
Da vita in Cristo,VI,2. PG 150,645-648.

APPROFONDIMENTI



RATZINGER - BENEDETTO XVI. San Tommaso



UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro, Mercoledì, 27 settembre 2006
Tommaso

Cari fratelli e sorelle, proseguendo i nostri incontri con i dodici Apostoli scelti direttamente da Gesù, oggi dedichiamo la nostra attenzione a Tommaso. Sempre presente nelle quattro liste compilate dal Nuovo Testamento, egli nei primi tre Vangeli è collocato accanto a Matteo (cfr Mt 10, 3; Mc 3, 18; Lc 6, 15), mentre negli Atti si trova vicino a Filippo (cfr At 1, 13). Il suo nome deriva da una radice ebraica, ta'am, che significa "appaiato, gemello". In effetti, il Vangelo di Giovanni più volte lo chiama con il soprannome di "Didimo" (cfr Gv 11, 16; 20, 24; 21, 2), che in greco vuol dire appunto "gemello". Non è chiaro il perché di questo appellativo... Notissima, poi, e persino proverbiale è la scena di Tommaso incredulo, avvenuta otto giorni dopo la Pasqua. In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò!" (Gv 20, 25). In fondo, da queste parole emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell'identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l'Apostolo non si sbaglia. Come sappiamo, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente" (Gv 20, 27). Tommaso reagisce con la più splendida professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28). A questo proposito commenta Sant'Agostino: Tommaso "vedeva e toccava l'uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato" (In Iohann. 121, 5). L'evangelista prosegue con un'ultima parola di Gesù a Tommaso: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20, 29). Questa frase si può anche mettere al presente: "Beati quelli che non vedono eppure credono". In ogni caso, qui Gesù enuncia un principio fondamentale per i cristiani che verranno dopo Tommaso, quindi per tutti noi. È interessante osservare come un altro Tommaso, il grande teologo medioevale di Aquino, accosti a questa formula di beatitudine quella apparentemente opposta riportata da Luca: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete" (Lc 10, 23). Ma l'Aquinate commenta: "Merita molto di più chi crede senza vedere che non chi crede vedendo" (In Johann. XX lectio VI 2566). In effetti, la Lettera agli Ebrei, richiamando tutta la serie degli antichi Patriarchi biblici, che credettero in Dio senza vedere il compimento delle sue promesse, definisce la fede come "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (11, 1). Il caso dell'apostolo Tommaso è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui... Ricordiamo infine che, secondo un'antica tradizione, Tommaso evangelizzò prima la Siria e la Persia (così riferisce già Origene, riportato da Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. 3, 1) poi si spinse fino all'India occidentale (cfr Atti di Tommaso 1-2 e 17ss), da dove infine raggiunse anche l'India meridionale. In questa prospettiva missionaria terminiamo la nostra riflessione, esprimendo l'auspicio che l'esempio di Tommaso corrobori sempre più la nostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio

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RATZINGER - BENEDETTO XVI. Domenica in Albis: Gesù è un Dio ferito dall’amore verso di noi



Cari fratelli e sorelle,

secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di Domenica "in Albis". In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse celebrata come la Festa della Divina Misericordia: nella parola "misericordia", egli trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione. Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni orsono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena. Morendo egli è entrato nella luce della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio.

Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita. Saluto quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza. Saluto innanzitutto i Signori Cardinali, con un particolare pensiero di gratitudine al Decano del Collegio cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che s’è fatto autorevole interprete dei comuni sentimenti. Saluto gli Arcivescovi e Vescovi, tra i quali gli Ausiliari della Diocesi di Roma, della mia Diocesi; saluto i Prelati e gli altri membri del Clero, i Religiosi e le Religiose e tutti i fedeli presenti. Un pensiero deferente e grato rivolgo inoltre alle Personalità politiche e ai membri del Corpo Diplomatico, che hanno voluto onorarmi con la loro presenza. Saluto infine, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, Metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata.

