Oggi 15 aprile celebriamo la
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II DOMENICA DI PASQUA
"della Divina Misericordia"
MESSALE
Antifona d'Ingresso 1 Pt 2,2
Come bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale, che vi faccia crescere verso la salvezza. Alleluia.
Quasi modo géniti infántes,
rationábile, sine dolo lac concupíscite,
ut in eo crescátis in salútem, allelúia.
Oppure: 4 Esd 2,36-37 Entrate nella gioia e nella gloria, e rendete grazie a Dio, che vi ha chiamato al regno dei cieli. Alleluia.
Colletta
Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l'inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Per il nostro Signore...
Oppure:
O Dio, che in ogni Pasqua domenicale ci fai vivere le meraviglie della salvezza, fa' che riconosciamo con la grazia dello Spirito il Signore presente nell'assemblea dei fratelli, per rendere testimonianza della sua risurrezione. Per il nostro Signore... LITURGIA DELLA PAROLA Prima Lettura At 4, 32-35 Un cuore solo e un'anima sola.Dagli Atti degli Apostoli La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.Salmo Responsoriale Dal Salmo 117 Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.Dica Israele: «Il suo amore è per sempre». Dica la casa di Aronne: «Il suo amore è per sempre». Dicano quelli che temono il Signore: «Il suo amore è per sempre». La destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto prodezze. Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore. Il Signore mi ha castigato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte. La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo! Seconda Lettura 1 Gv 5, 1-6 Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo. Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. SEQUENZA (Facoltativa)Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode. L'agnello ha redento i suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre. Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa. « Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via? ». « La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti. Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea ». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza. Canto al Vangelo Gv 20,29 Alleluia, alleluia. Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Alleluia.
Vangelo Gv 20, 19-31
Otto giorni dopo, venne Gesù. Dal vangelo secondo Giovanni La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. Parola del Signore.
COMMENTI
«Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
San Paolo, quando parla di Cristo che vive in Lui, si riferisce al Risorto, perché solo un “Risorto” può essere nostro contemporaneo e può vivere in noi!
Dentro questo paradosso di una morte che dà la vita, di una fede che rinnova la stessa vita concreta, nella carne, si inscrive tutta la verità dell’Avvenimento di Cristo Risorto e l’esperienza della Sua Divina Misericordia.
Una fede dentro la carne, perché senza la carne - cioè senza l’assunzione della condizione umanamente fragile di tutti noi - la risurrezione di Cristo, che è risurrezione della carne, sarebbe incomprensibile e la nostra speranza sarebbe vana, perché staremmo davanti ad un Dio lontano, astratto, che dice nulla e non si può né udire, né toccare né vedere.
Senza una carne non potremmo toccare con mano ciò che il nostro cuore desidera.
Invece - questa è la novità assoluta del cristianesimo! - una luce incancellabile è entrata dentro il limite e perfino la pesantezza della nostra “carne quotidiana”; una luce nuova è entrata dentro la carne dei nostri rapporti umani, facendoli diventare amicizia e compagnia di vita, “un cuore solo e un’anima sola”, così che la carne concreta della compagnia che è la Chiesa è, adesso, il tempio della fede, cioè il luogo dove attingere e comunicare il significato supremo della vita.
Che cosa desiderava Tommaso se non rincontrare Cristo, con quella stessa carne con cui lo aveva visto mangiare e bere, parlare alle folle e compiere miracoli davanti a tutti?
Che cosa desiderava se non sperimentare nuovamente la tenerezza infinita con cui Cristo aveva amato la sua vita fino ad offrirsi per lui?
Perciò prorompe: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi... e non metto la mia mano nel suo costato non crederò». Non si accontentava San Tommaso di astrazioni e di formule di fede, sia pure ortodosse, sulla divinità di Cristo!
Il suo desiderio era giusto. Voleva toccare ancora quell’umanità che era stata tutto per lui. Solo che ormai la carne di Cristo da toccare, da vedere, da udire, erano proprio quei volti che gli stavano attorno, toccati e trasfigurati da un miracolo impossibile di letizia, i quali gli avevano detto: «Abbiamo visto il Signore!».
