Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l'angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo.
T. S. Eliot, La Terra desolata
Dalla Passione di Gesù
"Giuseppe d’Arimatea... chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse... Vi andò anche Nicodemo... e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i giudei" (Gv 19,38-40). "Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova che si era fatta scavare nella roccia: rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro se ne andò... Il giorno dopo, che era Parasceve (venerdì, giorno in cui si facevano i preparativi per il sabato), si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei dicendo: "Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse, mentre era vivo: dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima! Pilato disse loro: Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete. Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia" (Mt 27,59-66).
COMMENTO
Immaginiamo per un momento che cosa sia accaduto quel giorno. Un tumulto si impossessa di quel mattino di festa, un processo come quelli che vanno di moda di questi tempi come in tutti gli altri, sit-in e vip, giornalisti e pettegolezzi; e quel Galileo che parla bene da commuovere, che fa miracoli da far pensare al Messia, ed ora come un impostore e un provocatore è trascinato fuori della città, lì dove si giustiziano i delinquenti. Una morte atroce e poi un rantolo della terra nel rantolo delle carni, segni sconvolgenti, e poi più nulla, il silenzio, e un corpo deposto in una tomba. E riposo, il riposo dopo la fatica di una strana creazione realizzata attraverso distruzione e morte.
Un corpo nella tomba, epilogo muto di tanta fatica. Fatica di chi ha donato tutto, fatica di chi tutto ha rifiutato. Fatica di chi ha amato, fatica di chi ha odiato. Ma ora è silenzio, e riposo. E' qui che oggi desideriamo fermarci, nell'ultimo capitolo della Passione di Gesù, che sembra un'appendice dopo tanto strazio, un'istantanea come quelle sulle mappe di Google che il mouse sfiora e ti appaiono quelle case e quelle strade, ed è quasi come se ci fossi stato; un soffio, un'immagine, e sai che com'è fatto quell'angolo di mondo lì, il tuo amico abita sopra quel negozio di scarpe, e tanto basta a situarlo, a immaginare i suoi luoghi quando ci parli, anche se vive dall'altra parte del mondo. E forse, per molti di noi, la cronaca della deposizione nella tomba ci sembra proprio qualcosa di molto lontano; ci siamo genuflessi all'estremo sospiro di Gesù, abbiamo seguito la traiettoria della lancia vergare il suo fianco, abbiamo desiderato quell'acqua e quel sangue, abbiamo pianto con Maria abbracciando il suo corpo esanime. La pietà di Maria, con Michelangelo e tanta arte, ci ha preso il cuore, ed è stata l'ultima emozione. Ci siamo alzati con gli occhi umidi e impauriti e siamo tornati a casa, insieme a tutti gli altri, battendoci il petto, mentre, come nei film che raccontano storie vere, scorrevano, sovrapposte alle ultime immagini, le notizie circa gli ulteriori sviluppi della vita dei protagonisti, quelle non registrate nelle immagini della pellicola.
Il ritmo incalzante degli eventi, le voci e le parole schiumanti gelosia, invidia, rancore, come le parole vigliacche di chi tradisce; il silenzio di Lui e le risa, l'ironia beffarda, il pianto, le grida, le spinte, il flagello, le spine, le cadute, il Legno e i chiodi; l'aceto, la lancia, l'acqua ed il sangue. Il terremoto e infine il buio sordo e gelido come un manto ad avvolgere tutto, come un sipario chiuso su un avventura che, almeno in apparenza, sembrava volgere verso un epilogo ben diverso.
E ora tutto tace. Gesù è disteso sul marmo gelido del sepolcro, riposa nell'oscurità, non vede nessuno, nessuno lo vede; una pietra lo separa dalla vita, da questa vita nostra, dai sogni e dalle speranze, dai nostri pensieri, dalle nostre famiglie, dal nostro lavoro, anche dai nostri mal di denti. Sino a qualche istante prima si era appassionato per le vicende della nostra storia, e tutti noi, come seguendo il filo di un racconto incalzante, ci eravamo appassionati a Lui, afferrati da quell'amore così sconvolgente; sino ad un istante fa ci eravamo sentiti amati, avevamo provato dolore per Lui e per i nostri peccati, la sua lancia aveva dilaniato anche le nostre coscienze; abbiamo pianto, commossi da tanto dolore e tanto male. E ci eravamo visti, protagonisti negativi, nel fluire esagitato di quegli eventi malvagi, come nella nostra storia di tutti i giorni, disseminata degli stessi frammenti raccolti nelle ore di Passione di Gesù. Abbiamo accettato la nostra dura realtà di peccato, ci è sorto dentro il desiderio d'esser perdonati, una fitta nel petto, la compunzione madre della conversione.