Siamo qui raccolti per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza. Ovviamente, la liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio. "Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto", dice un Salmo (65 [66], 16). Ho sempre considerato un grande dono della Misericordia Divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio. Sì, ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa "famiglia"; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna.

Nella prima lettura di questa domenica ci viene raccontato che, agli albori della Chiesa nascente, la gente portava i malati nelle piazze, perché, quando Pietro passava, la sua ombra li coprisse: a quest’ombra si attribuiva una forza risanatrice. Quest’ombra, infatti, proveniva dalla luce di Cristo e perciò recava in sé qualcosa del potere della sua bontà divina. L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo!

Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo. Proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale. Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del Vescovo: "Non vi chiamo più servi, ma amici". Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…". Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà.

Nel brano evangelico di oggi abbiamo anche ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28). Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: "Mio Signore e mio Dio!" E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!

Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi. Vorrei concludere questa omelia con la preghiera del santo Papa Leone Magno, quella preghiera che, proprio trent’anni fa, scrissi sull’immagine-ricordo della mia consacrazione episcopale: "Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia dedizione. Amen".

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Ravasi. Tommaso: l'incredulo che diventò credente




Protagonista del Vangelo letto nella liturgia di questa seconda domenica di Pasqua è l’apostolo Tommaso, in aramaico Torna, reso in greco con Didimo, cioè "gemello", divenuto celebre proprio per l’episodio della sua incredulità nei confronti del Cristo risorto, narrato appunto dal Vangelo di Giovanni (20,19-31).
Talmente celebre da vedersi attribuire una serie di scritti apocrifi, tra i quali, oltre agli Atti di Tommaso (III sec.), anche un curioso Vangelo, scritto in lingua copta, scoperto nel 1945 in Egitto e contenente 114 frasi di Gesù, alcune presenti anche nei Vangeli canonici e altre probabilmente storiche e quindi da far risalire allo stesso Gesù. Uno dei testi più popolari del Medioevo, la Legenda aurea, farà morire Tommaso martire in India, ove ancor oggi una Chiesa cattolica locale ne conserva la memoria secondo un rito proprio.

Il filo del dubbio, stando almeno al Vangelo di Giovanni (gli altri Vangeli lo segnalano solo nelle liste dei dodici apostoli), si era altre volte attorcigliato attorno al cuore di questodiscepolo. Così, in occasione della scelta di Gesù di ntornare in Giudea per onorare la salma dell’amico Lazzaro, scelta pericolosa sapendo l’ostilità delle autorità gerosolimitane, Tommaso aveva reagito sarcasticamente: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (11,16). Il dubbio affiora in lui anche in quella sera carica di tensione, quando Gesù sta parlando a lungo coi suoi discepoli, dopo aver con loro celebrato l’ultima cena.

Ascoltiamo il racconto dell’evangelista Giovanni.

Gesù sta dicendo: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti... Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».

A questo punto Tommaso lo interrompe: «Signore, non sappiamo dove vai e, allora, come possiamo conoscere la vita?».
E Gesù gli replicherà con quella bellissima autodefinizione: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (14,2-6).

Ma, come si diceva, l’apice è dopo la morte di Cristo, ancora nello spazio del Cenacolo, allorché, Otto giorni dopo la Pasqua, Tommaso è invitato dal Risorto a «non essere incredulo ma credente» e a porre il suo dito sulle mani e a mettere la mano nel costato ferito di Cristo.

Caravaggio in una tela del 1600-1601, conservata in Germania, a Potsdam, presso Berlino, nella Sans-Souci Bildegalerie, raffigurerà con potenza quel dito che si insinua nello squarcio del costato di Gesù. E Tommaso, finalmente, esploderà in quella stupenda e lapidaria professione di fede che, da bambini, ci si insegnava di ripetere quando il sacerdote alzava l’ostia dopo la consacrazione: «Mio Signore e mio Dio!».

