Di seguito il Vangelo di oggi, 25 aprile, festa di san Marco Evangelista, con un commento e un testo breve di John Henry Newman.
La presentazione del messaggio evangelico
non è per la Chiesa un contributo facoltativo:
è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù,
affinché gli uomini possano credere ed essere salvati.
Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile.
Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti.
È in causa la salvezza degli uomini.
Esso rappresenta la bellezza della rivelazione.
Comporta una saggezza che non è di questo mondo.
È capace di suscitare, per se stesso, la fede,
una fede che poggia sulla potenza di Dio.
Esso è la Verità.
Merita che l'Apostolo vi consacri tutto il suo tempo,
tutte le sue energie, e vi sacrifichi, se necessario, la propria vita.
Paolo VI, Evangelii nuntiandi
Dal Vangelo secondo Marco 16,15-20
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
Il Commento
Per credere occorre essere accompagnati dai segni elencati dalle parole stesse del Signore: quelli che credono infatti, scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Gesù non specifica chi siano "quelli che credono"; questi possono essere nello stesso tempo gli apostoli che annunceranno il Vangelo e chiunque ad esso crederà. Si tratta di un affare serio, dell'opera del Signore che si compie attraverso la storia: Dio non si è fatto carne, non è entrato nella morte, non è risorto per dare una pacca sulle spalle dell'umanità, un incoraggiamento e una consolazione a buon mercato. C'è di mezzo salvezza e condanna per "ogni creatura". Dimenticare il dramma che costituisce la vita dell'uomo, la reale possibilità di perdere o salvare la propria anima è forse il rischio più grande che corre la Chiesa. Se essa non freme di zelo e compassione autentiche per "ogni creatura", compromette la sua missione. La Chiesa è mandata ad annunciare il Vangelo, custodendo il deposito della fede che si fa visibile attraverso segni concreti e inequivocabili negli apostoli e in chi accoglie il loro annuncio: "Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio" (Paolo VI, Evengelii nuntiandi).
Gesù è risorto e dal Cielo accompagna i discepoli "dappertutto" agendo con loro, autenticando la loro parola con i segni celesti che svelano la presenza di Dio. Sono segni soprannaturali, opere, prodigi, miracoli che l'uomo, per quanto onesto, buono, rispettoso non può compiere. Su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio. Opere di Dio nella carne debole degli uomini, che svelano la loro natura celeste. Chi crede al Vangelo opera quanto esso annuncia; è passato dalla morte alla vita e ogni sua opera ha il sapore del Cielo, come un aereo che supera la barriera del suono, essa oltrepassa la barriera della carne e della corruzione. Il veleno che uccide, la condanna di chi non crede, non reca danno a chi è passato oltre il sepolcro. Il veleno dell'invidia, del rancore, del giudizio, del male, non può nulla in chi crede. Gli apostoli passano indenni nelle fiamme delle persecuzioni, la loro fede vince il mondo; attraverso la stoltezza della loro predicazione, Dio dona la fede, e coloro che accolgono l'annuncio degli apostoli la ricevono gratuitamente. Così, la stessa fede che muove gli araldi del Vangelo irrora la vita di chi lo accoglie, ed essa si fa visibile come un sigillo nei segni che l'accompagnano. Esattamente gli stessi segni accompagnano la fede di chi annuncia e chi crede: quello che gli apostoli predicano e mostrano appare in coloro che accolgono e credono. Perchè chi crede non muore, chi crede ama oltre la morte. Chi crede è strappato e strappa alla condanna.
I segni di cui ci parla il Signore non si possono pianificare in un consiglio pastorale, preparare nelle riunioni delle Conferenze Episcopali. Non si studiano. Sono miracoli, saette che trafiggono la normalità d'una vita senza Dio. Gesù non ha frequentato un corso su Dio, non lo ha imparato da nessuna parte, era, semplicemente, Suo Figlio. Così è di ogni figlio nel Figlio, d'ogni cristiano. Così è per la Chiesa che attraversa i secoli con lo zelo appassionato che freme di compassione e la spinge ad andare dappertutto, nella consapevolezza che ogni evento che la riguarda, ogni persecuzione, ciascun istante della vicenda concreta dei suoi apostoli, è legato alla missione di annunciare il Vangelo: "La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua. Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare. Infatti la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima... non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l'ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della Buona Novella. Così tutta la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e l'opera di ciascuno è importante per il tutto" (Paolo VI, ibid). Nulla della nostra vita è fine a se stesso, perchè tutto è in funzione della missione alla quale siamo chiamati. Il veleno che oggi ciascuno di noi dovrà bere - l'incomprensione del marito, la ribellione el figlio, la malattia, la precarietà economica - è il segno con il quale il Signore accompagna e sostiene e certifica la nostra fede e quella di coloro ai quali siamo inviati. Anche oggi prenderemo in mano il serpente antico, il seduttore di tutta la terra, la menzogna che che avvelena la vita di ogni uomo, e lo renderemo innocuo in virtù della fede, per noi e per chi ci è accanto. Parleremo lingue nuove, la lingua dell'amore che solo in Cielo si parla, perchè supera le grammatica della carne per distendersi sulle declinazioni che raggiungono le debolezze, le sofferenze, le ansie e le speranze di chi ci è accanto senza il filtro dei nostri criteri, senza le correzioni che l'affettività vorrebbe apporre alle parole che descrivono la loro vita. Guariremo i malati, sì, in virtù della fede toccheremo il cuore ferito di chi ci è vicino deponendovi la misericordia di Dio.