Però ora abbiamo fretta che sia domenica, che sia resurrezione. Gli eroi vincono sempre, anche quando perdono. E vogliamo che sia vittoria, vittoria subito. E scivoliamo, veloci e distratti, sul sabato santo. In fondo sappiamo che dietro l'angolo di quella passione c'è il lieto fine. E' un film che abbiamo visto migliaia di volte, ed ogni volta, come e più di "Via col vento", ci ha rapito, scuotendoci il cuore e rigandoci il volto di lacrime e commozione; ma l'aver visto l'epilogo, ci priva di qualcosa, ci protegge dallo scendere davvero in fondo al baratro del non essere. Sembra paradossale, ma sapere che tanto poi Lui risorgerà ci immunizza dal sabato santo. Conoscere il risultato finale della partita, anche se in bilico sino all'ultimo secondo, ci anestetizza inconsapevolmente, e fa della tomba una sala d'aspetto d'aeroporto, tappa anonima e obbligata di ogni viaggio: sappiamo che cosa abbiamo lasciato, conosciamo la meta, quella sala è nient'altro che un istante da sfogliare riviste o da approfittare per dormire un pochino. Possiamo sopportare il dolore, perchè dietro sappiamo esserci la vittoria della vita. Ed è vero, ed è il fondamento di ogni speranza, ed è la fede che vede l'invisibile e fa vivere il visibile.
Ma, tra il dolore crocifisso e la gioia risorta, c'è il nulla del sabato santo. E' vero che le chiese in questo giorno sono disadorne; è vero che è l'unico giorno dell'anno in cui non si celebrano messe. E' vero che il tabernacolo è desolatamente vuoto. E se Lui non c'è neanche la chiesa ha senso - dove pregare, a chi pregare se tutto è spoglio e vuoto? - e infatti, al passare rapido delle ore mattutine, preti, sacrestani e fedeli sono di nuovo indaffarati a farla bella e splendente per accogliere il colpo di scena che ci ridia presto quello che abbiamo perso, che ci rassicuri e ci tolga da questo impaccio da sabato santo. Il nulla ci disturba, è ciò che più ci inquieta; il silenzio vero, l'oscura notte che soffoca lo sguardo ci dilania. Proviamo un istante a chiudere gli occhi, e sprofondare nel silenzio di parole e sentimenti. E' la morte! Tutto il resto della Passione di Gesù ci è familiare, lo catturiamo con i sensi, possiamo gestirlo tra pensieri, sentimenti, risposte; anche il male, in fondo, si muove e ci muove, la Via Crucis è pur sempre un cammino e ci sembra d'essere vivi nonostante tutto, ma alla XIV stazione siamo stanchi di tanto dolore, e, mentre vi giungiamo, abbiamo già in mano le chiavi della macchina per tornare a casa.
Quel corpo esanime, il freddo emaciato di quel volto, e quel buio senz'aria, è la claustrofobia del cuore e dell'anima, ed è insopportabile. Ma è proprio qui che giunge l'amore sino alla fine di Cristo. E' questo l'epilogo! Eluderlo, sgusciarvi frettolosamente per riemergere quanto prima alla luce di Pasqua sarebbe tradire Cristo, e tradire irrimediabilmente noi stessi. "Il chirurgo ferito maneggia l’acciaio, Che indaga la parte malata; Sotto le mani insanguinate sentiamo L’arte pungente e pietosa di chi guarisce, E scioglie l’enigma del diagramma della febbre. La nostra unica salute è la malattia…." (T.S. Eliot, East Coker). Questo giorno fatto di sepolcro, questi tre giorni secondo il cuore della fede, sono essenziali, malattia del nostro essere che è l'unica nostra salute; decisivi quanto asfissianti, e non vi resistiamo, l'apnea della tomba ci spacca i polmoni, cerchiamo la luce e l'aria per vedere e respirare: la morte non ci può appartenere, sembra fatta solo per essere sfuggita. Ma la morte esiste. Esiste oggi, perchè è il capolinea di ogni cosa, relazione, giornata. Non può essere diversamente, rigettarla significherebbe fare di Cristo e ella sua vicenda una caricatura, peggio, un'impostura. Nulla è stato creato per la morte, nelle creature non c'è veleno di morte ci insegna la Sapienza della Scrittura; ma a causa del nemico, il menzognero che accusa e divide, a causa di satana la morte ha preso il suo posto nel mondo, e ne fanno l'acida esperienza coloro che gli appartengono. E non appartengono a lui tante, tantissime cose di noi? Non portiamo le sue tossine sin dal seno materno? Non le porta il mondo a lui sottomesso, e la natura che geme in attesa di liberazione, e tutti noi soggiogati dalla paura di scomparire per sempre dietro una pietra sigillata?