In appendice vorremmo aggiungere una curiosità legata alla tradizione artistica.
Il tema dell’incredulità dell’apostolo Tommaso verrà riproposto anche nella raffigurazione dell’assunzione di Maria al cielo. Così, ad esempio, se si va a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia e si ammira l’Assunzione della Vergine di Palma il Vecchio (1513), si vede che Maria, già assunta in cielo, riappare a Tommaso, che non era stato presente e che aveva dubitato, e gli dona la sua cintura, facendola scendere dall’alto su di lui, riunito con gli altri apostoli.

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Madre Teresa di Calcutta. EDUCARCI ALLA FEDE




Ma la leggenda teologica dell’apparizione a Tommaso ci può anche educare alla “misericordia”, nel senso che ci evidenzia quanto Gesù abbia insieme capito e contrastato il bisogno dei segni, il bisogno di toccare. Gesù spesso si é trovato a dover educare l’interlocutore, tentato di fermarsi al dato materiale, evidente. Gesù, in questo brano di costruzione teologica, é colui che capisce la debolezza di Tommaso, la corregge e addita una strada diversa. Anche quando i discepoli si sono dimostrati sordi e ciechi al suo insegnamento, Gesù non si é stancato di loro. Li ha corretti, amati, aiutati a crescere.La comunità cristiana anche oggi, alle prese con mille difficoltà e mille deviazioni, può leggere questo brano anche per imparare quel dialogo interno, franco e coraggioso, che offre a ogni persona la possibilità e il tempo di crescere e di riorientare la propria vita. Anche quando tutte le porte sono chiuse (come ripete Giovanni ai versetti 19 e 27), anche quando le possibilità di cambiamento sembrano sbarrate e impossibili, la parola di Gesù può fare breccia nei nostri cuori. La partita non é mai chiusa e può riaprirsi ad ogni istante della nostra vita.La strada nella fede-fiducia in Dio si riapre… L’immagine di Gesù che, come dicevamo da bambini, passa attraverso il buco della serratura, è la testimonianza di quell’amore con cui Dio, attraverso Gesù e in mille modi, cerca i nostri cuori e vuole riaprire un dialogo con noi.Noi purtroppo ci troviamo spesso a vivere in una chiesa in cui ci sono troppe porte chiuse, con troppi “guardiani” che usano le chiavi quasi solo per chiudere. In questo contesto molti pastori della nostra chiesa farebbero bene a riascoltare l’ammonizione evangelica:” Guai a voi … perchè avete portato via la chiave della conoscenza: voi non ci siete entrati e l’avete impedito a quelli che avrebbero voluto entrare” (Luca 11,52 e Matteo 23, 13-14).Ma l’espressione fa esplodere la speranza: se anche un ministro della chiesa sbarra le porte ad un gay, ad una lesbica, ad un separato, ad una divorziata, ad un prete sposato… l’azione di Dio non si ferma e il messaggio di Gesù può penetrare anche ” a porte chiuse”.

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Card. Caffarra. Omelia su San Tommaso




Visita Pastorale Focomorto-Baura 30 aprile 2000

Di che cosa ci parla il Signore oggi? Ci insegna quale è la fede vera (1) [nella seconda lettura soprattutto] quale è il cammino dall’incredulità alla fede (2) [nel Vangelo], ed infine ci insegna che cosa produce la fede in chi crede e nel mondo (3) [nella prima e nella seconda lettura]. Vedete come il Signore ci ama: ancora all’inizio del tempo pasquale Egli ci dona un’istruzione completa sulla vita cristiana.

1. "Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio – Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?"

Ecco questa è la fede cristiana: credere che Gesù è il Cristo; credere che Gesù è il Figlio di Dio. Alla domanda dunque: "chi è il cristiano?", oggi la Parola di Dio ci insegna a rispondere: "è colui che crede che Gesù è il Cristo, è il Figlio di Dio". Fermiamoci un momento a riflettere su questa definizione.