Solo per questo è stato rimproverato: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Beati quelli che troveranno la felicità del loro cuore guardando la carne di quei volti in cui oggi si identifica il mio Mistero, la mia Presenza.
La risurrezione è “una carne di volti” e “una carne di circostanze” dentro cui vive la fede e dice: «Abbiamo visto il Signore!”. Cristo viene a noi non solo con l’acqua, segno supremo di quella potenza di divinità che è lo Spirito; viene anche, e insieme, con il sangue, con una carne viva che si dà all’umano.
Questo è il compito, questo è lo slancio di testimonianza che sorge quando colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me mi fa toccare le ferite ancora sanguinanti della sua carne, dentro la carne di una compagnia che mi ama.
Portare agli uomini “la verità della vita” deve essere anche un portare “le ferite della loro vita”. Non si può rispondere all’ansia di vita, immaginandola senza ferite, o dimenticandone gli squarci e le devastazioni.
E’ vero solo un abbraccio che, assumendo in sé le ferite della tua vita, le fa toccare, le fa sperimentare come uno squarcio aperto su una salvezza possibile, reale e positività, così che sia possibile dire: «mio Signore, e mio Dio».
Ciascuno è chiamato ad abbracciare se stesso così: le mie ferite non sono più mie, sono la soglia di un Mistero di misericordia, di Divina Misericordia!
Una carne che, portando in sé le ferite del proprio male e di quello del mondo, possa far esclamare: “in te c’è una possibilità per me!” Questo è il comunicarsi della risurrezione, del Risorto che crocifisso vive in me.
«Con grande forza gli Apostoli rendevano testimonianza». Erano concordi, uniti solo per questo e da questo. Erano accomunati dall’unica ferita di Cristo che li faceva andare gli uni verso gli altri e, tutti insieme, in direzione di ogni uomo, versando il sangue della loro dedizione, in tutto; fino al bisogno specifico di ognuno: «Veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno», ma era lo stesso Cristo sempre e comunque che veniva distribuito a tutti secondo circostanze mutevoli. «E tutti essi godevano di una grande stima», perché comunicavano l’unica cosa che il cuore umano, quando è semplice, apprezza.
Imploriamo dalla Divina Misericordia, e dalla Beata Vergine Maria, che ne è il riflesso più pieno perché Immacolata, di poter riconoscere il Risorto, presente ed operante nella Chiesa, anche attraverso le nostre esistenze salvate.
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Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp
* * * RATZINGER - BENEDETTO XVI. Domenica in Albis: Gesù è un Dio ferito dall’amore verso di noi
Cari fratelli e sorelle,
secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di Domenica "in Albis". In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio.
Il Santo Padre Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse celebrata come la Festa della Divina Misericordia: nella parola "misericordia", egli trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione. Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni orsono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena. Morendo egli è entrato nella luce della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio.
Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita. Saluto quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza. Saluto innanzitutto i Signori Cardinali, con un particolare pensiero di gratitudine al Decano del Collegio cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che s’è fatto autorevole interprete dei comuni sentimenti. Saluto gli Arcivescovi e Vescovi, tra i quali gli Ausiliari della Diocesi di Roma, della mia Diocesi; saluto i Prelati e gli altri membri del Clero, i Religiosi e le Religiose e tutti i fedeli presenti. Un pensiero deferente e grato rivolgo inoltre alle Personalità politiche e ai membri del Corpo Diplomatico, che hanno voluto onorarmi con la loro presenza. Saluto infine, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, Metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata.
Siamo qui raccolti per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza. Ovviamente, la liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio. "Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto", dice un Salmo (65 [66], 16). Ho sempre considerato un grande dono della Misericordia Divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio. Sì, ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa "famiglia"; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna.