Così, senza ipocrisie ed illusioni a buon mercato, la morte è quel che viviamo, semplicemente. Anche se questi tempi vuoti e ciechi cercano di raggirarla, di far testamento perchè la biologia dei nostri corpi vi si sottragga quando sembra arrivare; anche se ci impallinano con sofismi e menzogne per indurci a scegliere come, dove e quando morire dolcemente, sprofondandoci in un'eutanasia dell'anima prima che dei corpi; anche se tentiamo goffamente di esorcizzarla, essa è lì, in agguato, libera di bussare, senza scampo, quando vuole. Viviamo la morte, l'orologio biologico ce lo rammenta ad ogni giro di lancetta, lo struggimento per i ricordi, l'infrangersi dei progetti, il muro offertoci da chi amiamo; la malattia che scoppia fragorosa mentre ti fai la doccia, un nodulo e si accartoccia il cuore; l'incomprensione irrisolvibile di chi ha tutte le carte per capirti; il volto della donna o dell'uomo che ami e ti sembrava di specchiarti in un altro te stesso, e invece ora ti imbatti in quelle espressioni nuove, impreviste, in quegli sguardi che per orientartici non trovi da nessuna parte la mappa di sentimenti che non conoscevi; e lei, e lui, atomi distanti, ci si intendeva con un sorriso e non ti bastano ora milioni di parole; il figlio che spicca il volo e non si accorge di non avere le ali, le sue ferite che ti feriscono fin dove neanche le lacrime bastano; le notti insonni ad aspettarlo, un radar nel cuore a tener desta la speranza di incontrarlo, nelle ore perdute tra balli e pasticche, inseguendo sogni giovani che sembrano querce e invece sono un mazzo di "tag" su uno schermo, sicurezze di sabbia e amicizie di fumo, la vita virtuale nella quale si è infilato salutandoti; tua figlia che ha spalancato il suo cuore ad un'illusione che le ha rapito dolcezza e speranze, e te la ritrovi lì, con un figlio senza padre e un futuro riavvolto ancor prima d'esser vissuto; le parole sconnesse di tuo padre al crepuscolo della vita, e più nessun contatto, il suo mondo è chiuso e non vi puoi entrare; vorresti dirgli che ci sei, spiegargli il tuo amore, donargli la gratitudine, ma la sua, per te come per chiunque altro, è ormai solo la gentilezza educata riservata ad un estraneo; il corpo di tua madre, un bicchiere di cristallo che se lo sfiori si spezza, come ti si spezza il cuore nel vederla e non puoi far nulla se non accarezzarle delicatamente la mano mentre scivola via dalla vita; questi anni che ti porti in tasca e ti ritrovi senza nulla tra le mani, neanche una medaglia al valor civile, nessuna traccia del tuo passare tra i viventi; l'insignificanza che sbianchetta l'identità, disperatamente cercata; la solitudine lancinante nel bel mezzo di un mondo che sembra festeggiare tutto mentre in te neanche l'ombra d'una ragione per abbozzare un sorriso; e sguardi intorno, e altre vite che ti sfiorano, un'emozione che ti unisce, ed è un battito di ciglia, sfila via la vita di chi più ami, richiusa nei suoi affari, nei suoi problemi, nelle sue angosce, nei suoi dolori. Si muore soli, esattamente come si nasce, quando ti tagliano quel cordone e devi vedertela da te. Non vi sono biberon per dissetare l'anima, non esistono flebo per nutrire lo spirito: la porta della vita è identica a quella della morte, stretta, un abito su misura, e chissà quando il sarto ha preso le tue misure, quelle di oggi, e di ieri e di domani, e nessun altro che te può varcare quella soglia. "Nel mio principio è la mia fine. Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino. Ma per tutto il cammino, in una selva oscura tra i rovi. Sull’orlo d’un pantano, dove il piede non è sicuro, Non voglio sentir parlare. Della saggezza dei vecchi, bensì della loro follìa, La loro paura della paura e della frenesia, la loro paura del possesso, Di appartenere ad un altro, o ad altri, o a Dio. La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere, la saggezza dell’umiltà. L’umiltà è sconfinata" (T. S. Eliot, East Coker). La porta stretta, la porta sconfinata dell'umiltà, la terra umile che ci misura fragili e mortali, e per questo, proprio per questo, ci fa appartenere a Lui, e scoprire che ha le stesse nostre misure, e son quelle del suo sepolcro.
