lunedì 8 settembre 2014

Peccato, pentimento e perdono


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ESCE OGGI IL NUOVO LIBRO DI ANDREA TORQUATO GIOVANOLI
“Padre di sei figli (tre dei quali nati al Cielo), nelle pagine di questo diario l’autore affresca scene quotidiane di vita domestica vissuta che raccontano come l’esperienza della paternità umana possa davvero diventare veicolo privilegiato per comprendere la propria originaria figliolanza a Dio.”

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Il perdono


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di Andrea Torquato Giovanoli
Traffico intenso. E fretta.
Così ti insinui in ogni pertugio libero, smanetti il cambio come fosse un joystick, rubacchiando un sorpasso alla pista ciclabile, prendendoti una precedenza ai limiti della legalità alla rotonda e sgommando ai semafori manco fossi ai blocchi di partenza del Gran Premio di Montecarlo.
Che poi il segreto inconfessabile è che sotto-sotto un po’ ti piace anche: ché hai la scusa di sentirti anche tu uno Schumacher (dei poveri, ma pur sempre uno Schumacher).
Poi però incroci quell’altro: quello che si crede Hamilton, e che ti ruba una precedenza, o che ti scarta senza mettere la freccia, o che ti tappa la strada solo perché gli urge proprio di stare al cellulare mentre guida e non ha gli auricolari.
Quello, insomma, che ti fa qualche sgarbo, magari anche piccolo, ma che ai tuoi occhi impregnati di adrenalinico agonismo stradale, risulta proprio una minaccia di morte fatta impugnando la sua arma a quattro ruote.
Naturale e spontaneo ti sale allora alle labbra un simpatico augurio di qualcosa di brutto, o almeno un insultino, se non proprio un gesto digitale d’affronto.
E invece no, davanti al torto subito, una volontà libera e redenta ricaccia secca indietro la tentazione a dar sfogo alla propria natura ferita dal peccato originale, e così, trattenendo in gabbia la bestia, ti sorprendi a sussurrargli addosso una benedizione e a puntargli contro un “angelo di Dio”.
Ecco: questo è il senso del perdono.
Perché il tuo cuore inabitato dalla consapevolezza che sei manomesso tanto quanto lui è predisposto alla comprensione verso l’altrui fragilità, che v’accomuna.
Perché la tua ragione ti richiama a quei debiti che tu per primo contrai ogni istante nei confronti di Colui che di ogni istante ti fa credito, affinché tu possa compiere il tuo cammino di continua conversione a Lui.
Perché il tuo spirito, rivestito del quotidiano abito dell’orazione, risulta pronto e docile a farsi veicolo dell’azione del Bene, anziché del male.
Dio infatti non butta via le cose rotte, ma le “aggiusta”, ciò che è sbagliato lo rende nuovamente giusto (anche purificandolo): così perdona Dio.
L’uomo non può fare lo stesso di suo proprio, poiché non ha in sé quell’Amore, ma può cercare di farsene riverbero, imitando l’agire divino nel suo rendersi liberamente Suo strumento, invocandolo.
Poiché è vero che Lui rimette a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, ma è altrettanto vero che siamo chiamati a domandare il Suo perdono per le offese che noi arrechiamo a Lui cosicché anche noi impariamo a perdonare a coloro che ci offendono.
E per rivelazione ed esempio di Gesù, pregare per il nemico è il solo modo per conformare il proprio cuore all’azione di Dio, che in quanto Amore, ti plasma nella capacità di giungere perfino ad amare chi ti odia.
Invocare il Suo iper-dono e farsene fattivo strumento, non con lo scopo di convocare l’altro a conversione (che è prerogativa, questa, solo divina), ma con l’intento di convertire prima di tutto se stessi, così da diventare operatori di pace nella fraterna intercessione per il bene vero di entrambi.
Che questo poi è il potere della preghiera, canale privilegiato dell’azione dello Spirito, la quale, per quella libera volontà di rispondere al male con il bene, attinge proprio la sua forza da quella maturata consapevolezza di essere per primi peccatori e che ti rende capace di comprendere l’altrui essere peccatore nell’impetrazione della giustificazione divina con la propria orazione di perdono.
E ciò, oltre che richiamare l’altro a lasciarsi interloquire con un’alternativa all’odio capace di salvare, agisce prima di tutto su te stesso, facendoti immagine di Cristo.
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Il pentimento