Essere cristiani significa entrare in rapporto [fra poco spiegherò di che rapporto si tratta] con una persona: Gesù. Con una persona che ha vissuto come noi una vita umana impastata colle nostre stesse esperienze quotidiane: ha vissuto dentro una famiglia, ha lavorato, ha gioito e pianto, è morto. Essere cristiani non significa in primo luogo imparare una dottrina cercando poi di praticarla nella vita. Significa fare spazio dentro alla nostra esistenza ad una presenza: la presenza della persona di Gesù.

Ma di che rapporto di tratta? La parola di Dio ci risponde che è un rapporto di fede: "chi crede che Gesù è …". La fede, carissimi fratelli e sorelle, è riconoscere con incrollabile certezza che quell’uomo, Gesù, "è il Figlio di Dio". E’ questo il nucleo centrale della fede cristiana: quella persona che vive in tutto umanamente è Dio stesso-Figlio unigenito; quell’uomo della storia, Gesù, è veramente il Figlio di Dio venuto da presso il Padre. E’ per questo che Egli ha potuto dire: "Io sono la via, la verità e la vita": Egli, la sua persona, è la piena rivelazione in linguaggio umano del Mistero stesso di Dio. L’esperienza di Tommaso, nel Vangelo, è stata esattamente questa: ha toccato colle sue mani un corpo umano ed ha riconosciuto che quella persona incarnata era Dio.

2. Ed ora chiediamoci: "come giungiamo a questo riconoscimento?". La parola di Dio, attraverso l’episodio di Tommaso, ci insegna quale cammino dobbiamo percorrere per giungere alla fede in Cristo.

La storia di Tommaso inizia con un’assenza: "Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù". Egli cioè non ha avuto la possibilità, già concessa ai suoi amici, di "vedere" il Risorto. E’ esattamente la nostra situazione attuale: a noi oggi non è dato di "vedere" il Risorto. E qui si pone la possibilità concreta di unadivaricazione fondamentale: quella che separa i credenti dai non credenti.

A Tommaso è offerta una testimonianza precisa: "Gli dissero allora gli altri discepoli: abbiamo visto il Signore". Egli, Tommaso, è posto di fronte a due possibilità: o accettare la testimonianza apostolica o esigere una verifica diretta del fatto. Ed è ciò che Tommaso vuole: "se non vedo…"

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Ignace de la Potterie. “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”




