giovedì 14 marzo 2013

San Francesco e il Papa


San Francesco e i Papi. Nel sogno di Innocenzo III un uomo sosteneva la basilica del Laterano che stava per crollare


(Timothy Verdon) Nella biografia scritta tra il 1260 e il 1263 da Bonaventura da Bagnoregio e negli affreschi di Assisi attribuiti a Giotto -- «La grazia di Dio, nostro salvatore, in questi ultimi tempi è apparsa nel suo servo Francesco». Queste parole, oggi così attuali, aprono la biografia di Francesco d’Assisi stilata nel 1260-1263 dal francescano Bonaventura di Bagnoregio.
Parafrasano una frase neotestamentaria che allude all’ingresso di Cristo nella storia: «È apparsa (...) la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini e c’insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tito, 2, 11-13). Questa frase è particolarmente familiare ai cristiani perché, dall’epoca paleocristiana fino a oggi, viene proclamata nella liturgia di Natale. Il teologo Bonaventura introduceva Francesco cioè in stretto rapporto a Cristo, identificando la vita del santo con quella del Salvatore nato da Maria. Allo stesso modo il celebre ciclo di affreschi commissionato dall’ordine trent’anni più tardi per la basilica d’Assisi, come già il testo bonaventuriano a cui essi s’ispirano fa vedere la grazia divina “apparsa” nell’uomo ritenuto allora alter Christus: Francesco.
Narrando di Francesco “l’altro Cristo”, gli affreschi di Assisi necessariamente illustrano anche del rapporto del Poverello con i vicari di Cristo che hanno accolto e promosso il suo carisma — un rapporto diretto che si estende dall’anno 1209, quando Francesco chiese a Innocenzo III l’approvazione della Regola, alla canonizzazione del santo per mano di Gregorio ix nel 1228. All’inizio del rapporto Francesco si reca a Roma per inginocchiarsi davanti al Pontefice; alla fine è il Papa a recarsi ad Assisi, dove celebra la messa sulla tomba del Poverello.
La storia di questo rapporto unico si apre con una visione notturna: come spiega Bonaventura, Innocenzo III «aveva visto in sogno come se la basilica del Laterano stesse per crollare e un uomo, poverello, modesto e dimesso, poggiata ad essa la sua spalla, la sosteneva perché non cadesse» (Legenda maior, III, 10).
È la sesta scena del ciclo, e segue quella della Rinuncia degli averi. Ora, in questa scena raffigurante Il sogno d’Innocenzo III, sono trascorsi più di tre anni, in cui Francesco ha fatto varie esperienze, passando da una prima idea di vivere da eremita a quella di andare per il mondo predicando la penitenza; indossa ormai un abito religioso, ha accolto i primi seguaci e ha scritto per loro una regola di vita.
Decide allora di cercare per questo suo progetto l’approvazione del Papa, il quale però temporeggia, vedendo che alcuni cardinali giudicano troppo severo il programma di vita proposto dal santo. Innocenzo III tuttavia non dimentica Francesco, anzi lo vede più volte in sogno. Così, quando lo strano supplicante riesce di nuovo a parlargli, raccontando «la parabola di un ricco re che con gioia aveva sposato una donna bella e povera e ne aveva avuto con lei dei figli che avevano la stessa fisionomia del re, loro padre», Innocenzo ammette d’aver già visto in sogno «che la basilica del Laterano ormai stava per rovinare, e che un uomo poverello, piccolo e di aspetto spregevole lo sosteneva, mettendoci sotto le spalle, perché non cadesse». Giotto, che la tradizione vuole autore degli affreschi di Assisi, fa vedere il Pontefice addormentato nel palazzo lateranense, con due consiglieri ai piedi del letto, mentre, accanto al palazzo, la basilica, pericolosamente inclinata, viene sostenuta da Francesco.
