venerdì 1 marzo 2013

Come le pagine di un libro




(Marcello Semeraro, vescovo di Albano) Benedetto XVI ha rivolto il suo ultimo saluto alla Chiesa di Albano, prima che si chiudesse la finestra della loggia centrale e che dopo, alle ore venti, venisse sbarrato, spinto dagli Svizzeri, l’imponente portone centrale del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo. 
Un saluto finale, dunque, come un’ultima benedizione e un’ultima personale confidenza alla gente della mia diocesi, ma estesa a tutto il popolo di Dio che sentiva vicino in un’ora significativa e unica della sua vita: «Grazie per la vostra amicizia e il vostro affetto. Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti». Abbiamo tutti percepito, commossi, il senso di un profondo affidarsi nel cuore del Papa e il nostro cuore si è dilatato nell’affetto e nella riconoscenza. 
«Grazie, Santità, per queste altre settimane che ci sta donando», gli ho detto nell’accoglierlo all’eliporto delle Ville Pontificie. «Questo è molto bello» mi ha risposto il Papa e ha soggiunto: «Sento il suono delle vostre campane». «Quelle che sente, sono le campane della Cattedrale — gli ho risposto a mia volta — ma in tutta la Chiesa di Albano le campane suonano per dirle che le vogliamo bene, che le siamo grati per tutto, che preghiamo per lei, che non la dimentichiamo». 
Ogni incontro col Papa è sempre “unico” e io stesso ho potuto constatarlo le tante volte che l’avevo accolto in diocesi per i suoi brevi riposi a Castello. Nell’ultimo incontro l’8 febbraio scorso per oltre un’ora, insieme con alcuni vescovi del Lazio, in occasione della visita ad limina, era stato attento e sollecito. Anche ora rimane nel mio animo il suo atteggiamento sereno, sorridente, quasi incoraggiante. 
Mi ha commosso, in particolare, il consueto cenno degli occhi e il rapido saluto con la mano con cui anche ieri sera, come tante altre volte a Castel Gandolfo, mi ha salutato prima di rientrare dalla loggia. Nella folla, non dimentica i volti: una grande ricchezza di Benedetto XVI. 
C’è stato, poi, l’abbraccio dei fedeli a Castel Gandolfo, convenuti a migliaia dall’intera Diocesi. L’avevano atteso in preghiera e ora, finalmente, potevano ancora una volta salutarlo e raccogliere nel proprio cuore le ultime parole di un padre, che intende «con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità». 
A Castel Gandolfo, come al mattino ai cardinali, il Papa ha ancora lasciato “un pensiero sulla Chiesa” e sul suo mistero, «che costituisce per tutti noi la ragione e la passione della vita». Il pensiero l’ha attinto, questa volta, dal concilio Vaticano II. «Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra». 
L’immagine della Chiesa pellegrina sulla terra pervade l’intero capitolo settimo della Lumen gentium ed è entrata pure nella liturgia. M’è parso che con queste sue parole il Papa abbia inteso, per un’ultima volta, esprimerci tutta la sua vicinanza, quasi a dirci: «Io cammino insieme con voi. Non me ne sto come alla finestra a guardarvi, ma procedo con voi». 
Mi sono rimaste in mente quelle parole dell’ultima udienza generale: «Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro». 
Ancora un pensiero sulla Chiesa, dunque. Che il Papa abbia voluto confidarlo alla Chiesa di Albano e che abbia concluso dicendo: «Mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo avanti insieme», ci fa sentire figli amati e ci riempie di gioia.