La nostra storia concreta è un segno per i figli, i coniugi, i fidanzati, gli amici, i colleghi. Tutto è segno di un amore che vince la morte, il peccato, che trasforma la condanna in Grazia. Anche oggi siamo mandati dappertutto, in ogni istante della nostra giornata, e nulla ci è indifferente, da nessuna situazione dobbiamo scappare. Niente ci cade addosso improvviso, perchè è il Signore che ci invia a vivere ogni evento da risorti con Cristo; non subiamo la vita, la affrontiamo da protagonisti, come la missione più importante: liberare i prigionieri, cancellare la condanna che pesa su ogni uomo, spalancare per tutti le porte del Cielo, il destino di felicità eterna che il Vangelo annuncia: "l mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l'Invisibile" (Paolo VI, Ibid).
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Di seguito il testo dell'omelia pronunciata dal patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, in occasione della solennità dell'evangelista San Marco, santo patrono della città lagunare.
Celebrare la festa di san Marco evangelista significa riprendere in mano la nostra storia; San Marco, infatti, è stato, per circa mille anni patrono della Serenissima. Egli, così, richiama l’identità veneziana che si caratterizza, da sempre, come volontà d’incontro, di scambi culturali e commerciali, di viaggi; una ricchezza che non è solo economica ma umana, culturale, artistica, spirituale.
In tal modo, san Marco, ci ricollega all’Oriente - la Terra santa -, all’Egitto - la città di Alessandria -, di cui l’evangelista secondo un’antica tradizione fu vescovo. Ssoprattutto, però, Marco ci riporta, attraverso il suo vangelo, al Signore Gesù che da lui viene presentato, fin dall’inizio, come il Figlio di Dio.
In Marco, che ci unisce all’Oriente ma soprattutto alle origini del cristianesimo, c’è la profezia di quello che, nei secoli, sarebbe diventata la nostra città, la Regina dell’Adriatico, la Dominante, la Serenissima.
Per questo oggi, in un’epoca di difficoltosa transizione con la quale il nostro territorio e la nostra città devono fare i conti, i veneziani non possono guardare a San Marco chiedendogli solo una generica protezione ma devono più che mai domandargli il coraggio e l’intraprendenza per guardare al presente e al futuro con più forza e ottimismo.
I momenti di crisi, infatti, sono tempi in cui, a tutti, viene chiesto di dare di più, non di meno, d’essere più coraggiosi e meno timorosi. In particolare bisogna non cedere alla tentazione dell’individualismo, anzi impegnarsi a “far rete” e a guardare insieme alle scelte che riguardano l’interesse generale e che non parlano la lingua di una sola parte o, addirittura, di una parte contro l’altra ma, piuttosto, il linguaggio complesso e variegato del bene comune, con particolare attenzione al mondo del lavoro, della famiglia, dei giovani; soggetti che, in modi diversi, oggi sono messi a dura prova.
Come membri della comunità religiosa e civile siamo convinti che sia necessario fare appello a tutte le risorse morali e spirituali per guardare, con più serenità e determinazione, al presente e al futuro. Non si può cedere allo sconforto, non possiamo vivere il tempo che ci è stato dato, come una condanna. Al contrario, il tempo che ci è stato dato da vivere è qualcosa in cui dobbiamo abitare dando il meglio di noi stessi, per lasciare, a chi verrà dopo, i frutti della nostra fatica, del nostro coraggio, della nostra fantasia.
Il nostro protettore Marco, non fece parte della cerchia apostolica - ossia dei Dodici - ma, attraverso il legame con essi e in modo particolare con l’apostolo Pietro - fondamento degli Apostoli e di tutta la Chiesa - ci trasmette quello che viene considerato il secondo vangelo; in esso abbiamo la testimonianza ecclesiale di tutte le cose dette e fatte da Gesù per noi.
Nell’odierna, solenne, ricorrenza dell’evangelista che, come da calendario, cade in tempo pasquale, vogliamo soffermarci su un aspetto importante riguardante le apparizioni con cui il Signore risorto si manifesta ai suoi. In Marco, come d’altronde negli altri evangelisti, gli incontri col Signore risorto costituiscono e legittimano la Chiesa che appare come la comunità che nasce dalla sua morte/risurrezione e dal dono dello Spirito Santo.
Il Vangelo di Marco termina con una duplice conclusione; la seconda costituisce - come è noto - un’aggiunta successiva, pur essendo, a tutti gli effetti, ispirata e canonica.