di Andrea Torquato Giovanoli
Anni fa mi capitò una commessa per un anello da fare intorno ad uno smeraldo di proprietà del cliente: una pietra molto bella, seppure non grossa, ma di un verde intenso che la rendeva davvero preziosa. L’anello era il regalo di anniversario che questo cliente, (che era anche un conoscente) voleva fare alla moglie e la pietra era il souvenir di una loro vacanza insieme.
Io feci l’anello, ma in quel frangente ero tanto oberato di lavoro che mi ritrovai in prossimità della scadenza datami con ancora la pietra da incastonare.
Feci presto due calcoli e mi resi conto che se avessi portato il lavoro all’incastonatore (come si fa ordinariamente) avrei consegnato l’anello in ritardo per il giorno dell’anniversario di quella coppia di conoscenti, così, visto anche che il tipo di incassatura era abbastanza semplice, mi risolsi a provare ad incastonare io stesso la pietra nell’anello.
Lo smeraldo è però una gemma piuttosto fragile, che persino gli incastonatori esperti incassano con una certa apprensione, quindi nel prendere la decisione di accollarmi un lavoro specifico che non mi è proprio, mi assunsi con riluttanza, ma costretto dalle circostanze, la responsabilità di un grosso rischio.
È che davvero ci tenevo tanto a non deludere quel cliente, permettendogli, col mio lavoro, di poter festeggiare con quell’originale sorpresa a sua moglie il suo anniversario di matrimonio.
Fattostà che mi misi ad incastonare lo smeraldo nell’anello: con leggeri ed accurati colpi di martelletto ribadii il metallo del castone, debitamente preparato in precedenza, sui bordi della pietra, stando ben attento a non toccare direttamente la gemma.
Sudai freddo per tutto il tempo dell’operazione, fino a quando la conclusi con successo, soddisfatto.
Quando però diedi un’ultima occhiata con il lentino d’ingrandimento al lavoro fatto, notai una leggera imperfezione nella ribattitura del metallo su uno dei bordi della pietra, e volendo fare un lavoro ad arte (ma patendo soprattutto un temperamento precisino e generalmente intollerante all’approssimazione), volli dare un ultimo colpo di martelletto.
Colpo che, nemmanco a dirlo, mi fu fatale.
Per quanto l’urto fu leggero, toccai uno spigolino di una delle facce dello smeraldo e questo, inesorabile come la ghigliottina per il re di Francia, si scheggiò.
Fu il disastro.
Dapprima ci fu l’incredulità, esclamata in una serie di negazioni ripetute a gran voce mentre fissavo il lavoro irrimediabilmente rovinato con occhi spalancati e le mani nei capelli.
Quindi ci fu la presa di coscienza della realtà: la pietra era rotta, il lavoro non poteva essere consegnato, il cliente sarebbe stato deluso, la sua festa rovinata, la commissione non solo non sarebbe stata saldata, ma mi avrebbe causato un esborso per ripagare il danno fatto, e così via in un turbinare di lugubre conseguenze che mentre mi si affacciavano al pensiero mi trascinavano in un gorgo di nera disperazione.
Poi un momento di ritrovata lucidità, che lasciò lo spazio necessario ad una flebile speranza: si vedeva poi tanto il danno? Forse il cliente non se ne sarebbe accorto: d’altronde io avevo visto la scheggiatura con la lente d’ingrandimento…
Era la negazione, che apparecchiava il posto a subentranti tentazioni.
Però, guardando l’oggetto ad occhio nudo ed alla luce naturale, constatai che il danno si vedeva eccome: perciò fui rappreso ancora (e se possibile con maggior violenza) alla realtà e così fu il panico.
L’ansia e lo smarrimento di non saper come affrontare le conseguenze di quella situazione, e la voglia di fuggire dalle proprie responsabilità, gettando tutto alle ortiche e facendo finta che nulla fosse accaduto.
Ma non si poteva fare, e lo sapevo.
Quindi montò la rabbia. All’inizio contro il destino avverso, che nulla c’entrava, ma sembrava più facile dare la colpa alla sorte, piuttosto che assumerla nella verità come esclusivamente propria. Poi fu l’ira, ed ira furente, con me stesso, per la mia dabbenaggine, per un lavoro che sapevo che andava lasciato fare a chi sapeva farlo davvero, per la mia mania di perfezionismo, per quel mio ultimo, non necessario, maldestro colpo di martello.
E questo mi portò fin sulla soglia di un pianto sommesso e digrignato, a gemiti di sconforto e rincrescimento: per l’ineluttabilità di un tempo che non può essere riavvolto, per gesti definitivi che non possono essere ripresi e corretti.
Mi condusse persino a moti di autolesionismo: mi presi a schiaffi per lenire il senso di colpa che m’invadeva, capocciai ripetutamente il muro per punire il mio errore.
Infine fu la catarsi: presi risolutezza delle mie responsabilità con la ferma decisione di porre riparo come meglio avrei potuto al danno, mi rassegnai ad accogliere tutte le conseguenze che sarebbero accorse, incominciando proprio dall’affrontare il cliente con contrizione, disponibilità e proponimento di un’eventuale, possibile, riparazione.
Ecco: questa è la dinamica del pentimento.
Quella volontà risoluta, capace di stare davanti alla realtà dei propri sbagli nel riconoscimento del danno fatto e con la ferma intenzione di riparare: costi quel che costi.
È il crogiolo bollente della contrizione del cuore: l’angoscia tremenda che ti tormenta l’anima per ciò che hai commesso, per la gravità che attribuisci alle tue colpe, per il rammarico che ne provi, ma soprattutto per l’inesorabilità che si deve riconoscere al tempo, per il quale non si può tornare indietro e correggere i propri errori, ma se ne deve sopportare le conseguenze, per quanto gravi esse siano.
È il dolore intimo, morale, che per la sua intensità ha un riverbero anche fisico, capace di esprimersi corporalmente nel pianto, nel tremito, nella sudorazione innaturale, in uno stato costante di irrequietezza: un’altalena di stati d’animo dovuti ad un profondo senso di colpa che ti sopraffanno financo con una spontanea tensione a farti del male.
È il riconoscimento di ritrovarsi causa di un guaio serio, per il quale si perde o si distrugge qualcosa di veramente prezioso per se stessi, e davanti alla definitività delle circostanze sorprendersi quasi a desiderare una punizione per la colpa commessa, cosicché la si possa espiare, e che dà un senso a tutta quella gestualità rituale che accompagna il pentimento dell’uomo nella tradizione, come il battersi il petto, il digiunare, il cospargersi il capo di cenere o il radersi a zero, il vestirsi di stracci o lo strisciare sulle ginocchia, fino al percuotersi con funicelle o ad indossare il cilicio. Ed ognuno di tali comportamenti non è affatto segno di masochismo, ma espressione corporale del dolore morale che si prova.
Sono, invero, “penitenza”.