Nella prima lettura di questa domenica ci viene raccontato che, agli albori della Chiesa nascente, la gente portava i malati nelle piazze, perché, quando Pietro passava, la sua ombra li coprisse: a quest’ombra si attribuiva una forza risanatrice. Quest’ombra, infatti, proveniva dalla luce di Cristo e perciò recava in sé qualcosa del potere della sua bontà divina. L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo!
Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo. Proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale. Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del Vescovo: "Non vi chiamo più servi, ma amici". Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…". Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà.
Nel brano evangelico di oggi abbiamo anche ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28). Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: "Mio Signore e mio Dio!" E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!
Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi. Vorrei concludere questa omelia con la preghiera del santo Papa Leone Magno, quella preghiera che, proprio trent’anni fa, scrissi sull’immagine-ricordo della mia consacrazione episcopale: "Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia dedizione. Amen".
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Ravasi. Tommaso: l'incredulo che diventò credenteProtagonista del Vangelo letto nella liturgia di questa seconda domenica di Pasqua è l’apostolo Tommaso, in aramaico Torna, reso in greco con Didimo, cioè "gemello", divenuto celebre proprio per l’episodio della sua incredulità nei confronti del Cristo risorto, narrato appunto dal Vangelo di Giovanni (20,19-31). Talmente celebre da vedersi attribuire una serie di scritti apocrifi, tra i quali, oltre agli Atti di Tommaso (III sec.), anche un curioso Vangelo, scritto in lingua copta, scoperto nel 1945 in Egitto e contenente 114 frasi di Gesù, alcune presenti anche nei Vangeli canonici e altre probabilmente storiche e quindi da far risalire allo stesso Gesù. Uno dei testi più popolari del Medioevo, la Legenda aurea, farà morire Tommaso martire in India, ove ancor oggi una Chiesa cattolica locale ne conserva la memoria secondo un rito proprio. Il filo del dubbio, stando almeno al Vangelo di Giovanni (gli altri Vangeli lo segnalano solo nelle liste dei dodici apostoli), si era altre volte attorcigliato attorno al cuore di questodiscepolo. Così, in occasione della scelta di Gesù di ntornare in Giudea per onorare la salma dell’amico Lazzaro, scelta pericolosa sapendo l’ostilità delle autorità gerosolimitane, Tommaso aveva reagito sarcasticamente: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (11,16). Il dubbio affiora in lui anche in quella sera carica di tensione, quando Gesù sta parlando a lungo coi suoi discepoli, dopo aver con loro celebrato l’ultima cena. Ascoltiamo il racconto dell’evangelista Giovanni. Gesù sta dicendo: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti... Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». A questo punto Tommaso lo interrompe: «Signore, non sappiamo dove vai e, allora, come possiamo conoscere la vita?». E Gesù gli replicherà con quella bellissima autodefinizione: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (14,2-6). Ma, come si diceva, l’apice è dopo la morte di Cristo, ancora nello spazio del Cenacolo, allorché, Otto giorni dopo la Pasqua, Tommaso è invitato dal Risorto a «non essere incredulo ma credente» e a porre il suo dito sulle mani e a mettere la mano nel costato ferito di Cristo. Caravaggio in una tela del 1600-1601, conservata in Germania, a Potsdam, presso Berlino, nella Sans-Souci Bildegalerie, raffigurerà con potenza quel dito che si insinua nello squarcio del costato di Gesù. E Tommaso, finalmente, esploderà in quella stupenda e lapidaria professione di fede che, da bambini, ci si insegnava di ripetere quando il sacerdote alzava l’ostia dopo la consacrazione: «Mio Signore e mio Dio!». In appendice vorremmo aggiungere una curiosità legata alla tradizione artistica. Il tema dell’incredulità dell’apostolo Tommaso verrà riproposto anche nella raffigurazione dell’assunzione di Maria al cielo. Così, ad esempio, se si va a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia e si ammira l’Assunzione della Vergine di Palma il Vecchio (1513), si vede che Maria, già assunta in cielo, riappare a Tommaso, che non era stato presente e che aveva dubitato, e gli dona la sua cintura, facendola scendere dall’alto su di lui, riunito con gli altri apostoli.