La solitudine del sepolcro in un tempo che qualcuno ha sciolto e non sappiamo quando finirà. Nel Mistero Pasquale non vi è fretta. La morte scende realmente a prendere possesso di Gesù, non si è trattato di una visita lampo, di un raid aereo, di un'incursione e via. No, Gesù è stato tre lunghi giorni in quell'anfratto di solitudine. Tre giorni, spazio ricorrente nella Scrittura, anello misterioso che lega il tempo della sofferenza alla manifestazione prodigiosa di Dio, preludio necessario al suo intervento salvifico. Tre giorni in compagnia della morte. I tre giorni più importanti. Aveva parlato come nessuno. Aveva seminato miracoli sui suoi passi, e molti lo avevano seguito. Perseguitato come tutti i profeti è stato tradito, catturato, torturato, ucciso. Se fosse finita lì sul Golgota, qualcuno forse ne avrebbe tramandato le gesta, le parole, come di un eroe ingiustamente tolto di mezzo. Un esempio, sublime, unico, ma nulla di più. Quei miracoli, quelle parole, quelle torture, quella Croce, senza il sepolcro dal quale destarsi vittorioso, non ci avrebbero salvato. Sarebbe stato un amore sino al limite, non un amore sino alla fine. Invece Gesù, da sempre, dalla sua nascita, che l'iconografia orientale dipinge raccolta in una tomba nera, è stato come risucchiato da quella fenditura nella Roccia, dal sepolcro di Giuseppe. Lì doveva scendere, lì era la fine del suo amore sino alla fine. La tomba era il compimento, l'abisso della morte che lo accoglieva nell'esalare quell'ultimo respiro che infondeva compimento al tutto. Sì, infondeva un alito di vita laddove tutto era preparato per accogliere la morte; un alito debole, impercettibile, e dentro tutta la vita di Dio, come una benedizione che scendeva, si adagiava umile, invisibile, in quella tomba. Quel sospiro - Tutto è compiuto! - apriva il cammino a quel corpo senza vita, pervadeva quella tomba preparandola ad accogliere quella morte unica e santa, quel Morto unico e santo. Era il mistero di un seme che doveva cadere in terra, e morirvi. E che mistero è mai questo, un seme muore, scompare, e si stendono radici, e spunta lo stelo, verde di vita, e si fa fusto tosto, e corteccia dura, e rami intensi, e frutti a grappoli; che mistero è mai questo, donde la vita se il seme è morto? Un soffio che neanche un microscopio del 4010 potrà riscontrare, un refolo divino riservato al solo suo sguardo, interdetto all'occhio furbo dell'uomo; un mistero di vita che esplode nella morte, nessuna scienza potrà mai spingere quel bottone ad innescarlo. E' sceso lì, in quel sepolcro, il gamete di Dio, come nel seno di una donna, ed ogni tomba, da quell'istante, s'è fatta Sposa dell'Altissimo. Nozze che nessun fidanzato potrebbe immaginare, nozze folli di un Dio folle d'amore. Una tomba ed il suo Sposo, e quell'alito di vita come una benedizione, la Shekinà come un baldacchino regale a far santa quella morte, e santi quei giorni oscuri e freddi, e santa la sposa, e santa ogni morte adagiata in ogni tomba.