Due aspetti ci preme mettere in rilievo: anche in questa versione riveduta, le parole di Gesù vengono tradotte con un’imprecisione, rispetto all’originale greco. E tale imprecisione viene di fatto utilizzata per confermare con l’autorità del Vangelo un’impostazione che sembra prevalente nella Chiesa di oggi: l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. L’errore di traduzione a cui pensa di poter appoggiarsi tale interpretazione, che di fatto travisa il passo evangelico, consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù: “Beati coloro che credono, pur senza aver visto”. In questo modo le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro che vivono nei tempi successivi alla morte e risurrezione di Gesù. E infatti la nota [1] spiega che solo per i contemporanei di Gesù “visione e fede erano abbinate”, mentre per tutti coloro che vengono dopo, “la normalità della fede poggia sull’ascolto, non sul vedere”. Secondo questa interpretazione sembra quasi che Gesù si opponga al naturale desiderio di vedere, chiedendo a noi una fede fondata solo sull’ascolto della Parola. In realtà, qui il verbo non è al presente, come viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες), anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). “Tu hai creduto perché hai visto” - dice Gesù a Tommaso - “beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me]hanno creduto” rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’ passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente (“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre è esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un altro ricorrente errore di traduzione, ripetuto anche dalla nuova versione CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla “prova empirica” richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: “E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente”. Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: “E non essere incredulo, ma credente”. Ora, nel testo originale, il verbo “diventare” suggerisce l’idea di dinamismo, di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento, e sembra quasi sottintendere che la fede consiste in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. E’ un totale rovesciamento. Tommaso, anche lui, vede Gesù e allora, sulla base di questa esperienza, è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di “vedere” Gesù e accostarsi alle sue piaghe. Come vuole l’idealismo per cui è la fede a creare la realtà da credere. Le spiegazioni della nota, basate su queste traduzioni inesatte, e che per fortuna, come ha premesso monsignor Antonelli, non possiedono “alcun carattere di ufficialità”, sembrano comunque piegare le parole di Gesù alla nuova tendenza che vige oggi nella Chiesa, secondo cui una fede pura è quella che prescinde dal “vedere”, ossia dall’appoggio e dallo stimolo dei segni sensibili. E’ vero, come spiega la nota, che nel tempo attuale “la visione non può essere pretesa”. Niente nell’esperienza cristiana può mai essere oggetto di “pretesa”. Ma mettere in alternativa il vedere e l’ascoltare e sostenere che “la normalità della fede poggia sull’ascolto, e non sul vedere” ossia che basta ascoltare il “racconto” del cristianesimo per diventare cristiani, sembra essere in contraddizione con tutto ciò che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il “vedere” può essere una via d’accesso al “credere”. Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo: per rifare l’esperienza di coloro che dal “vedere” sono passati al “credere” (si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale). Il Vangelo di Marco si conclude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: “Allora essi partirono e annunciarono il vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all'orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione e che non sono un di meno, una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie: “In manibus nostris codices, in oculis facta”, dice Agostino: “nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti”. Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nell’Incarnazione del Verbo: “Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa – solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini - veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede”. Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 156, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «“Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione”. Così i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza”, sono “motivi di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede non è “affatto un cieco moto dello spirito”».
In particolare, sono i santi che attualizzano per i loro contemporanei i racconti del Vangelo. Quando san Francesco parlava, per chi era lì presente era chiarissimo che i Vangeli non erano un racconto del passato, solo da leggere e ascoltare: in quel momento era evidente che in quell’uomo era presente e agiva Gesù stesso.
Non per niente anche Giovanni Paolo II ha proposto in chiave positiva proprio la figura dell’apostolo Tommaso, quando, in un suo discorso ai giovani di Roma, il 24 marzo del ’94, li ha invitati a prendere sul serio, rispettare e accogliere questa sete di prove esteriori, visibili, così viva tra i loro coetanei: «Noi li conosciamo [questi giovani empirici], sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza della realtà. E questi sono pronti, se un giorno Gesù viene e si presenta loro, se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: Mio Signore e mio Dio!».

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IGNACE DE LA POTTERIE Gesù e Tommaso




Se la fede pasquale dei discepoli ha veramente raggiunto questo punto culminante nell'episodio precedente, la descrizione della genesi della fede sembra essere arrivata a termine. Ma in questo caso, cosa può ancora significare l'apparizione di Gesù in presenza di Tommaso? Il problema che pone quest'ulti-ma pericope è stato presentato in termini eccellenti dagli autori dell'articolo di « Biblica »: « Ci si potrebbe in un certo senso domandare cosa aggiunge di nuovo l'episodio di Tommaso. Maria ha visto il Cristo salito e glorificato. I discepoli hanno visto Cristo salito al cielo e glorificato. Qui è raggiunto il punto più alto: l'equilibrio è perfetto, l'unione del Cristo storico e del Verbo eterno è pienamente manifestata. Cosa aggiungere di più? ».
Tuttavia, è certo che l'apparizione a Tommaso deve avere un senso teologico preciso, diverso da quello degli episodi precedenti, tanto più che, per i critici, la sua redazione è da attribuirsi prima di tutto all'evangelista stesso. Bultmann fa ricadere tutto il peso dell'episodio sul versetto di conclusione, la beatitudine di quelli che credono senza aver visto; essa sarebbe da interpretare « come una critica radicale dei "segni" e della apparizioni pasquali e come una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore ». Ma è arbitrario interpretare la scena a partire dal solo v. 29. Si impone un'analisi dettagliata di tutto il passo. Lo stesso Bultmann ha visto molto bene il carattere paradossale di questi versetti: la beatitudine finale (credere senza avere visto) è rivolta a Tommaso, uno dei primi discepoli, uno di quelli che hanno pur visto il Signore; sembra dunque, pensa Bultmann, che il rimprovero che gli è rivolto debba estendersi agli altri discepoli e a Maria Maddalena, poiché essi, certamente, hanno creduto dopo aver visto. Ma come ammettere una conclusione del genere, che riduce praticamente a niente l'importanza di tutto il capitolo?