Il testo di Bonaventura e l’affresco di Giotto sintetizzano una serie di complesse realtà storiche, tra cui: il coevo moltiplicarsi di movimenti pauperistici miranti a ricondurre la Chiesa a una semplicità evangelica; il sospetto e l’ostilità che questi suscitavano nella Curia romana; e la straordinaria apertura dell’alto clero a Francesco e ai suoi frati, i quali faranno da mediatori tra la richiesta di riforma del popolo e il conservatorismo dell’istituzione ecclesiastica. Lo sfarzo delle chiese e la magnificenza delle abitazioni prelatizie del periodo erano di fatti notevoli, e lo stesso Innocenzo III fece realizzare decorazioni musive nella vecchia basilica vaticana e un intero nuovo palazzo similmente apud Sanctum Petrum. Così gli sfavillanti decori e le colonne marmoree con cui Giotto impreziosisce il portico di San Giovanni al Laterano e il padiglione del Papa, nell’affresco, alludono al ritrovato splendore di simili strutture romane.
Infatti, all’epoca dell’affresco anche il patriarchio lateranense (allora l’ufficiale residenza dei Papi) era stato ammodernato e arricchito, così che il contrasto sottolineato da Giotto tra “l’uomo poverello” e il lusso degli edifici drammatizzava l’idea di una Chiesa ricca salvata dai poveri di Cristo.
Nella scena seguente poi si vede Innocenzo III che — dopo aver sognato il sostegno che Francesco poteva offrire alla Chiesa — riconsegna al santo la Regola approvata e impartisce al manipolo di frati la sua benedizione. Quanto abbiamo appena detto dello sfarzo della corte pontificia vige anche qui, come suggeriscono i sontuosi tendaggi dell’aula di rappresentanza, al cui lusso si contrappone la stoffa grezza dei sai francescani.
Qui per la prima volta sentiamo la forza dell’identità collettiva dell’ordine. I frati inginocchiati dietro a Francesco sono visibilmente animati da un unico spirito, da un’unica intenzione, anche se l’attenta differenziazione dei loro volti suggerisce l’ampia gamma di personalità e di caratteri tipica di ogni famiglia religiosa. Giotto li mette tutti in atteggiamento di preghiera, così che l’ovvia differenza tra loro e gli alti prelati intorno al Papa non comunica sfida o minaccia ma riverenza; tra questi due gruppi vi è poi un legame tangibile: il foglio su cui è scritta la Regola, che passa dalla mano sinistra del Papa alla destra di Francesco. Con l’approvazione del nuovo progetto di vita da parte del Pontefice massimo, viene colmata la distanza umanamente incolmabile tra le due visioni ecclesiali.
Da queste prime esperienze di Francesco con la corte pontificia, il ciclo salta più di un decennio, riprendendo il filo nel papato del successore di Innocenzo III, Onorio III. Nella diciassettesima scena della Vita Francisci Giotto illustra come «Il beato Francesco predicò davanti al Papa e ai cardinali così devotamente ed efficacemente da apparire chiaramente che egli parlava non con dotte parole di umana sapienza ma per divina ispirazione» (Legenda maior, XII, 7), facendo vedere una grande aula gotica, dalle volte stellate e con costoloni dorati, in cui il Papa e sei cardinali, tutti seduti, ascoltano Francesco che parla loro in piedi, mentre un frate suo compagno siede per terra.
Bonaventura spiega che, sapendo di dover parlare davanti al Pontefice e alla corte papale, il santo aveva imparato a memoria un discorso stilato con ogni cura. «Se non che, quando si trovò là in mezzo, al momento di pronunciare quelle parole edificanti, dimenticò tutto e non riuscì a spiccicare nemmeno una frase. Allora, dopo aver esposto con umiltà e sincerità il suo imbarazzo, si mise a invocare la grazia dello Spirito Santo. Immediatamente le parole incominciarono ad affluire così abbondanti, così efficaci nel commuovere e piegare il cuore di quegli illustri personaggi, da far vedere chiaramente che non era lui a parlare ma lo Spirito del Signore».
Giotto sembra soffermarsi sull’affermazione di Bonaventura che le parole del santo riuscirono a «commuovere e piegare il cuore di quegli illustri personaggi»; l’artista infatti enfatizza una gamma di espressioni nei volti degli ascoltatori che va dallo scetticismo alla sorpresa, dal raccoglimento meditativo all’evidente entusiasmo. Soprattutto il Papa pende da ogni frase pronunciata dal Poverello, il quale indica se stesso con un gesto della mano destra, come per scusarsi di parlare spontaneamente dopo aver preparato (e dimenticato) un discorso formale.