* * *

(Mario Ponzi) E alle 20 precise il pesante portone di legno del palazzo pontificio di Castel Gandolfo si è chiuso. Lentamente. Come se si stesse chiudendo la copertina di un libro che racconta una storia grande. Qualcuno, sulla piazza di Castello ha certamente sentito riecheggiare, proprio in quel momento, le parole, semplici e cariche di umiltà, con le quali, poco prima, Benedetto XVI aveva anticipato quel momento: dopo le 20, aveva detto, «non sarò più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica», ma «semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra». Evidentemente i fedeli non si arrendono ancora a questa idea e dalla piccola folla che è rimasta sotto il palazzo sino al «rito della chiusura» è salito forte il grido «Viva il Papa, nostro per sempre».
È stata lunga e faticosa per Benedetto XVI la giornata di ieri, giovedì 28 febbraio 2013, l’ultima del suo pontificato. Alla stessa ora in cui le Guardie Svizzere chiudevano il portone e lasciavano il Palazzo di Castel Gandolfo, infatti, in Vaticano, a Camera Apostolica riunita, il cardinale Tarcisio Bertone prendeva la ferula del camerlengo e apriva ufficialmente la Sede Vacante.
Benedetto XVI era già nell’appartamento che da ieri sera l’ospiterà per qualche tempo. Quanto? «Forse — ci ha detto il direttore delle Ville Pontificie, Saverio Petrillo — due o tre mesi. Ma chi può dirlo? Certo è che qui è a casa sua, nel senso che i luoghi sono familiari. Si è trovato sempre tanto bene qui con noi e abbiamo fatto di tutto, e faremo di tutto, per farlo stare ancora bene». Il direttore ha anche fatto accordare lo Steinway & Sons, il pianoforte a mezza coda nero spesso suonato da Benedetto XVI nei momenti di relax trascorsi a Castel Gandolfo. E c’è una piccola dimora pronta per ospitare Birgit Wansing, la laica consacrata del movimento di Schönstatt, che lo ha sempre aiutato a scrivere, nel senso che ha raccolto appunti a voce o trascritto pagine vergate a mano. Non ci farà certo mancare la ricchezza del suo pensiero.
A Castel Gandolfo Benedetto XVI è giunto in elicottero alle 17.20 circa. Prima di fare rotta verso la cittadina laziale, l’elicottero ha volteggiato più a lungo del solito nel cielo di Roma, sorvolando piazza San Pietro, il Colosseo e altre zone caratteristiche della città. È stato il simpatico omaggio dell’Aeronautica militare italiana. Roma ha affidato il compito di salutare il suo Vescovo, mentre usciva di scena, alla storica campana sulla torre del Palazzo Senatorio, conosciuta come “la patarina”. Suonava mentre il velivolo sorvolava il Campidoglio, un segnale e un invito anche per il sindaco e gli assessori riuniti in Consiglio, a sospendere la seduta in segno di rispetto e omaggio. La patarina, con tre rintocchi, alle 20 ha segnalato ai romani anche la conclusione del pontificato di Benedetto XVI.
E ancora campane suonate a distesa hanno portato a Castel Gandolfo l’annuncio dell’arrivo. Nelle Ville Pontificie, attorno all’eliporto, si era radunata una piccola folla: dipendenti con i loro familiari, qualche amico incluso di soppiatto nel gruppo di famiglia, parrocchiani di Albano che avevano seguito il vescovo Marcello Semeraro, latore dell’omaggio e dell’affetto dell’intera diocesi. Nei pressi del velivolo a fare gli onori di casa c’erano il cardinale Giuseppe Bertello e il vescovo Giuseppe Sciacca, rispettivamente presidente e segretario generale del Governatorato, il direttore delle Ville Pontificie. La comunità di Castel Gandolfo ha affidato il saluto ufficiale al sindaco Milvia Monachesi e al parroco don Pietro Diletti.
In piazza l’eco di una corale preghiera; i parrocchiani di San Tommaso da Villanova guidavano la recita del rosario e a ogni decina veniva proposta una frase tratta ora dalla Caritas in veritate, ora dalla Deus caritas est. Forte la concorrenza del brusio causato dall’agitarsi del nutrito plotone di cameramen, fotografi e giornalisti di tutto il mondo che hanno assediato la piazza della cittadina laziale sin dalle prime ore del giorno. Arroccati su balconi e tetti hanno trasmesso immagini e notizie in mondovisione, certamente senza precedenti, dell’ultimo atto pubblico di un Pontefice che sta per lasciare il suo ministero visibile.
Tutto si è consumato in una manciata di minuti. Tanti quanti è rimasto Benedetto XVI davanti a loro. Quasi aggrappato al leggio in plastica trasparente che sporge dalla loggia del Palazzo, sembrava scrutare, con lo sguardo velato di commozione, ogni angolo della piazza, e giù lungo tutta la via che si apre davanti al Palazzo, quasi a voler per sempre fermare nella sua memoria l’immagine di quel popolo gioioso che aveva davanti a sé, e che confortava la sua idea — espressa già mercoledì scorso durante l’udienza generale — di una Chiesa che è sempre viva.
Poche parole le sue, pronunciate con voce rotta dall’emozione sino all’invito finale: «Andiamo avanti con il Signore, per il bene della Chiesa e del mondo». E poi la benedizione. Un momento, quest’ultimo, che resterà emblematico dell’uomo-Papa che, come ci ha detto il vescovo Semeraro, «costringe ora la Chiesa a ripensare a come stare oggi nel mondo».
Aveva la voce un po’ rauca il Papa, forse per la forte emozione, quando ha detto «Sia benedetto Dio onnipotente... no vi benedica Dio onnipotente...». Poi si è girato. È rientrato nelle sue stanze e le tende bianche si sono chiuse alle sue spalle. Resterà d’ora in poi nascosto al mondo. Ma c’è chi già sogna qualcosa di diverso. Don Diletti infatti, ha in animo di tentare di convincerlo a celebrare la messa per i suoi parrocchiani. I dipendenti delle Ville sperano di rivederlo, come già accaduto a volte d’estate, tra le loro case. Per offrirgli ancora una bruschetta con l’olio buono, o un bicchiere d’aranciata contro l’arsura. Ma questa è un’altra storia.
L'Osservatore Romano, 2 marzo 2013.