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Madre Teresa di Calcutta. EDUCARCI ALLA FEDEMa la leggenda teologica dell’apparizione a Tommaso ci può anche educare alla “misericordia”, nel senso che ci evidenzia quanto Gesù abbia insieme capito e contrastato il bisogno dei segni, il bisogno di toccare. Gesù spesso si é trovato a dover educare l’interlocutore, tentato di fermarsi al dato materiale, evidente. Gesù, in questo brano di costruzione teologica, é colui che capisce la debolezza di Tommaso, la corregge e addita una strada diversa. Anche quando i discepoli si sono dimostrati sordi e ciechi al suo insegnamento, Gesù non si é stancato di loro. Li ha corretti, amati, aiutati a crescere.La comunità cristiana anche oggi, alle prese con mille difficoltà e mille deviazioni, può leggere questo brano anche per imparare quel dialogo interno, franco e coraggioso, che offre a ogni persona la possibilità e il tempo di crescere e di riorientare la propria vita. Anche quando tutte le porte sono chiuse (come ripete Giovanni ai versetti 19 e 27), anche quando le possibilità di cambiamento sembrano sbarrate e impossibili, la parola di Gesù può fare breccia nei nostri cuori. La partita non é mai chiusa e può riaprirsi ad ogni istante della nostra vita.La strada nella fede-fiducia in Dio si riapre… L’immagine di Gesù che, come dicevamo da bambini, passa attraverso il buco della serratura, è la testimonianza di quell’amore con cui Dio, attraverso Gesù e in mille modi, cerca i nostri cuori e vuole riaprire un dialogo con noi.Noi purtroppo ci troviamo spesso a vivere in una chiesa in cui ci sono troppe porte chiuse, con troppi “guardiani” che usano le chiavi quasi solo per chiudere. In questo contesto molti pastori della nostra chiesa farebbero bene a riascoltare l’ammonizione evangelica:” Guai a voi … perchè avete portato via la chiave della conoscenza: voi non ci siete entrati e l’avete impedito a quelli che avrebbero voluto entrare” (Luca 11,52 e Matteo 23, 13-14).Ma l’espressione fa esplodere la speranza: se anche un ministro della chiesa sbarra le porte ad un gay, ad una lesbica, ad un separato, ad una divorziata, ad un prete sposato… l’azione di Dio non si ferma e il messaggio di Gesù può penetrare anche ” a porte chiuse”.
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Card. Caffarra. Omelia su San TommasoVisita Pastorale Focomorto-Baura 30 aprile 2000 Di che cosa ci parla il Signore oggi? Ci insegna quale è la fede vera (1) [nella seconda lettura soprattutto] quale è il cammino dall’incredulità alla fede (2) [nel Vangelo], ed infine ci insegna che cosa produce la fede in chi crede e nel mondo (3) [nella prima e nella seconda lettura]. Vedete come il Signore ci ama: ancora all’inizio del tempo pasquale Egli ci dona un’istruzione completa sulla vita cristiana.
1. "Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio – Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?"
Ecco questa è la fede cristiana: credere che Gesù è il Cristo; credere che Gesù è il Figlio di Dio. Alla domanda dunque: "chi è il cristiano?", oggi la Parola di Dio ci insegna a rispondere: "è colui che crede che Gesù è il Cristo, è il Figlio di Dio". Fermiamoci un momento a riflettere su questa definizione.
Essere cristiani significa entrare in rapporto [fra poco spiegherò di che rapporto si tratta] con una persona: Gesù. Con una persona che ha vissuto come noi una vita umana impastata colle nostre stesse esperienze quotidiane: ha vissuto dentro una famiglia, ha lavorato, ha gioito e pianto, è morto. Essere cristiani non significa in primo luogo imparare una dottrina cercando poi di praticarla nella vita. Significa fare spazio dentro alla nostra esistenza ad una presenza: la presenza della persona di Gesù.