1. Attiriamo dunque l'attenzione su alcuni elementi importanti della strut-tura letteraria di tutta la sezione. Da un lato, ricordiamolo, questo episodio (A') è parallelo a quello dei due discepoli nel giardino (A); dall'altro, è innegabile che l'apparizione a Tommaso è come una ripetizione dell'apparizione ai discepoli (B'). Questo doppio parallelismo deve essere esaminato attentamente. E denso di insegnamento. La pericope dei due discepoli al sepolcro e quella di Tommaso sono costruite in maniera simile; esse si compongono l'una e l'altra di due movimenti:

a) (20, 1-10) I discepoli al sepolcro: « Egli vide e credette » (20,3-8).
b) Rimprovero ai discepoli (20,9-10).
a') Tommaso davanti a Gesù « ... tu vedi, tu credi » (20, 26-29a).
b') Rimprovero a Tommaso (20, 29b).

L'espressione « vedere e credere » appare nei due casi (a, a'). Ciò che viene rimproverato a Tommaso, non è di aver visto Gesù, poiché Gesù stesso ha voluto manifestarsi a lui. Il rimprovero cade sul fatto che Tommaso ha rifiutato, all'inizio, di credere, quando ha sentito l'annuncio dei discepoli. Ma bisogna anche tener conto delle somiglianze evidenti fra la nostra pericope e precedente, ovvero fra l'apparizione a Tommaso e quella ai disce-poli: nei due casi, si tratta di una visione sensibile, (20, 20; , 20, 25) che si dischiude in una visione di fede ( 20, 25; 20, 29). Il rimprovero di Gesù, qui ancora, non è legato dunque al fatto che lui, «uno dei Dodici » (20, 24) fa la stessa esperienza degli altri; al contrario questa esperienza l'ha portato a fare la più bella confessione di fede di tutto il quarto vangelo: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28). Gesù lascia invece intendere che egli avrebbe già dovuto « credere senza vederlo » : la testimonianza di tutti gli altri del gruppo dei Dodici avrebbe dovuto bastargli.

2. Si coglie ora ciò che ha di specifico e polivalente il caso di Tommaso. Appartiene contemporaneamente, se così si può dire, a due gruppi: è uno dei Dodici, è stato gratificato come gli altri dalla visione del Signore (cfr. ciò che Paolo dirà più tardi, per rivendicare il suo titolo di Apostolo: « Io ho visto Gesù, nostro Signore », 1 Cor 9, 1); ma poiché era assente alla prima apparizione di Gesù ai discepoli, egli è per così dire il primo di tutti quelli che, in seguito, dovranno credere senza vedere. Questo doppio orientamento dell'episodio, all'indietro e in avanti, rende la sua analisi particolarmente delicata. Tenendo nel dovuto conto questi due aspetti, si può descrivere come segue il senso teologico dell'apparizione a Tommaso: essa ci fa comprendere innanzi tutto (è l'orientamento in avanti) l'importanza che prenderà d'ora in poi il «credere senza avere visto » (20, 29); è ciò che avrebbe già dovuto fare Tommaso, sulla base della testimonianza degli altri discepoli. Ma questa testimonianza dei disce-poli era essa stessa basata sulla vista sensibile e sulla visione di fede che avevano avuto del Cristo risuscitato (ecco l'orientamento del nostro episodio all'indietro); e Tommaso, anche lui, può rifare per suo conto la stessa esperienza dell'incontro con Gesù. La lezione teologica che scaturisce da questa scena è dunque doppia: ormai i credenti nella Chiesa dovranno credere senza aver visto; di ciò, Tommaso avrebbe già dovuto dare l'esempio; d'altra parte, resta il fatto che questa fede cristiana si collega sempre all'esperienza fondante dei primi testimoni, che ave-vano avuto la visione di fede del Cristo glorioso; la loro testimonianza avrebbe dovuto bastare a Tommaso; viene tuttavia concesso a Tommaso di rifare la stessa esperienza, poiché era « uno dei Dodici » (20, 24).

