domenica 23 giugno 2013

Chime for change?



In questi giorni la tv trasmette lo spot di “Chime For Change”, fondazione patrocinata dal noto marchio di moda Gucci e impegnata per lo sviluppo e la tutela delle donne, in ogni parte del mondo. Bellissime del cinema e della musica hanno prestato volto e voce come testimonial delle iniziative promosse dalla fondazione, si spera non a scopo di lucro: Salma Hayek, Beyoncè e tante altre raccontano alla telecamera che sì, le donne sono forti, hanno una voce che va ascoltata e possono farcela persino «a diventare Presidente degli Stati Uniti», ma devono essere protette e aiutate, riconoscendo loro dignità, libertà, istruzione e salute. 
Tanto di cappello all'iniziativa, specie se queste Very Important signore hanno devoluto a scopo benefico il loro compenso per aver girato lo spot; ma, a guardar bene, la retorica trionfa ancora, se pensiamo alla misura sicuramente spropositata di tale compenso che, probabilmente, una donna “normale” guadagna sì e no in un anno. Forse, alle donne che lavorano ogni giorno poco interessa che quelle attrici dicano loro che è possibile farcela, perché – a ben vedere – ce la fanno già da sole ogni giorno, con o senza mariti accanto, con uno, due o tanti figli a carico e mille e uno problemi da risolvere. 
Quando sentiamo, poi, che il programma della fondazione è “Giustizia, educazione e salute per ogni donna e ragazza” ci si drizzano le orecchie perché – se sulle prime due si può essere d'accordo – quando si tratta di salute femminile e materna si rischia spesso di parlare lingue ben diverse.
Andando, infatti, sul sito di “Chime For Change”, si scopre che tutto è frutto di una collaborazione di Gucci con le varie agenzie ONU in difesa dei diritti femminili e dei bambini: chi ha a mente l'agenda delle Nazioni Unite sull'educazione (pornografica) sessuale dei bambini, sull'accessibilità all'aborto per le minorenni e sulla distribuzione dell'RU486, intuisce già che “diritti riproduttivi” fanno spesso rima con pianificazione familiare e contraccezione.
E così ci si chiede se, anche questa volta, due più due farà di nuovo quattro. “Chime for Change” si autodefinisce come una «catapulta globale» per le iniziative di tante Ong. Una sorta – cioè – di piattaforma per la pubblicizzazione e la raccolta fondi a favore dei progetti in cantiere, in ogni angolo del mondo, per la promozione dell'istruzione femminile nel Malawi, per la lotta ai matrimoni di bambine in India, contro le mutilazioni tribali dei genitali femminili in Africa, contro la mortalità neonatale e materna nei Paesi in via di sviluppo, per fermare il traffico di bambine a scopo di prostituzione in America Centrale o la violenza domestica a Lima.
Progetti ben strutturati, come l'accesso al microcredito in alcune zone dell'Africa per donne artigiane, o come la ricostruzione di alcune scuole ad Haiti; altri davvero lungimiranti come la formazione di una futura generazione di donne leader dell'economia e della politica, in collaborazione con l'Onu. A un rapido calcolo, le iniziative presentate da “Chime for Change” risultano essere più di una cinquantina e, forse, si rischia la dispersione delle energie e dei fondi.
Accanto a tanto buon cuore e impegno, ci si imbatte presto in ben noti equivoci, specialmente riguardo alla tutela della salute femminile: ecco, infatti, l'abbondante pagina dedicata alla diffusione di programmi di pianificazione familiare non naturale, alla diffusione di contraccettivi e metodi abortivi. Ecco che la priorità diventa l'educazione sessuale delle ragazze, per spiegare loro come non si rimane incinta, e la consapevolezza raggiunta da ogni donna che del proprio corpo può disporre, anche a discapito del figlio che porta in grembo. Ecco, quindi, tutti i neologismi mutuati dai Millennium Development Goals delle Nazioni Unite in tema di “aborto terapeutico” e “diritti riproduttivi”.
Cliccando su un progetto qualsiasi, non si hanno più dubbi sull'ideologia partigiana del tutto: in Guatemala – leggiamo nella presentazione – molte donne hanno anche sei o sette figli, alcuni dei quali non voluti, proprio perché non hanno accesso ai contraccettivi. Addirittura «ci sono prove evidenti che mettono in relazione il numero di figli con la salute della famiglia, ecco perché controllare il numero di gravidanze per ogni donna riduce le malattie e può migliorare il suo futuro».
Nessuno ci spiega però, perché non si sceglie di introdurre metodi naturali di controllo delle nascite, educando alla monogamia e alla fedeltà, perché non si cerca di garantire la salute attraverso l'educazione bensì, solo attraverso la contraccezione. Il progetto, in definitiva, «si impegna a informare i giovani sull'uso dei contraccettivi così che essi possano posticipare le loro gravidanze».
Col beneficio del dubbio – non saranno tutti così, questi progetti, vero? – ne approfondiamo un secondo, supportato, neanche a dirlo, dalla “Marie Stopes International”, nota catena di cliniche abortiste. Partendo dal dato che, in Papua Nuova Guinea, per ogni 231 nascite una donna muore durante il parto, la soluzione pare essere quella di ridurre il numero di nuovi nati «assicurando e incrementando l'accesso ai diritti riproduttivi di ogni donna», che la “Stopes International” intende promuovere assieme al family planning.
La lista dei partner è lunga e variopinta, ma ricorrono sempre i soliti noti come il “Global Fund for Women” il cui più grande successo – apprendiamo sul sito – «è quello di aver compiuto grandi sforzi per la legalizzazione dell'aborto nel Messico e aver costituito i primi gruppi di outing per lesbiche in Cina, Libano, India e Turchia»; o come “Path” e “Women Deliver”, entrambi forti sostenitori del 5° MDGoals dell'ONU su aborto e sterilizzazione femminile.
Quella di “Chime for Change” è chiaramente l'intenzione di fare rete, creare consapevolezza e dare visibilità ai molti (alcuni validissimi) progetti per lo sviluppo della donna, ma, in definitiva, ciò che emerge a un occhio attento, è il delinearsi di una fittissima trama di Ong, fondazioni e gruppi internazionali che spingono politica ed economia globale contro la vita e contro la maternità. Passa così, nella vulgata, il concetto che curare (con il c.d. aborto terapeutico) è meglio che prevenire (con l'educazione la consapevolezza), che di fronte alla vita nascente si può scegliere, che la propria identità sessuale si decide, che la mortalità materna si diminuisce non aiutando le madri, ma evitando che una donna lo diventi.
Ancora una volta, dunque, due più due fa quattro.
D.Fontana