Ma di che rapporto di tratta? La parola di Dio ci risponde che è un rapporto di fede: "chi crede che Gesù è …". La fede, carissimi fratelli e sorelle, è riconoscere con incrollabile certezza che quell’uomo, Gesù, "è il Figlio di Dio". E’ questo il nucleo centrale della fede cristiana: quella persona che vive in tutto umanamente è Dio stesso-Figlio unigenito; quell’uomo della storia, Gesù, è veramente il Figlio di Dio venuto da presso il Padre. E’ per questo che Egli ha potuto dire: "Io sono la via, la verità e la vita": Egli, la sua persona, è la piena rivelazione in linguaggio umano del Mistero stesso di Dio. L’esperienza di Tommaso, nel Vangelo, è stata esattamente questa: ha toccato colle sue mani un corpo umano ed ha riconosciuto che quella persona incarnata era Dio.
2. Ed ora chiediamoci: "come giungiamo a questo riconoscimento?". La parola di Dio, attraverso l’episodio di Tommaso, ci insegna quale cammino dobbiamo percorrere per giungere alla fede in Cristo.
La storia di Tommaso inizia con un’assenza: "Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù". Egli cioè non ha avuto la possibilità, già concessa ai suoi amici, di "vedere" il Risorto. E’ esattamente la nostra situazione attuale: a noi oggi non è dato di "vedere" il Risorto. E qui si pone la possibilità concreta di unadivaricazione fondamentale: quella che separa i credenti dai non credenti.
A Tommaso è offerta una testimonianza precisa: "Gli dissero allora gli altri discepoli: abbiamo visto il Signore". Egli, Tommaso, è posto di fronte a due possibilità: o accettare la testimonianza apostolica o esigere una verifica diretta del fatto. Ed è ciò che Tommaso vuole: "se non vedo…"
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Ignace de la Potterie. “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”Due aspetti ci preme mettere in rilievo: anche in questa versione riveduta, le parole di Gesù vengono tradotte con un’imprecisione, rispetto all’originale greco. E tale imprecisione viene di fatto utilizzata per confermare con l’autorità del Vangelo un’impostazione che sembra prevalente nella Chiesa di oggi: l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. L’errore di traduzione a cui pensa di poter appoggiarsi tale interpretazione, che di fatto travisa il passo evangelico, consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù: “Beati coloro che credono, pur senza aver visto”. In questo modo le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro che vivono nei tempi successivi alla morte e risurrezione di Gesù. E infatti la nota [1] spiega che solo per i contemporanei di Gesù “visione e fede erano abbinate”, mentre per tutti coloro che vengono dopo, “la normalità della fede poggia sull’ascolto, non sul vedere”. Secondo questa interpretazione sembra quasi che Gesù si opponga al naturale desiderio di vedere, chiedendo a noi una fede fondata solo sull’ascolto della Parola. In realtà, qui il verbo non è al presente, come viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες), anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). “Tu hai creduto perché hai visto” - dice Gesù a Tommaso - “beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me]hanno creduto” rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’ passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente (“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre è esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un altro ricorrente errore di traduzione, ripetuto anche dalla nuova versione CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla “prova empirica” richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: “E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente”. Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: “E non essere incredulo, ma credente”. Ora, nel testo originale, il verbo “diventare” suggerisce l’idea di dinamismo, di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento, e sembra quasi sottintendere che la fede consiste in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. E’ un totale rovesciamento. Tommaso, anche lui, vede Gesù e allora, sulla base di questa esperienza, è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di “vedere” Gesù e accostarsi alle sue piaghe. Come vuole l’idealismo per cui è la fede a creare la realtà da credere. Le spiegazioni della nota, basate su queste traduzioni inesatte, e che per fortuna, come ha premesso monsignor Antonelli, non possiedono “alcun carattere di ufficialità”, sembrano comunque piegare le parole di Gesù alla nuova tendenza che vige oggi nella Chiesa, secondo cui una fede pura è quella che prescinde dal “vedere”, ossia dall’appoggio e dallo stimolo dei segni sensibili. E’ vero, come spiega la nota, che nel tempo attuale “la visione non può essere pretesa”. Niente nell’esperienza cristiana può mai essere oggetto di “pretesa”. Ma mettere in alternativa il vedere e l’ascoltare e sostenere che “la normalità della fede poggia sull’ascolto, e non sul vedere” ossia che basta ascoltare il “racconto” del cristianesimo per diventare cristiani, sembra essere in contraddizione con tutto ciò che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il “vedere” può essere una via d’accesso al “credere”. Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo: per rifare l’esperienza di coloro che dal “vedere” sono passati al “credere” (si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale). Il Vangelo di Marco si conclude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: “Allora essi partirono e annunciarono il vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all'orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione e che non sono un di meno, una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie: “In manibus nostris codices, in oculis facta”, dice Agostino: “nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti”. Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nell’Incarnazione del Verbo: “Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa – solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini - veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede”. Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 156, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «“Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione”. Così i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza”, sono “motivi di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede non è “affatto un cieco moto dello spirito”». In particolare, sono i santi che attualizzano per i loro contemporanei i racconti del Vangelo. Quando san Francesco parlava, per chi era lì presente era chiarissimo che i Vangeli non erano un racconto del passato, solo da leggere e ascoltare: in quel momento era evidente che in quell’uomo era presente e agiva Gesù stesso. Non per niente anche Giovanni Paolo II ha proposto in chiave positiva proprio la figura dell’apostolo Tommaso, quando, in un suo discorso ai giovani di Roma, il 24 marzo del ’94, li ha invitati a prendere sul serio, rispettare e accogliere questa sete di prove esteriori, visibili, così viva tra i loro coetanei: «Noi li conosciamo [questi giovani empirici], sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza della realtà. E questi sono pronti, se un giorno Gesù viene e si presenta loro, se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: Mio Signore e mio Dio!».
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IGNACE DE LA POTTERIE Gesù e TommasoSe la fede pasquale dei discepoli ha veramente raggiunto questo punto culminante nell'episodio precedente, la descrizione della genesi della fede sembra essere arrivata a termine. Ma in questo caso, cosa può ancora significare l'apparizione di Gesù in presenza di Tommaso? Il problema che pone quest'ulti-ma pericope è stato presentato in termini eccellenti dagli autori dell'articolo di « Biblica »: « Ci si potrebbe in un certo senso domandare cosa aggiunge di nuovo l'episodio di Tommaso. Maria ha visto il Cristo salito e glorificato. I discepoli hanno visto Cristo salito al cielo e glorificato. Qui è raggiunto il punto più alto: l'equilibrio è perfetto, l'unione del Cristo storico e del Verbo eterno è pienamente manifestata. Cosa aggiungere di più? ». Tuttavia, è certo che l'apparizione a Tommaso deve