lunedì 18 marzo 2013

Americhe, un Papa contro l'ateismo dilagante

Papa Francesco saluta i fedeli


«Sono venuti a prendermi quasi alla fine del mondo». Con queste parole Papa Francesco si era presentato ai fedeli accorsi in piazza san Pietro dopo la fumata bianca. Un’immagine forte che ha sintetizzato una svolta, tra le tante introdotte da quest’ultimo Conclave.
Il nuovo Pontefice, oltre a essere il primo gesuita della storia a salire al Soglio di Pietro, non è più un europeo, viene infatti dall’altra parte dell’Oceano ed è lontano anni luce dagli affari di curia e da quella burocrazia vaticana di cui si parla da mesi come di un problema da risolvere. Per cogliere fino in fondo questa novità forse però servono gli occhi del “nuovo Mondo”. Greg Erlandson, presidente di Our Sunday Visitor, sorta di “Edizioni Paoline” nel cuore degli Stati Uniti (come potenza di fuoco più che come linea editoriale) e presidente dell’Associazione della stampa cattolica degli Usa e del Canada è un consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali del Vaticano. In queste settimana ha seguito da Roma le ultime tappe del pontificato di Benedetto XVI e il Conclave. «Credo che l’elezione del Cardinal Bergoglio rappresenti una novità davvero significativa per la Chiesa latinoamericana e per quella universale – spiega alla Nuova Bussola Quotidiana –. Tra Nord e Sud America i cattolici oggi sono 568 milioni (un miliardo e 200 milioni nel mondo). E la Chiesa negli ultimi tempi si è accorta di dover rispondere alle stesse sfide in tutto il Continente: consumismo, materialismo, ateismo, piaghe di società ferite da droga, corruzione, prostituzione. Papa Francesco, come arcivescovo di Buenos Aires ha guidato una diocesi di oltre 2 milioni e 500 mila cattolici, segnata dalla povertà e dalla diseguaglianza. Se Benedetto XVI era la mente raffinata della Chiesa Cattolica Francesco potrà esserne le braccia e il cuore pulsante, nel segno della continuità». 
Un Papa latinoamericano è un segnale importante anche per gli Stati Uniti, paese in cui la fede cattolica trova nuova linfa proprio nei latinosNon c’è dubbio. Tenga conto che a Los Angeles, ad esempio, il 50% degli abitanti sono ispanici e che nei prossimi dieci anni in Usa il 70% dei bambini sarà di origine latinoamericana.
Per i latinos è stata sicuramente una grande gioia, anche se in Usa non si può parlare di una comunità latinoamericana in senso stretto perché è divisa in gruppi molto diversi (messicani, colombiani, argentini, brasiliani, cubani…). 
Anche l’elezione del Cardinale O’Malley poteva essere un segnale importante in questo senso?Direi di sì, anche se in Usa è raro che un vescovo sia conosciuto, date le dimensioni, da tutta la Chiesa statunitense.
Il cappuccino O’Malley, già missionario in Cile, è molto influente a Boston e in Florida. Ma per la comunità latinoamericana in Usa forse è più famoso il vescovo di Los Angeles José Gomez, americano di origini messicane, che ha preso il posto di Mahony. Credo che il più conosciuto in assoluto sia Dolan (New York), ma, anche se è sensibile nei riguardi di questo mondo, non parla lo spagnolo. Direi che l’elezione del cardinale argentino sembra proprio quella giusta per la Chiesa nelle due Americhe. Gli stessi cardinali statunitensi mi sembrano soddisfatti, anche se di certo tra loro non mancavano gli ammiratori del Card. Angelo Scola. 