Il Figlio di Dio, uguale a Dio, Dio in Persona, doveva scendere in quel sepolcro per essere fecondo; doveva perchè la fine di tutte le cose, il vuoto e l'assenza, l'angoscia e il dolore, il fallimento e la solitudine, la morte nostra di oggi e di sempre e di ogni uomo, diventasse il grembo fecondo della vita. Doveva fare sua Sposa la morte, e il suo abito di marmo, e pietra e lutto e lacrime; doveva donarsi senza riserve a colei che tutti ci imprigiona; doveva passare da lei, la morte, per giungere a noi, suoi schiavi. Sposava la morte, e si univa indissolubilmente a noi, a questi che siamo oggi, alla verità della nostra storia, alla debolezza che ci rende come biscotti inzuppati nel latte, alla morte livida che descrive questo nostro presente. Doveva immergersi nel nostro vero perchè ci accorgessimo di Lui accorgendoci della morte che portiamo dentro; doveva sposarci in quel sepolcro perchè noi si smettesse di sfuggirgli, di sepolcro in sepolcro, per non guardare in faccia alla verità: "Perché il problema non è che l’uomo sia impeccabile, ma che sia vero; che incominci a porsi, a collocarsi nel suo punto di realtà e di verità. Allora è come se l’ultimo dei giorni, è come se l’estremo delle cose, è come se il mistero di Dio cominciasse a ricomporsi in un sorriso verso di lui, in un atteggiamento rigenerante e accogliente verso di lui; e come se incominciasse a farlo vincere" (don Luigi Giussani). Se non vinceva nel sepolcro, avrebbero vinto tutti i nostri sepolcri; avrebbe vinto il peccato, nel quale siamo generati, le cui ferite risucchiano la nostra debolezza sino a condurci, spesso nostro malgrado, nell'oscurità delle sue devastanti conseguenze. Avrebbe vinto il serpente antico, il seduttore di tutta la terra, e per tutti, alla morte che tutti gustiamo, volenti o nolenti, avrebbe fatto seguito, inesorabile, la morte seconda, quella eterna dalla quale non se ne esce più. Basta chiedere al ricco epulone, lui sì che se ne intende...
Il sepolcro di Gesù era in un giardino. La morte che ha spezzato il sogno paradisiaco della felicità, quella vera che si coniuga sempre e solo con amore, era lì, nel mezzo del giardino, divenuto pietre e sterpaglia secca, nessun frutto, nessuna gioia. Il sepolcro che oggi contempliamo, riflesso della nostra vita, donata per essere giardino e vissuta come un deserto. E Gesù, morto, immobile, inutile. Gesù senza vita, senza potere, preda della solitudine e del ghigno beffardo del nemico autentico. Sembra ghermirlo, come sembra aver afferrato la nostra esistenza non lasciandoci scampo, e son tre giorni, e sono mesi, anni, e non cambia nulla, forse tutto peggiora. Ma è proprio lì, nel segreto della tomba, come il chicco caduto in terra di cui nessuno si accorge, che è deposta la vita. La sterilità diviene fecondità, l'impotenza è trasformata in potere senza barriere, la morte si volge in seno benedetto di vita. Il sepolcro lo scrigno della letizia che non ha fine. Quei tre giorni, lunghi, amari, oscuri e dolorosi, quei tre giorni nei quali la vita è sottratta e sembra non esservi più speranza, quei tre giorni, la parabola della nostra vita, sono i giorni fecondi, i più fecondi, gli unici fecondi. Nessuno sapeva quello che stava accadendo dietro quella pietra, nessuno, forse neanche noi stessi, sa quale mistero inaudito si stia compiendo in noi. Ora, esattamente in questa situazione concreta, che forse durerà ancora molto, tre giorni, il tempo necessario e perfetto, forse sino all'ultimo nostro respiro. Nessuno poteva immaginare che in quel sepolcro nella sperduta terra di Giudea, in un giorno come tutti gli altri, per il contadino egiziano, per la prostituta romana, per il navigatore fenicio di molti secoli prima, per il derelitto che vaga nella metropoli del terzo millennio, per ciascuno di noi, in quel sepolcro si giocava la salvezza, la felicità eterna. L'evento decisivo della storia nel chiuso di un sepolcro, lontano anni luce dai riflettori dei media, dalla gloria mondana, come lontano dalla frenesia quotidiana in cui scorre la vita di tutti. L'unica rivoluzione riuscita è compiuta nel fallimento meschino del rivoluzionario, antitesi di ogni rivoluzione di rivoluzionari di successo, tra fiumi di sangue e ritorni fallimentari a regimi peggiori. Il granello di senapa, chi lo vede? ma in lui c'è già un albero immenso, albergo e rifugio per ogni precarietà. Ed è andata esattamente così, e mentre il mondo prima, durante e dopo quei tre giorni di sepolcro, ha continuato a fare le stesse identiche cose, in quella gola di morte, Lui vinceva proprio la morte, ed ogni peccato, e riscattava ogni schiavo, e accoglieva nella misericordia ogni disperato. Mentre gli occhi vedevano un sepolcro e una pietra a sigillarlo, Lui ci ridava la vita.