avere un senso teologico preciso, diverso da quello degli episodi precedenti, tanto più che, per i critici, la sua redazione è da attribuirsi prima di tutto all'evangelista stesso. Bultmann fa ricadere tutto il peso dell'episodio sul versetto di conclusione, la beatitudine di quelli che credono senza aver visto; essa sarebbe da interpretare « come una critica radicale dei "segni" e della apparizioni pasquali e come una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore ». Ma è arbitrario interpretare la scena a partire dal solo v. 29. Si impone un'analisi dettagliata di tutto il passo. Lo stesso Bultmann ha visto molto bene il carattere paradossale di questi versetti: la beatitudine finale (credere senza avere visto) è rivolta a Tommaso, uno dei primi discepoli, uno di quelli che hanno pur visto il Signore; sembra dunque, pensa Bultmann, che il rimprovero che gli è rivolto debba estendersi agli altri discepoli e a Maria Maddalena, poiché essi, certamente, hanno creduto dopo aver visto. Ma come ammettere una conclusione del genere, che riduce praticamente a niente l'importanza di tutto il capitolo? 1. Attiriamo dunque l'attenzione su alcuni elementi importanti della strut-tura letteraria di tutta la sezione. Da un lato, ricordiamolo, questo episodio (A') è parallelo a quello dei due discepoli nel giardino (A); dall'altro, è innegabile che l'apparizione a Tommaso è come una ripetizione dell'apparizione ai discepoli (B'). Questo doppio parallelismo deve essere esaminato attentamente. E denso di insegnamento. La pericope dei due discepoli al sepolcro e quella di Tommaso sono costruite in maniera simile; esse si compongono l'una e l'altra di due movimenti: a) (20, 1-10) I discepoli al sepolcro: « Egli vide e credette » (20,3-8). b) Rimprovero ai discepoli (20,9-10). a') Tommaso davanti a Gesù « ... tu vedi, tu credi » (20, 26-29a). b') Rimprovero a Tommaso (20, 29b). L'espressione « vedere e credere » appare nei due casi (a, a'). Ciò che viene rimproverato a Tommaso, non è di aver visto Gesù, poiché Gesù stesso ha voluto manifestarsi a lui. Il rimprovero cade sul fatto che Tommaso ha rifiutato, all'inizio, di credere, quando ha sentito l'annuncio dei discepoli. Ma bisogna anche tener conto delle somiglianze evidenti fra la nostra pericope e precedente, ovvero fra l'apparizione a Tommaso e quella ai disce-poli: nei due casi, si tratta di una visione sensibile, (20, 20; , 20, 25) che si dischiude in una visione di fede ( 20, 25; 20, 29). Il rimprovero di Gesù, qui ancora, non è legato dunque al fatto che lui, «uno dei Dodici » (20, 24) fa la stessa esperienza degli altri; al contrario questa esperienza l'ha portato a fare la più bella confessione di fede di tutto il quarto vangelo: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28). Gesù lascia invece intendere che egli avrebbe già dovuto « credere senza vederlo » : la testimonianza di tutti gli altri del gruppo dei Dodici avrebbe dovuto bastargli. 2. Si coglie ora ciò che ha di specifico e polivalente il caso di Tommaso. Appartiene contemporaneamente, se così si può dire, a due gruppi: è uno dei Dodici, è stato gratificato come gli altri dalla visione del Signore (cfr. ciò che Paolo dirà più tardi, per rivendicare il suo titolo di Apostolo: « Io ho visto Gesù, nostro Signore », 1 Cor 9, 1); ma poiché era assente alla prima apparizione di Gesù ai discepoli, egli è per così dire il primo di tutti quelli che, in seguito, dovranno credere senza vedere. Questo doppio orientamento dell'episodio, all'indietro e in avanti, rende la sua analisi particolarmente delicata. Tenendo nel dovuto conto questi due aspetti, si può descrivere come segue il senso teologico dell'apparizione a Tommaso: essa ci fa comprendere innanzi tutto (è l'orientamento in avanti) l'importanza che prenderà d'ora in poi il «credere senza avere visto » (20, 29); è ciò che avrebbe già dovuto fare Tommaso, sulla base della testimonianza degli altri discepoli. Ma questa testimonianza dei disce-poli era essa stessa basata sulla vista sensibile e sulla visione di fede che avevano avuto del Cristo risuscitato (ecco l'orientamento del nostro episodio all'indietro); e Tommaso, anche lui, può rifare per suo conto la stessa esperienza dell'incontro con Gesù. La lezione teologica che scaturisce da questa scena è dunque doppia: ormai i credenti nella Chiesa dovranno credere senza aver visto; di ciò, Tommaso avrebbe già dovuto dare l'esempio; d'altra parte, resta il fatto che questa fede cristiana si collega sempre all'esperienza fondante dei primi testimoni, che ave-vano avuto la visione di fede del Cristo glorioso; la loro testimonianza avrebbe dovuto bastare a Tommaso; viene tuttavia concesso a Tommaso di rifare la stessa esperienza, poiché era « uno dei Dodici » (20, 24). 