3. Cerchiamo di mettere ancora meglio in luce questi due aspetti dell'episodio.

a) Il parallelismo fra l'apparizione a Tommaso e l'apparizione ai discepoli mostra molto chiaramente in che senso è importante «vedere » Gesù. I discepoli avevano raccontato a Tommaso: « Abbiamo visto il Signore » (20, 25). Era, ricordiamo, una visione di fede, il frutto del dono dello Spirito. Il rifiuto di Tommaso è tuttavia categorico. Vuole verificare di persona: « Vuole sperimenta-re; vuole vedere; vuole toccare Gesù nella sua realtà fisica (...) . In altri termini, egli pone e definisce le condizioni della fede (...) . La risurrezione del Cristo non è conosciuto in tal modo da nessuno dei testimoni del vangelo ». Nondimeno, Gesù si manifesta di nuovo, questa volta in presenza di Tommaso: accede al suo desiderio e si lascia toccare. Ma l'invita formalmente a superare lo stadio equivoco e pericoloso in cui si è posto: « Smetti di essere incredulo e diventa un uomo di fede ». Nessun altro testo di questo capitolo esprime così chiaramente l'esigenza fondamentale della progressione nella fede. Il tema sarà ripreso nella conclusione generale del vangelo (20, 31). Per Tommaso, questa parola è un invito a un cambiamento radicale: il passaggio dalla vista (unicamente) sensibile di Gesù e delle piaghe della Passione alla visione di fede del Signore glorificato; è questa che ispirerà la sua confessione di fede: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28).

b) Un'altra dimensione dell'episodio ci porta ancora indietro (la testimonianza ricevuta), certo, ma ci orienta soprattutto verso l'avvenire: è l'importanza di « credere senza vedere ». Qui scatta il parallelismo di 20, 24-25 con 20, 1-2. I due discepoli avevano ricevuto da Maria Maddalena la notizia della rimozione della pietra del sepolcro, e corsero subito là; anche senza vedere Gesù, il discepo-lo prediletto « cominciò a credere » (20, 8). Tommaso, anche lui, ricevette una testimonianza formale da parte dei discepoli; essi avevano « visto il Signore » (20, 25). Senza vedere lui stesso Gesù, Tommaso avrebbe già dovuto credere. Nei due casi, il testo sottolinea l'importanza della trasmissione del messaggio, e dunque dell'attestazione dei primi testimoni (è il punto di partenza della Tradi-zione). E in questo senso che si deve comprendere la beatitudine finale, che proclama beati coloro che credono nel Signore senza averlo visto coi loro occhi. Quest'ultima frase del vangelo prepara la conclusione generale (20, 30-31) e apre una larga prospettiva sulla vita della Chiesa. Ma questa necessità di credere senza vedere non significa che le apparizioni pasquali e la visione di fede dei primi testimoni non abbiano più alcun peso per i credenti che seguiranno. Esse avevano avuto un'importanza decisiva per i discepoli: quelli che ormai crederanno nel Signore senza averlo conosciuto, dice molto bene il P. Mollat, lo faranno « sull'attestazione di coloro che l'hanno visto. C'è alla fine del vangelo, un appello tacito dell'evangelista al lettore. Lo invita a rimettersi (...) alla testimonianza contenuta nello scritto ». È ciò che sarà detto esplicitamente nella conclusione generale del vangelo. E si comprende ancora meglio ora perché Giovanni, nel prologo del vangelo (1, 14) e in quello della prima lettera (1 Gv 1, 1a), insista sul fatto che i discepoli e testimoni hanno visto e contemplato il Verbo incarnato: questa vista del Signore, questa esperienza fondante dei testimoni, è il punto di partenza (1 Gv 1, 1) per la fede di tutti i credenti nella Tradizione cristiana.