martedì 19 marzo 2013

La Chiesa di Papa Francesco

La Chiesa di Francesco (copertina)

«La luna di miele con papa Francesco di una certa cultura clericale agnostica, atea che tracima da tutti i media e di cui Eugenio Scalfari è papa, sarà bruscamente interrotta quando il Papa comincerà a parlare sul serio e toccherà i temi etici». Vittorio Messori, lo scrittore cattolico italiano più tradotto nel mondo, amico personale dei due papi precedenti, è assolutamente certo della continuità di papa Bergoglio con papa Ratzinger, anche se gli stili personali sono diversi. Ed esprime questa sua convinzione con un agile libro (La Chiesa di Francesco) che arriva da oggi in edicola con il Corriere della Sera ma che potrà essere acquistato anche indipendentemente (soltanto in edicola).

Messori, Benedetto XVI nel rinunciare al Pontificato si è riferito a sfide che la Chiesa ha davanti e che necessitano di grande forza per affrontarle. Quali sono queste le principali sfide che ora papa Francesco si troverà davanti?
Anzitutto devo premettere che, contrariamente a Eugenio Scalfari, non è certo mia intenzione suggerire al Papa quel che deve fare. Semplicemente da umile cronista posso dire  che sono sempre stato 
d’accordo con Ratzinger il quale da sempre, come cardinale e come papa, ha detto che il vero problema è che la fede, soprattutto in Occidente, si sta spegnendo come una candela che non trova più alimento. Il vero problema da cui tutto nasce è questo: l’eclisse della fede, il fatto che non ci crediamo più. Non siamo più pronti a scommettere sulla divinità di Cristo, sull’aldilà che ci aspetta. E in questo l’intellighenzia clericale non ci aiuta. Pensate ad esempio ai biblisti: hanno accettato acriticamente il metodo inventato dal protestantesimo, diciamo agnostico, il metodo cosiddetto storico-critico per cui del Vangelo quello che resta vero sono solo le note del biblista. Se tu prendi sul serio il Vangelo ti considerano un reazionario, però guai a te se non prendi sul serio le note del biblista.
Non a caso ho sempre pensato da tanti anni che in fondo la cosa davvero da riscoprire sia una seria apologetica, fatta come dice Pietro nella sua Lettera: con mansuetudine e rispetto, un’apologetica al contempo pacata e rigorosa, 

In effetti Benedetto XVI ha rispolverato anche la parola “apologetica”.
Le ragioni per credere, le ragioni della fede sono il primo compito che oggi la Chiesa e, quindi, un papa devono porsi. E ripeto: non è un mio consiglio alla Scalfari per il Papa, questo è quanto ha ripetuto per una vita Ratzinger, prima cardinale poi papa, ed è anche quello che lui pover’uomo ha cercato di fare. Ad esempio i 3 volumetti su Gesù sono pura apologetica, nel senso migliore: cercare di confermare le radici dell’albero, perché il cristianesimo ormai sembra una quercia senza radici.

Mentre il mondo, e anche i cattolici, ascoltano più volentieri le parole sull’impegno sociale, sui poveri.
E’ il cosiddetto cristianesimo secondario: l’impegno, l’aiuto sociale sono tutte cose buone ma se non discendono dalla fede non hanno significato. Il dono maggiore che Ratzinger ci abbia fatto – a parte questi tre libretti, preziosi perché da un lato accetta i metodi esegetici moderni, e dall’altro dimostra come non distruggono le basi del cristianesimo  - è l’Anno della Fede, che è cominciato a ottobre e che questo papa dovrà concludere.
Per il clericalmente corretto il termine “apologetica” suona male perché sembra di regressione. Nei seminari addirittura la parola è sparita e viene chiamata pudicamente teologia fondamentale. Ma in questa teologia fondamentale che si insegna – ho cercato di guardare i testi - non c’è nulla che rafforzi la fede. Si dà come al solito la fede per scontata e si fanno belle considerazioni attorno. Ma come diceva papa Ratzinger nel documento di indizione dell’Anno della Fede, avviene che oggi si prospettino i doveri del cattolico sul piano sociale, caritativo e così via dando però per scontato una fede sulla quale nessuno si interroga e che molto spesso non esiste più.
Insomma bisogna rimettere ordine: prima la fede, poi la morale; prima il cristianesimo primario, che è l’annuncio del kerigma, poi il cristianesimo secondario, che sono le opere – anche sociali – che derivano dall’accettazione del kerigma.