3. Cerchiamo di mettere ancora meglio in luce questi due aspetti dell'episodio. a) Il parallelismo fra l'apparizione a Tommaso e l'apparizione ai discepoli mostra molto chiaramente in che senso è importante «vedere » Gesù. I discepoli avevano raccontato a Tommaso: « Abbiamo visto il Signore » (20, 25). Era, ricordiamo, una visione di fede, il frutto del dono dello Spirito. Il rifiuto di Tommaso è tuttavia categorico. Vuole verificare di persona: « Vuole sperimenta-re; vuole vedere; vuole toccare Gesù nella sua realtà fisica (...) . In altri termini, egli pone e definisce le condizioni della fede (...) . La risurrezione del Cristo non è conosciuto in tal modo da nessuno dei testimoni del vangelo ». Nondimeno, Gesù si manifesta di nuovo, questa volta in presenza di Tommaso: accede al suo desiderio e si lascia toccare. Ma l'invita formalmente a superare lo stadio equivoco e pericoloso in cui si è posto: « Smetti di essere incredulo e diventa un uomo di fede ». Nessun altro testo di questo capitolo esprime così chiaramente l'esigenza fondamentale della progressione nella fede. Il tema sarà ripreso nella conclusione generale del vangelo (20, 31). Per Tommaso, questa parola è un invito a un cambiamento radicale: il passaggio dalla vista (unicamente) sensibile di Gesù e delle piaghe della Passione alla visione di fede del Signore glorificato; è questa che ispirerà la sua confessione di fede: « Mio Signore e mio Dio » (20, 28). b) Un'altra dimensione dell'episodio ci porta ancora indietro (la testimonianza ricevuta), certo, ma ci orienta soprattutto verso l'avvenire: è l'importanza di « credere senza vedere ». Qui scatta il parallelismo di 20, 24-25 con 20, 1-2. I due discepoli avevano ricevuto da Maria Maddalena la notizia della rimozione della pietra del sepolcro, e corsero subito là; anche senza vedere Gesù, il discepo-lo prediletto « cominciò a credere » (20, 8). Tommaso, anche lui, ricevette una testimonianza formale da parte dei discepoli; essi avevano « visto il Signore » (20, 25). Senza vedere lui stesso Gesù, Tommaso avrebbe già dovuto credere. Nei due casi, il testo sottolinea l'importanza della trasmissione del messaggio, e dunque dell'attestazione dei primi testimoni (è il punto di partenza della Tradi-zione). E in questo senso che si deve comprendere la beatitudine finale, che proclama beati coloro che credono nel Signore senza averlo visto coi loro occhi. Quest'ultima frase del vangelo prepara la conclusione generale (20, 30-31) e apre una larga prospettiva sulla vita della Chiesa. Ma questa necessità di credere senza vedere non significa che le apparizioni pasquali e la visione di fede dei primi testimoni non abbiano più alcun peso per i credenti che seguiranno. Esse avevano avuto un'importanza decisiva per i discepoli: quelli che ormai crederanno nel Signore senza averlo conosciuto, dice molto bene il P. Mollat, lo faranno « sull'attestazione di coloro che l'hanno visto. C'è alla fine del vangelo, un appello tacito dell'evangelista al lettore. Lo invita a rimettersi (...) alla testimonianza contenuta nello scritto ». È ciò che sarà detto esplicitamente nella conclusione generale del vangelo. E si comprende ancora meglio ora perché Giovanni, nel prologo del vangelo (1, 14) e in quello della prima lettera (1 Gv 1, 1a), insista sul fatto che i discepoli e testimoni hanno visto e contemplato il Verbo incarnato: questa vista del Signore, questa esperienza fondante dei testimoni, è il punto di partenza (1 Gv 1, 1) per la fede di tutti i credenti nella Tradizione cristiana. |