La fede al di là dell’Oceano deve continuare a fare i conti con l’avanzata del protestantesimo, nelle sue varie forme?In America Latina è un problema. Se luterani e anglicani sono in calo, gli evangelici e i fondamentalisti sono in grande crescita. Spesso questo dipende dalle basi poco solide con cui le persone si formano al cattolicesimo e anche dal connubio umanitarismo-proselitismo protestante. È vero anche che i finanziatori spesso sono negli Usa, Paese protestante fin dalla sua nascita.
Queste cose però accadono da trent’anni. A mio avviso, il vero pericolo del nostro tempo è l’avanzata dell’agnosticismo e dell’ateismo. Sono sempre di più le persone che nei sondaggi,  alla domanda sul proprio credo rispondono: “no religion”.
Sono questi, secondo lei, i problemi principali che si troverà ad affrontare Papa Francesco nel “nuovo mondo”?Le sue prime parole indicano una linea precisa che può andare alla radice di ogni problema: senza l’incontro con Cristo la Chiesa diventa una Ong pietosa. L’evangelizzazione non può essere l’applicazione di un programma, ma una conversione continua. Se questo non avviene il Vaticano diventa burocrazia e politica e perde così vitalità.
To walk, to build, to profess (“camminare, edificare, confessare” aveva detto il Papa nella sua prima omelia nella Cappella Sistina ndr) è una sfida per tutti. 
E riguardo ai problemi interni al Vaticano che sono esplosi negli ultimi mesi?Il forte richiamo alla povertà del Santo Padre fa presagire grandi cambiamenti. Poi c’è il tema della comunicazione e di tutto ciò che ne deriva.
Vede, nella Santa Sede la qualità delle persone che lavorano in questo campo è molto alta, a cominciare da Padre Lombardi. I problemi, a mio avviso, derivano dalla scarsa dinamicità della struttura. Per cui se appena sotto il Papa tutte le informazioni si fermano, puoi avere anche i migliori professionisti, ma non ti servono a nulla. E questo vale anche per le informazioni che devono poter arrivare al Pontefice da parte di tutta la Chiesa, senza che si creino dei filtri invalicabili.
Dal punto di vista della comunicazione i cardinali americani sono stati una vera e propria scossa nel pre-conclave. Dichiarazioni, conferenze stampa autonome, l’arrivo alle congregazioni con un furgoncino come se si trattasse di un vero e proprio team di pallacanestro.È vero. Forse il richiamo del Vaticano per tutto questo baccano è stato un po’ uno schiaffo, ma credo che fosse motivato. Il fatto che solo un gruppo si muovesse in questo modo alla lunga avrebbe creato divisioni. C’è però una lezione che la Santa Sede può fare sua.
Quale?Transparency and accountability. Prima del Conclave, ispirati proprio dall’esempio dei vescovi Usa, portare tre porporati alla volta in conferenza stampa poteva essere un’idea innovativa. A mio avviso, sarebbe stato positivo perché da un lato la Chiesa si sarebbe aperta al mondo, usando anche l’esperienza del Conclave come strumento di evangelizzazione, dall’altro non avrebbe creato gelosie e divisioni.
Al di là di questa proposta è l’atteggiamento che conta, anche riguardo agli scandali sessuali. Parlando con alcuni giornalisti italiani mi sembra che non tutti si rendano conto di quanto devastanti possano essere. Laddove qualcuno ha cercato di coprire e insabbiare i problemi sono appena iniziati, ma dove la Chiesa è stata coraggiosa e trasparente, capace di parlare con le vittime, di investigare, punire e chiedere perdono, le ferite si stanno rimarginando.
Anche su questo i primi passi di Papa Francesco fanno ben sperare…
(R. Pozzi)