Lei crede che papa Francesco sarà in continuità con Benedetto XVI?
Sì. In questi giorni sono stati molto sottolineati gli elementi di discontinuità, addirittura in modo grottesco: tutti a scrivere che è andato da Santa Marta con lo stesso pulmino degli altri cardinali, che ha voluto pagare la pensione dove alloggiava prima dell’elezione (dimenticando peraltro che la pensione è di proprietà del Vaticano). Ma appunto queste sono cose grottesche, e sono certo che  questa luna di miele tra una certa cultura di cui Scalfari è il papa, questa cultura e questo clericalismo agnostico, ateo che tracima da tutti i media, questa luna di miele sarà presto bruscamente interrotta quando comincerà a parlare sul serio, per esempio di etica, di morale e così via. L’uomo ha 76 anni, non è una novità, di cose ne ha dette tante, sul piano della morale e sul piano catechetico. Sul piano della fede era in perfetta sintonia con Ratzinger. E quindi questa luna di miele è destinata clamorosamente a finire.

C’è però questa grande sottolineatura del suo impegno per i poveri.
Su questo c’è un clamoroso equivoco, perché si dimentica che tutti i santi sociali dell’800 – solo per stare a Torino don Bosco, il Cottolengo, Faà di Bruno –, tutti quelli che si rimboccarono le mani per aiutare i poveri, tutti quelli che cercarono di dare anche il pane del corpo ai disgraziati che si trovavano intorno, questi erano classificati sul piano teologico come dei reazionari. Erano tutti figli devotissimi di Pio IX e poi di Leone XIII. L’impegno sociale non vuol dire essere preti alla don Gallo, o andare d’accordo con teologi alla Hans Kung: tutta la santità sociale è una santità che si sporca le mani per l’assistenza anche materiale ma allo stesso tempo ama il catechismo della Chiesa e lo rispetta. Quindi c’è un grosso equivoco in cui cadono questi signori che disquisiscono senza sapere niente della dinamica cattolica. Bergoglio andava nelle periferie (villas miserias), ma ci sarebbe andato anche don Bosco. E forse che don Bosco era un innovatore? Che Bergoglio andasse nelle villas miserias non vuol dire affatto che sia un contestatore teologico. Anzi sul piano della morale e della catechesi è del tutto allineato con Benedetto XVI. 
Don Bosco aveva un motto: pane e paradiso, che è molto bello. Pane nel senso che agli affamati bisognava dare anche il pane, però bisognava dargli anche il pane dello spirito. Dava ai ragazzi di strada accoglienza, gli insegnava un lavoro però questi ragazzi erano formati con estrema attenzione anche al catechismo, alla catechesi in linea perfetta con quella di Pio IX.
Questi signori che non sanno nulla e che discettano, dicono che questo è un prete sociale: benissimo, ma vedrete quando comincia a parlare di morale cosa dirà. Dirà esattamente quello che diceva Ratzinger.

Si sottolinea molto anche uno stile che rompe con tante formalità, come se fosse una rivoluzione, dimenticando che a suo tempo anche Giovanni Paolo II diede un bel po’ da fare a cerimonieri e uomini della sicurezza.
C’è davvero qualcosa di grottesco. E’ vero che ci sono troppi giornali, troppi telegiornali, troppe radio per cui c’è una iperinformazione ossessiva, quindi si deve andare a cercare anche il lato pittoresco. Ma si dimentica una grande verità: il Padreterno ci ha voluto tutti uguali e al contempo tutti diversi. Ognuno ha il suo carattere, il suo stile, ma non è questo quello che conta. Il Papa c’è soprattutto per una funzione: il magistere il custos fidei, custode e maestro della fede, il resto è tutto accessorio. A papa Bergoglio guardo come maestro e custode della fede, ma se lui ha certi gusti, un certo stile, un certo modo di muoversi e di parlare, non me ne può fregare di meno. Sono cose che fanno parte della straordinaria, meravigliosa varietà che il Padreterno ha voluto darci. Un papa non va giudicato dallo stile e dal carattere, ma dal suo insegnamento, perché questo è il suo compito. Faccio spesso l’esempio del papa Borgia: lui razzolava male, anzi malissimo, ma predicava bene. Seguo il papa Borgia non nel suo esempio ma nella sua predicazione. Fu un papa estremamente ortodosso, quindi a me non disturba affatto che poi andasse a letto con la figlia. Me ne dispiace, lo vorrei anche coerente, però se non lo è pazienza. E’ papa lo stesso se mi insegna la buona dottrina.