In tal modo il vangelo che abbiamo appena ascoltato, proclamato dal diacono, vuol garantire che, una volta asceso al cielo, il Signore Gesù non è più visibilmente accessibile ai suoi. Allora, a Lui, subentreranno gli Undici, ossia, la Chiesa, che proprio da Lui, e tramite gli Undici, riceve il mandato missionario: “Apparendo agli Undici , Gesù disse loro: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.
Ma, dopo aver detto che, al posto di Gesù, vi è la santa Chiesa - ossia gli Undici mandati in missione dal Risorto -, il vangelo di Marco ne vuole proclamare l’indefettibilità, ossia il suo “non venir meno” a causa del male con cui, in ogni epoca, essa dovrà fare i conti, misurandosi con presenze che le si opporranno non solo dall’esterno ma, purtroppo, anche dall’interno.
Il prosieguo del brano evangelico odierno ci aiuta a comprendere tutto questo: “Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, e se berranno qualche veleno, non recherò loro danno; imporrano le mani ai malati e questi guariranno ” (Mc16,17-18).
Queste affermazioni non vanno intese pensando che gli apostoli e i loro successori saranno dei super-uomini o persone dotate di poteri magici, una specie di prestigiatori da spettacolo. Non saranno niente di tutto questo.
Al contrario, il vangelo di Marco descrive, in estrema sintesi, quello che attraverso generi letterari fra loro differenti, occupa due interi libri del Nuovo Testamento: gli Atti degli Apostoli e, soprattutto, l’Apocalisse.
Infatti, i due versetti che chiudono il Vangelo di Marco ci dicono, servendosi di immagini: “Scacceranno i demoni… prenderanno in mano i serpenti… se berranno qualche veleno non recherà loro alcun danno…”.
Ciò significa che, alla fine, la salvezza ottenuta da Cristo sulla croce, e affidata alla sua Chiesa avrà - nonostante le tante sofferenze e persecuzioni - la meglio. Le porte degli inferi non prevarranno!
Non a caso il libro degli Atti degli Apostoli s’interrompe proprio quando la salvezza raggiunge Roma che, all’epoca, era il centro e insieme il simbolo della totalità del mondo, mentre il libro dell’Apocalisse, dopo la narrazione di tante persecuzioni e sofferenze da parte delle Chiese e dei discepoli, termina con l’invocazione della Sposa - ossia la Chiesa - e dello Spirito che insieme dicono: vieni Signore Gesù!
Per noi, che ci rallegriamo della protezione dell’evangelista Marco, la lettura meditata del suo Vangelo, in questo tempo pasquale, diventi il modo in cui vogliamo entrare personalmente e comunitariamente, di più e meglio, nella sua protezione.
Ricordiamo, ancora, che cento anni fa, come oggi, s’inaugurava il ricostruito campanile di san Marco; infatti, proprio il 25 aprile 1912, alla città e ai veneziani, veniva restituito el paron de casa che, con le sue cinque campane ne ritmava e animava la vita; così, dopo dieci anni dal crollo del 14 luglio 1902, il grande campanile, piantato al lato della Basilica, tornava a presidiare una delle più belle piazze del mondo, per noi veneziani, la più bella piazza del mondo.
Infine, oggi, è mio vivo desiderio anche a nome di tutta Chiesa veneziana, porgere gli auguri al carissimo patriarca Marco, la Vergine Nicopeia lo sostenga sempre con la sua tenerezza di Madre.
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Beato John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo PPS vol. 2, n°16
«Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura»
«Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite» (Eb 12,12; Is 35,3)... Preso da Barnaba e Paolo per il loro primo viaggio apostolico, davanti al pericolo, Giovanni [Marco] si separò da loro e ritornò a Gerusalemme (At 13,13 ; 15,38)... Ora, in seguito, egli è stato l' aiutante di san Pietro a Roma (1Pt 5,13). E' là che ha scritto il suo vangelo, soprattutto con ciò che l'apostolo gli aveva raccontato. Infine, è stato inviato da Pietro ad Alessandria d'Egitto, dove ha fondato una Chiesa tra le più strutturate e potenti, in quei primi tempi... Colui che aveva abbandonato la causa del Vangelo di fronte ai primi pericoli si è dimostrato in seguito... un servitore molto determinato e fedele a Dio... Lo strumento di tale cambiamento sembra essere proprio san Pietro, che ha saputo rinfrancare quel discepolo timido e pavido in modo davvero ammirevole.
Ci viene dato un insegnamento attraverso questa storia: con la grazia di Dio, il più debole può diventare forte. Quindi, occorre non fidarsi di se stessi, né disprezzare mai un fratello che dà prova di debolezza, né disperare mai nei suoi confronti, ma invece aiutarlo a portare i propri pesi (Ga 6,2) e ad andare avanti... La storia di Mosè ci fornisce l'esempio di un temperamento fiero orgoglioso ed impulsivo che lo Spirito ha domato al punto da farne un uomo di una mitezza eccezionale: «molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3). ... La storia di Marco offre il caso di un cambiamento ancora più raro: il passaggio dalla timidezza all'audacia. ... Ammiriamo dunque in san Marco una trasformazione più sorprendente di quella di Mosé: «Per fede ... trovarono forza dalla loro debolezza» (Eb 11,34).