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Riporto da "Avvenire" di oggi, 18 marzo.


Viganò: i gesti del Papa che lo rendono «telegenico»
​Sapete cosa conferisce tanta autorevolezza a papa Francesco? «Il fatto di avere una sobrietà solenne». Ricorre a un ossimoro il direttore del Centro Televisivo Vaticano (Ctv), monsignor Dario Viganò, per descrivere il primo impatto con le telecamere del nuovo Pontefice. Un impatto che il Ctv ha raccontato letteralmente minuto per minuto, contribuendo a far scattare nella platea televisiva mondiale («Abbiamo ricevuto richieste di immagini anche dai Paesi più lontani», sottolinea Viganò) il grande feeling con il Papa. «Noi ci abbiamo messo tutto l’impegno possibile, 12 telecamere, 35 persone, 2 radiocamere – dice il sacerdote –, ma è il Santo Padre ad essere così naturalmente telegenico».

Papa Bergoglio, infatti, «insegna molto con i gesti», come si è visto già dal primo apparire alla Loggia delle Benedizioni. «Si è presentato con l’essenzialità dell’abito bianco, con le braccia lungo i fianchi, come un uomo indifeso e semplice. Ma tutto questo, paradossalmente, gli ha conferito una ieraticità che ha predisposto tutti ad accogliere le sue parole con un’apertura di credito speciale». Viganò continua nell’esame della sintassi delle immagini. «Il giorno dopo, celebrando la Messa nella Cappella Sistina, ha tenuto l’omelia in piedi, all’ambone, e senza la mitria.

Un gesto che vuole trasmettere la condivisione della Parola. Dal punto di vista dei contenuti, poi, siamo di fronte alla grammatica del Vangelo, perché – aggiunge il direttore del Ctv – papa Francesco sa che la verità della Buona Novella si dipana nelle relazioni: con tutti e con ciascuno. E quando è così nessuna parola può permettersi di essere vuota. Infatti le sue parole sono così dense che appaiono come scolpite. Inoltre il tono di voce basso e il ritmo lento obbligherà anche i media a cambiare ritmo», prevede monsignor Viganò. Cambiamenti del resto ce ne sono già stati – anche televisivamente parlando – dall’11 febbraio (giorno in cui Benedetto XVI ha annunciato la sua rinuncia) a oggi.

«Da quell’annuncio – ricorda infatti il direttore del Ctv – si apriva anche per noi uno spazio per molti versi inedito in cui dovevamo documentare eventi di cronaca che erano già pezzi di storia della Chiesa. E dovevamo documentarli da un lato cercando di "educare" per quanto possibile la bulimia di questa nostra società delle immagini, dall’altro facendo capire a tutti che ciò che stava succedendo obbediva alla logica dello Spirito Santo, non all’azione di cordate, alleanze o, peggio ancora, di complotti e dietrologie». Di qui la scelta di mostrare oggetti e luoghi del Conclave. I vestiti del nuovo Papa, l’urna e le stufe, ad esempio.

Ma anche l’avanzare dei lavori di sistemazione della Sistina e il racconto "in soggettiva" (cioè con una telecamera che aveva lo stesso punto di osservazione degli occhi di un qualsiasi cardinale elettore) del percorso che i porporati facevano ogni giorno dalla Domus Santa Marta alla Sistina. Resta poi altamente significativa l’inquadratura della chiusura della porta dopo l’extra omnes con la telecamera che sale fino alla vetrata della Sala Regia e la dissolvenza sul comignolo all’esterno. «Dal quel momento in poi iniziava il tempo dell’attesa orante», spiega Viganò, aggiungendo che anche i primi momenti dopo l’elezione sono stati documentati.

Così il direttore del Ctv sottolinea la scelta di piazzare le telecamere anche alle spalle del Pontefice per far vedere il suo punto di osservazione e dare l’idea del dialogo tra il Pastore e i fedeli. «Papa Francesco – conclude il responsabile della tivù vaticana – in un certo senso ha già scritto con i gesti la sua prima "enciclica". E cioè che la verità cristiana è testimoniale, prima ancora di essere argomentativa». E anche questo è estremamente telegenico.