In molti hanno notato che papa Francesco insiste sul fatto di essere vescovo di Roma, non si riferisce mai a se stesso come al Papa.
Io non vedo male questo aspetto. Addirittura una volta mi è scappato detto in un articolo sul Corriere, che secondo me non sarebbe male se il papato si trasferisse al Laterano, dove c’è la cattedrale del vescovo di Roma. In fondo i papi sono in Vaticano solo da pochi secoli. Fino all’esilio ad Avignone e anche dopo stavano al Laterano e lì è la cattedra di Pietro. Secondo me, un trasferimento al Laterano sarebbe anche ipotizzabile, non mi disturberebbe. Per la logica dell’et et, il papa è al contempo il capo della Chiesa ma è anche un vescovo tra i vescovi. Ed è anche il vescovo di quella che era la capitale imperiale, per cui ha una maggiore autorità. La sottolineatura che il Papa è anche lui un vescovo – che poi per la sede in cui presiede gode di un autorità su tutta la Chiesa – non mi dispiace, in fondo è un aspetto che avevamo dimenticato. Il Vaticano è solo un’appendice al luogo dove Pietro fu martirizzato ma a parte la reliquia di Pietro non ci sono ragioni particolari. Il Papa non è legato a quel luogo, anzi il Papa sarebbe legato alla sua cattedra, che è quella del Laterano.
Quindi io non la vedo come Scalfari, secondo cui in questo modo comincia finalmente la Chiesa federale, una forma di Chiesa tipo Lega lombarda. Ma figurarsi se Bergoglio ha in mente il papato federale; non mette lontanamente in discussione la primazia del papa, però sottolineare che il papa è vescovo di Roma e quindi è chiamato in prima istanza a privilegiare le pecorelle che gli sono affidate  direttamente nella Chiesa di Roma, non mi dispiace perché non mette assolutamente in discussione quella che è l’unità ecclesiale.

Però, oltre a Scalfari, ci sono diversi episcopati o singoli vescovi che parlano di regionalizzazione della Chiesa, di una collegialità che intende dare maggiore potere alle conferenze episcopali.
Devo dire che più vado avanti più apprezzo i documenti del Vaticano II. Purtroppo siamo stati in qualche modo travolti dalle interpretazioni errate sia da sinistra sia da destra.  In realtà la collegialità intesa nel senso cattolico sta nella Lumen Gentium che è la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, fa parte del Dna della Chiesa. Quindi la collegialità è qui, nella linea che la Lumen Gentium indica, non certo nel fare una Chiesa federale, che è impensabile. Perché in fondo c’è già una Chiesa federale e sono le Chiese ortodosse. Il Patriarca di Costantinopoli ha soltanto un primato d’onore. Non voglio affatto quello lì, neanche il Concilio lo dice, voglio un Papa che non presiede soltanto come un onore. Se però attorno a lui non ci sono dei servi ma dei confratelli nell’episcopato, penso che questo sia molto bello anche in una prospettiva teologica. Ma anche qui non c’è nessuna rottura con il passato: Ratzinger è uno dei padri teologici del Vaticano II, l’ha sempre detto: voi vi sbagliate, cadete nello stesso equivoco speculare, voi a destra e la cosiddetta sinistra perché parlate di un Concilio che non c’è mai stato. Se noi stiamo a Ratzinger, egli si è sempre riconosciuto in questi documenti, c’è anche lui dietro la stesura di questi testi, non poteva non pensarla come la Lumen Gentium. Autonomi e uniti. (R. Cascioli)

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Da Paolo VI a Benedetto XVI l’umiltà nei gesti e nel magistero dei successori di Pietro. La forza della debolezza e la scelta di Papa Francesco