Questa scena va collegata con le immagini dipinte da altri maestri, sulla parete superiore sopra di essa — non tanto con la Risurrezione di Cristo, nel registro mediano, ma con Il battesimo di Gesù sopra questa. Al battesimo del Salvatore, «si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire sopra di lui» (Matteo, 3, 16) — un’esperienza che Gesù poi descriverà con le parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri un lieto annuncio» (Luca, 4, 18: cfr. Isaia, 61, 1-2).
Ecco, qui dobbiamo vedere Francesco, come Cristo, “sotto” lo Spirito di Dio e da Lui inviato «a portare ai poveri un lieto annuncio».
La scena papale più ambiziosa del ciclo è purtroppo danneggiata fino al punto che non si vede più neanche la figura del Pontefice. È la ventiquattresima del ciclo, La canonizzazione di san Francesco, «quando il Papa, venendo di persona nella città di Assisi, esaminati diligentemente i miracoli, dietro testimonianza dei suoi frati, canonizzò il beato Francesco e lo iscrisse nell’albo dei santi» (Legenda maior, XV, 7).
L’universalità del culto di Francesco è il tema di quest’ultima scena tratta dalla Legenda maior, dove Giotto raffigura la cerimonia in cui Papa Gregorio ix canonizzò il Poverello ad Assisi domenica 16 luglio 1228. Nello stesso giorno il Pontefice posò la prima pietra della basilica inferiore destinata ad accogliere il “sacro corpo”, allora riposto in un’altra chiesa assisiate.
Come già accennato, gravi danni hanno cancellato la figura del Papa, che stava presumibilmente nel palco riccamente addobbato verso cui molti degli astanti rivolgono lo sguardo. Davanti al palco vi è un altare recintato da una balaustra con dei ceri, e infatti la cerimonia preludeva a una messa celebrata da Gregorio ix in persona.
Bonaventura, consapevole del rischio di una canonizzazione a così poco tempo dal decesso del candidato, sottolinea che Gregorio ix aveva affidato la valutazione della vita e dei miracoli di Francesco «a quelli tra i cardinali che sembravano meno favorevoli», i quali però approvarono all’unanimità la proposta di elevare il Poverello d’Assisi al catalogo dei santi. Una delle funzioni di questa scena infatti è di sigillare il culto di Francesco con la massima autorità della Chiesa.
Il testo bonaventuriano, d’indole teologica, non offre dettagli sul rito di canonizzazione, parlando solo di «solennità grandissime, che sarebbe lungo narrare». Ma un precedente biografo del santo, Tommaso da Celano — nella sua Vita Prima stilata pochi mesi dopo l’evento, a cui l’autore era anche stato presente — vi dedica più pagine, che l’affresco di Giotto riassume. Secondo Celano, il 16 luglio «vescovi, abati e prelati accorrono e si riuniscono, giungendo dalle regioni più lontane della terra; è presente anche un re e grande moltitudine di conti e magnati (...) Domina al centro il sommo Pontefice (...) con la corona sul capo in segno di gloria e di santità. Adorno delle infule papali e dei paramenti sacri allacciati con fibbie d’oro scintillanti di pietre preziose, l’Unto del Signore appare nello splendore della sua gloria» (nn. 124-125).
Il Papa parla di Francesco e si commuove fino alle lacrime; vengono letti i miracoli del santo e il Papa versa nuove lacrime e così gli altri prelati presenti; poi, «con le mani levate verso il cielo, il beato Pontefice con voce tonante grida le parole di canonizzazione, e poi insieme ai cardinali intona il Te Deum. La folla risponde cantando in coro le lodi del Signore. La terra echeggia di voci immense, l’aria si riempie di inni di gloria, il suolo si bagna di lacrime», e alla fine Gregorio ix scende all’altare «e bacia con gioioso trasporto la tomba del santo», sistemato, si presume, sotto la mensa su cui il Papa celebra la messa.
L'Osservatore Romano 15 marzo 2013