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Il peccato

di Andrea Torquato Giovanoli
Giornata faticosa di un autunno precocemente avviato a temperature invernali.
È dal mattino presto che rincorri piccole e grandi scadenze: dall’accompagnamento dei bimbi a scuola, al raggiungimento in orario del posto di lavoro, sul quale sei chiamato a mantenere costante concentrazione e perseverante produttività.
Il consumo cronometrato della breve pausa pranzo ed il secondo round lavorativo, durante il quale, nonostante la palpebra pesante e l’incalzante stanchezza, sei ancora chiamato a mantenere perseverante concentrazione e costante produttività.
Quindi la fuga del rientro a casa, rallentata dall’estenuante traffico ed indurita dall’inclemenza del tempo.
E tra le mura domestiche, assieme alla gioia di ritrovare i tuoi cari, ti sovviene la consapevolezza che la giornata non è ancora mica finita: poiché la famiglia ha le sue esigenze ed il tuo doveroso piacere sta nel farti assorbire da essa le ultime energie fino al momento in cui finalmente i pargoli saranno a letto e l’amata consorte, sfaccendando le stoviglie, ti regalerà finalmente un po’ di tempo per riappropriarti di te stesso.
Così ti prepari un bagno caldo, con l’intenzione di distendere le membra e lavar via la fatica: prepari l’acqua versando sali e bagnoschiuma profumato, poi ti immergi ed assapori la rilassante sensazione di benessere.
Ed è proprio quando ogni fibra del tuo corpo si rilascia piacevolmente che senti quello stimolo tentatore, quell’impellenza indeclinabile: ti scappa la pipì.
Ora: la tazza si trova proprio lì a fianco e basterebbe uscire un attimo per espletare l’urgenza e tornare presto a godersi il confortevole lavacro, ma stai così comodo nella vasca e l’acqua è calda e profumata che quasi, quasi… La fai lì dove sei.
Ma sì, ti dici, e chi mi vede?
E poi, sorridi, che male c’é?
Ecco: questo è il principio del peccato.
In merito alla materia: perché tu sai che quel gesto è lesivo della tua dignità e ti abbruttisce al livello della bestia.
In merito alla piena avvertenza: perché tu sai che le conseguenze di quell’atto ti lasceranno nel puzzo e nello sporco.
In merito al deliberato consenso: perché tu sai che in quel breve istante tutto dipende da un singolo moto della tua libera volontà, unico valico tra ciò che è giusto e l’errore.
Ma spesso, purtroppo, nonostante tutto ci troviamo a sguazzare nella nostra stessa latrina.
E Gesù é colui che attende il tuo richiamo per scendere a sporcarsi nella tua fogna, raschiarti di dosso il tuo liquame, lavarti con l’acqua pura della Sua sorgente, asciugarti con le Sue vesti candide e ricoprirti con panni nuovi, morbidi e profumati.
Ogni singola volta.