Mimmo Muolo

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Riporto dal "Corriere della Sera" di oggi, 18 marzo.
CITTÀ DEL VATICANO - «Sì, gli avevo dato questo libro prima del Conclave e lui lo ha letto...». Il cardinale Walter Kasper, grande teologo e «grande anima» nella Sistina, è «sorpreso» e sorride felice, «mi ha fatto molto piacere»: più ancora che per l'inedita citazione di papa Francesco all'Angelus («il libro del cardinale Kasper mi ha fatto molto bene»), per ciò che significa nella prospettiva del Pontificato. Il libro è Misericordia (ed. Queriniana), tema centrale anche per Bergoglio: «Quando lo ha guardato, mi ha detto: sì, misericordia è il nome di nostro Signore».
Eminenza, il Papa ha parlato della tentazione farisaica di «condannare gli altri» opposta alla misericordia di Gesù...
«La misericordia c'è già nell'Antico Testamento, ma è soprattutto nel Nuovo che diventa centrale. Gesù annuncia un Dio misericordioso, e questa è la differenza specifica del cristianesimo: non un Dio qualsiasi ma un Dio che "è" misericordia. Senza, saremmo perduti. E questo corrisponde anche all'opzione preferenziale di papa Francesco per i poveri: la misericordia e la Chiesa povera, con e per i poveri, sono due facce della stessa medaglia».

Significa anche uno stile diverso nell'evangelizzare?
«Sì, certo. Lui pensa a una Chiesa umile, che significa anche una Chiesa rispettosa delle convinzioni altrui. Mi è molto piaciuta la "benedizione silenziosa" durante l'udienza con voi giornalisti. Non dare la classica benedizione apostolica significa dire: non voglio forzarvi, vi rispetto, abbiamo qualcosa da dire ma nel rispetto. Questo non significa rinunciare alla missione, al contrario: è un'attività missionaria dialogante. Il problema è come comportarsi in una società pluralista. Dialogo e missione non sono contrapposte ma vanno insieme, la missione si fa anche sulla via del dialogo».
Francesco si è subito definito «vescovo di Roma». Si annuncia un modo nuovo di essere Papa, di esercitare il «primato» di Pietro?
«Può darsi, sì, anche se non ne ha fatto riferimento esplicito. Io spero che lo farà! C'è da dire che l'essere vescovo di Roma non è accidentale all'essere Papa, al contrario. Il Papa è anzitutto vescovo di Roma e, come tale, pastore della Chiesa universale. Però è importante che abbia citato Ignazio di Antiochia...».
Quando ha parlato della «Chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese»?
«Proprio così: è la "Chiesa di Roma", città del martirio di Pietro e Paolo, che presiede nell' agápe , la carità, nella comunione di agápe tra le Chiese. Questo può significare non una nuova, ma una rinnovata comprensione del primato di Pietro: il Papa è certamente il primo dei vescovi ma in comunione con gli altri vescovi. È un rafforzamento della collegialità. Ma non solo...».
Che altro?
«La frase di Ignazio, un padre della Chiesa indivisa dell'inizio del II secolo, è sempre citata dagli ortodossi. Certo, non è semplice, si tratta poi di discutere che cosa significhi "presiedere nella carità", ma tale concezione è essenziale per il dialogo».
Francesco ha detto anche di non cedere al «pessimismo»...
«Viviamo in un modo che soprattutto in Occidente ha un po' perso la speranza. Ma un cristiano non può perdere la speranza perché crede in un Dio misericordioso che non abbandona nessuno. Eppure molti fedeli si mostrano pessimisti, tutte queste lamentele sul mondo cattivo... Le cose cattive ci sono, ma chi crede sa che Dio ci mostra la via d'uscita».
C'è chi parla di «pauperismo» del Papa, che ne dice? 
«In Francesco è fondamentale la spiritualità dei gesuiti. E l'opzione per i poveri non è una cosa sociologica, è il Vangelo: Gesù, Dio incarnato, si è fatto povero con i poveri per arricchirci».