E' questo il cuore di questi giorni, è qui che è seminata la Pasqua. Nel suo sepolcro, che è il nostro. La Pasqua non è solo la vittoria dell'eroe, il lieto fine di un romanzo, il colpo di scena finale di un thriller. La Pasqua ha le radici nel sepolcro, grembo materno di ogni gioia autentica. La vita che oggi ci è data, quest'apnea priva d'aria e pace e felicità, questi tre giorni che sembrano non passare mai, sono già la Pasqua, indispensabile passaggio alla pienezza della vita. “Ho detto alla mia anima: taci e lascia che scenda su di te, il buio, Che sarà l’oscurità di Dio. Come in un teatro, si spengono le luci, per poter cambiare la scena” (T. S. Eliot, East Coker) Santa solitudine, benedetta angoscia, beata sofferenza di quel tempo fecondo che prepara la scena mai vista della vita eterna. E' dove siamo ora, nel sepolcro che ci trattiene, che possiamo gustare, molto al di là dei sensi e dei sentimenti, nel nulla assoluto di gioie e consolazioni, l'autentica vita, la fecondità adulta del chicco frantumato per amore. Assorbiti oggi nel fallimento di Gesù, uniti alla sua morte, soli con Lui e invisibili per il mondo, si compie in noi pienamente la vita che ci è donata. Non manca nulla alla nostra Pasqua, a quest'oggi che è già Pasqua anche se è Sabato Santo, anche se stiamo in riva al mare o pigiati in un vagone di metropolitana, distesi su di un letto di ospedale o raccontandoci le ore in un pub, cambiando pannolini o in ginocchio nella penombra di una chiesa, ovunque e in ogni istante è Pasqua, nella fine è il nostro inizio: "L’amore si avvicina più a se stesso, Quando il luogo e l’ora non importano più. Noi dobbiamo muovere senza fine, Verso un’altra intensità, Per un’unione più completa, comunione più profonda, Attraverso il buio, il freddo e la vuota desolazione. Il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua, Delle procellarie e del delfino. Nella mia fine è il mio Principio" (T. S. Eliot,East Coker).