(Franco Giulio Branbilla) Quando Paolo VI, primo Pontefice che tornava nella terra di Gesù, si recò in Terrasanta dal 4 al 6 gennaio 1964, si racconta che, arrivato alla chiesa del Primato a Tabgha, dopo la visita ufficiale, chiese di essere lasciato solo a pregare nella piccola cappella che s’affaccia sul lago di Galilea. A fianco c’è un tratto di spiaggia rimasto intatto, con le onde che lambiscono ancora la sponda, come ai tempi di Gesù. Se scendete sulla piccola spiaggia nella brezza del mattino potete ancora ascoltare, portata dal vento, la domanda di Gesù al primo degli apostoli: «Pietro, mi ami più di costoro?». E sentirete risuonare il commento di sant’Agostino: «E questo una, due, tre volte. Viene interrogato l’amore e dato il ministero, perché dove l’amore è più grande lì la fatica è minore».
Paolo VI era nel vivo del concilio, dopo la seconda sessione, che aveva visto l’assise dei vescovi muovere i primi timidi passi con l’approvazione della Sacrosanctum concilium. Restavano ancora documenti importanti da portare a compimento, come la Lumen gentium, che faticava a decollare, la Dei verbum e la Gaudium et spes. Rinchiuso nella chiesa del Primato — così ebbe a confidare al suo segretario molto tempo dopo — prostrato sul duro sasso, attorno a cui è costruita la chiesa, Paolo VI meditò a lungo sulla debolezza di Pietro. Del primo degli apostoli e dell’ultimo che allora, nella grande assemblea del concilio, doveva portare in porto la barca di Cristo che attraversava il mare aperto del Vaticano II.
Mi è tornata in mente questa scena quando Benedetto XVI, con un’incantevole semplicità, ha scritto l’ “enciclica sull’umiltà”, l’ultima grande catechesi che il Papa emerito ci ha lasciato. Il Pontefice si trovava nella piazza San Pietro stracolma di gente, mercoledì 27 febbraio, il giorno prima della fine del suo ministero, termine annunciato da Egli stesso con infallibile precisione. Le cronache davano in arrivo un’enciclica sulla fede, ma che, data l’accelerazione dei tempi, è rimasta negli archivi. Amo pensare che quest’ultimo discorso, insieme ai gesti delle ultime due settimane del pontificato, rappresentino l’enciclica non scritta, appunto quella sull’umiltà. L’ultima catechesi ne è come l’ardente testimonianza e la viva rappresentazione. Senza nessuna enfasi, come ogni altro mercoledì, confidando nella forza della Parola, il Papa con grande delicatezza apriva il suo cuore e rappresentava la viva icona dell’umiltà di chi ha portato un fardello insostenibile, con una fiducia assoluta nel suo Signore.
Sentiamo l’inizio del testo: «Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze».
Nel ricordo retrospettivo emerge con chiarezza la coscienza della sproporzione infinita tra il ministero affidato e la debolezza di chi lo deve portare. È questa l’“enciclica sull’umiltà”, che Benedetto ha scritto con i gesti e le parole degli ultimi giorni. La parola umiltà deriva dal latino humus, “terra”, dove affondiamo le nostre radici. Non c’è nessuna fede che possa essere limpida, trasparente, se non continua a ritornare a queste radici, ad alimentarsi all’acqua e ai sali, contenuti nella terra, per poter crescere rigogliosa. Una pianta deve lavorare in profondità, per espandersi frondosa e verdeggiante, per sostenere la forza dei venti e delle tempeste, per sopportare l’arsura del sole e la calura dell’estate. Così ci appariva in quel limpido mattino del 27 febbraio il volto del Pontefice, pura trasparenza di chi aveva condotto con sapienza e fermezza la barca di Pietro.
Anzi di Cristo.
Infatti, nell’ultima catechesi pubblica, Papa Benedetto sottolineava con grande efficacia: «E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua». Nelle due citazioni sopra riportate, con la perfetta inclusione di «otto anni fa» e di «otto anni dopo», si distende l’arco della “coscienza della debolezza” degli inizi e della “confidenza assoluta” che la barca della Chiesa è del Signore, “è sua, non è mia, non è nostra”! Vorrei contrappuntare le espressioni d’incantevole bellezza che sono contenute in questo testo: «il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante» e insieme «vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario (…) e il Signore sembrava dormire». S’intrecciano nel testo il mattino della creazione con la luce solare e la brezza del vento leggero dove si sente la mano carezzevole di Dio e il turbine tempestoso dei giorni caliginosi dell’intrigo e della sporcizia, dove si deve passare attraverso il varco della passione. Nel flusso della mia memoria le immagini si sovrappongono come in dissolvenza: Paolo VI sulla dura pietra della chiesa del Primato che medita sulla “debolezza” di Pietro che deve condurre in porto il concilio; Benedetto XVI nel caloroso abbraccio ammutolito della folla nella piazza di San Pietro che testimonia che la barca non è sua, non è nostra, ma è di Gesù. E che ci mostra la “forza della debolezza”, quando sia costruita sulla pietra angolare di Cristo.
Qui mi viene alla mente un’espressione folgorante della Prima lettera di Pietro: «Avvicinandovi a Lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (2, 4-5). Osserviamo lo stupendo effetto che si crea con questa espressione. È Pietro che parla — non importa che la lettera sia dell’apostolo o della tradizione petrina, ma l’effetto performativo è lo stesso: l’autore che impersona l’apostolo Pietro ci dice di stringerci a Cristo «pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio». Pietro che è la roccia della Chiesa afferma che essa è l’edificio costruito nell’abbraccio a Cristo, “pietra viva”, nel contrasto tra il “rifiuto degli uomini” e la sua “solidità preziosa” guardata con gli occhi di Dio. È forse l’attestazione più bella di questi anni di pontificato di Benedetto XVI, che nella fatica inesausta del suo ministero, ha voluto dare una luminosa attestazione del volto di Cristo, nei suoi tre volumi su Gesù di Nazaret. Una trilogia inusuale durante un pontificato, quando un Papa, accanto al magistero solenne e ordinario, scrive per così dire in forma testimoniale la sua fede che racconta l’abbraccio a Cristo pietra viva che sorregge la Chiesa e il credente. È bello raccoglierla nella confidente confessione che si trova nell’ultima catechesi del Papa: «Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: “Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…”. Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!». Limpida professione di fede con cui il Papa teologo ci fa gustare la dolcezza della fede dei semplici. Perché a questo serve la grande teologia: a preservare e custodire il roveto ardente della fede semplice della Chiesa. Senza sconti, ma anche senza sovrastrutture.
E continua il testo dell’apostolo: «quali pietre vive siete costruiti (il testo originale dice “edificati”) anche voi come edificio spirituale». La pietra è materiale inerte e amorfo e, quando si cava dalla roccia, ha bisogno di essere sagomata, smussata, incastrata, cementata con altre pietre, per costruire l’edificio che è la grande cattedrale della Chiesa. L’ossimoro “pietre vive” sulla bocca di Pietro, l’apostolo della prima ora (e nella costante ripresa dei successori di Pietro) mantiene viva la coscienza di quanto è dura la fatica per costruire l’edificio spirituale, il sacerdozio santo, capace di offrire sacrifici graditi a Dio. Il Papa non lo nasconde anche nell’ora del commiato, anzi lo lascia e lo lancia come sfida per la Chiesa a venire. Occorre costruire una Chiesa di “pietre vive”, una Chiesa viva, capace di essere generativa, non solo misericordiosa, ma in grado di generare una “speranza viva” che innalzi un edificio tale da divenire polo d’attrazione nella città degli uomini, come sono state le grandi cattedrali che ingemmano l’Occidente cristiano. Anzi il Papa è stato anche generoso nel suo saluto: riconoscendo che non “si è mai sentito solo” e ringraziando con vera magnanimità di cuore e senza infingimenti i suoi collaboratori.
Mi fermo a questo punto del mio scritto pochi minuti prima di mezzogiorno del 13 marzo. Mi chiamano e vedo uscire la seconda fumata nera del primo giorno del conclave, dopo tre scrutini. Sospendo la scrittura del testo attendendo gli eventi. A sera alle 19.06 finalmente la fumata bianca e alle 20.10 l’annuncio che il nuovo vescovo di Roma è Papa Francesco. Sì, il nuovo “Vescovo di Roma”, dice insistentemente il cardinale Bergoglio alla piazza gremita che ha atteso per ore sotto la pioggia. E il Vescovo di Roma, salutando Benedetto XVI, vescovo emerito di Roma, si rivolge alla sua città, e attraverso la singolarità di quella Chiesa dice che ha il compito di favorire la comunione universale delle Chiese diffuse sulla faccia della terra. E non solo delle Chiese, ma di tutti gli uomini. Il momento più emozionante, però, deve ancora venire. Prima di impartire la benedizione alla “sua” città e a “tutto” il mondo, stupefatto dal triplice primato del primo Papa latinoamericano, gesuita e con il nome mai scelto di Francesco, chiede un gesto insolito. Invoca un momento di preghiera (32 secondi contati) perché il suo popolo preghi — in un silenzio veramente impressionante — per invocare la benedizione sul suo nuovo vescovo («vi chiedo che preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la benedizione per il suo vescovo»). Prima di invocare anche lui la benedizione del Signore su quella sterminata folla e sui milioni di persone collegate con gli antichi e nuovi mezzi della comunicazione sociale, Papa Francesco ha detto con la forza del gesto che tutti dobbiamo diventare grembo che accoglie Dio che ci benedice. E che benedice la sua Chiesa per i giorni a venire su tutta la faccia della terra. Il lunedì della settimana precedente sono stato a Roma, perché dovevo essere ricevuto con i vescovi piemontesi da Benedetto XVI nella visita ad limina. Era già Sede vacante e la visita venne sospesa, ma sono andato ugualmente in San Pietro e ho pregato sulle tombe di tre papi, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, nella Basilica, e sulla tomba di Paolo VI nelle Grotte vaticane, chiedendo allo Spirito il dono di un papa che unificasse in un’unica icona le tessere di queste tre figure. Ne è venuto, contro ogni previsione, Papa Francesco!
L'Osservatore Romano, 19 marzo 2013.