Occorre solo restare, pazienti, nel sepolcro. Abbandonati all'abbandono di Dio, il paradosso che ci ha redenti. Con Cristo consegnare tutto, senza riserve, lasciare che Lui si prenda tutto, ma proprio tutto, che ci faccia morire su di una Croce, che ci deponga in un sepolcro, che ci chiuda nel buio del suo abbandono, della sua assenza, alla solitudine totale. Come ha fatto con suo Figlio, per mano di empi certo, ma era pur sempre Lui, suo Padre, a consegnarlo per ciascuno di noi. E lì, in quel nulla che ti crolla addosso come una pietra, dentro al vuoto, scoprire che proprio quel nulla e quel vuoto, dipingono il volto sconosciuto di Dio, quello sguardo che nessuno ha mai potuto vedere; in quel sepolcro la risposta sconvolgente alla domanda di Filippo, quella che davvero ci basterebbe per trovar pace in qualunque situazione: "mostraci il Padre e ci basta". Il Padre scolpito sul volto di quel suo Figlio crocifisso, piagato, morto; è Gesù, il capo reclinato sulla Croce ed ora, come sul Legno, come tra le braccia della Madre, inclinato nel riposo di quel giaciglio gelido, lo sguardo esausto, lo sguardo esanime colmo di ogni dolore, di ogni fatica, di ogni morte, lo sguardo vuoto di un cadavere è ora rivolto verso il seno del Padre, e quelle palpebre stese sugli occhi più belli del più bello tra i figli di Adamo, quel velo sottile che spegne espressioni e incanto nasconde l'opera bella, l'opera unica; l'opera compiuta sino alla fine è tutta in quello sguardo che nemmeno è più sguardo, senza apparenza né bellezza, sguardo dell'uomo dei dolori che ha conosciuto sino in fondo il patire, sguardo disprezzato e schiacciato dall'iniquità, sguardo a cui è stata tolta ogni dignità, a cui è stata strappata la vita; quello sguardo di Gesù, sguardo morto, rivolto al Padre nell'ultimo, decisivo abbandono, quello sguardo che consegna ciascuno di noi al perdono del Padre, quello sguardo ci mostra il Padre; il Padre invisibile, parola muta in quel corpo avvolto in un sudario, nel silenzio assoluto della morte; è lì il Padre, è lì piangente nell'assenza dovuta per per perdonare l'ultimo e più lontano peccatore; il Padre, che è padre proprio in quell'abbandono straziante che si lascia prendere dalle mani ogni sostanza liberando alla libertà ogni suo figlio, sino alla fine, a dilapidare la vita, a scendere nella tomba dove neanche le bacche dei porci sono cibo, nel sepolcro dove rientrare in se stessi e, per la fitta lancinante proprio di quell'assenza di Padre e casa, riscoprirsi figlio nell'indegnità con cui la morte inferta dal peccato ha sfregiato la bellezza. Il Padre assente e perciò più presente che mai, lontano, eppure presente sin dentro le viscere della morte. Il Padre che abbandonando si abbandona alla libertà di ciascuno, per riscattarne gli esiti mortali, per fare dell'abbandono dei figli l'accoglienza misericordiosa del Padre. Un abbandono che è viscere commosse, rahamin, seno fremente di madre, compassione purissima, amore vergine e perciò gratuito; amore unico che si rivela nello struggimento di chi abbandona suo Figlio perchè ogni figlio disperso possa tornare a casa; amore di Padre, autentico perchè partecipe e appassionato sino alla fine delle sorti dei suoi figli; amore vero che scende, nella carne di suo Figlio, al fondo della dissipazione e del peccato, nel chiuso di un sepolcro, e lì, ogni suo figlio, con la libertà piena e insanguinata tra le mani e nel cuore, possa ridestarsi alla nostalgia di quanto ha perduto e, confuso con la morte, possa incontrare il volto del Padre impresso nel volto del Figlio, sceso nello stesso sepolcro, morto della stessa morte. Un abbandono che è l'amore più grande, che fa di ogni lontananza la prossimità più intima, che trasfigura ogni perversa volontà che rende bastardi in obbedienza umile e fiduciosa di figli.
Amore dunque, e un luogo dove ritrovare nostro Padre, dove essere felici davvero. Un sepolcro, la cavità nella rupe dove possiamo, dove dobbiamo nasconderci, il luogo vicino al Padre, vicino perchè luogo dell'obbedienza del Figlio; il luogo dove ci pone il Padre, dove la sua mano, come la pietra che ci atterrisce, ci copre e protegge mentre passa il suo zelo geloso, la sua Gloria che fa giustizia del peccato e della morte; il sepolcro, dove la sua tenerezza fatta paradossalmente assenza, ci custodisce come il suo tesoro più prezioso, nell'attesa feconda del terzo giorno, l'alba luminosa della sua Gloria, il perdono che ci fa sua eredità. Tre giorni, inutili, sprecati, anonimi, calpestati, tre giorni di morte, e per questo fecondi, realizzati, compiuti, perfetti, felici di un embrione di quella felicità che nessuna carne potrà mai dare.
Sieda costui solitario e resti in silenzio,
poiché egli glielo ha imposto;
cacci nella polvere la bocca,
forse c'è ancora speranza;
porga a chi lo percuote la sua guancia,
si sazi di umiliazioni.
Poiché il Signore non rigetta mai...
Ma, se affligge, avrà anche pietà
secondo la sua grande misericordia.
(Lam. 3,28-32)