venerdì 21 giugno 2013

Il contadino Isidoro ci spiega come superare la crisi economica


Augusto Del Noce parlava di “eterogenesi dei fini”. Quando si percorre la strada di un errore si finisce inevitabilmente col raggiungere risultati paradossali, cioè completamente diversi da quelli che si vogliono ottenere. È la legge dell’errore. La Bibbia ce lo dice sin dall’inizio. Adamo ed Eva peccarono per essere “liberi”, per essere completamente svincolati da Dio, per fare a meno di Dio nell’illusione di poter raggiungere una completa autosufficienza, cioè una sorta di auto-divinizzazione.
Ebbene, non solo non riuscirono in questo intento, ma si trovarono a dover riconoscere dolorosamente il proprio limite e la propria precarietà. Si ritrovarono “nudi”. Non nudi nel senso fisico ma in quello ontologico. Il limite umano che prima non pesava loro e che nemmeno Dio faceva pesare loro, dopo il peccato diventa enorme, insopportabile: addirittura fa paura. È la legge dell’errore.
Una legge – quella dell’errore – che ovviamente si spiega con l’ordine che Dio ha inserito nella natura. Se s’infrange l’ordine, si ottiene il disordine e, se si ottiene il disordine, si realizza il paradosso. Un paradosso che la Provvidenza eleva ad insegnamento. Non è un caso che già la sapienza antica (quella sapienza che ancora viveva in una dimensione di ignoranza perché precedente al Cristianesimo, ma che si fondava su una recta ratio) parlava della storia come una buona “cattedra” da cui apprendere. La storia come magistra vitae, come maestra di vita, come serie non casuale di avvenimenti, bensì come itinerario significativo di fatti da cui apprendere. Perché, se molto sfugge alla comprensione storica, è pur vero che ciò che accade, che gli sbagli commessi ricevono inevitabilmente un castigo, come ovviamente ricevono un premio tutte le buone cose che le civiltà compiono.
C’è chi giustamente ha detto che mentre i singoli uomini, perché orientati verso la vita ultraterrena, hanno l’eternità per essere premiati o castigati; per le civiltà invece è diverso. Esse vivono solo nella storia e, vivendo solo nella dimensione temporale, ricevono i loro premi e i loro castighi nella storia stessa. Se socialmente si sceglie l’errore, se si diffonde il peccato sociale, la civiltà, compromessa dal peccato, finirà col pagare nel tempo e nella storia.
Queste riflessioni le lego alla vita di un grande-piccolo santo. I miei lettori spero mi stiano capendo. Con “grande-piccolo” intendo un santo che non è molto conosciuto (almeno qui in Italia), ma che è grande, come d’altronde sono grandi tutti i santi che la Chiesa ci offre, fermo restando la differenza di lumen gloriae che comunque essi beneficiano in Paradiso. Il “piccolo-grande” santo che mi viene in mente dicendo le cose da cui sono partito, è lo spagnolo sant’Isidoro contadino. Narro in breve la sua storia e poi capirete il legame.
Isidoro nasce intorno al 1070 da una poverissima famiglia di contadini. Orfano del padre fin da piccolo, va a lavorare la terra nelle campagne intorno a Madrid. A causa della guerra, cerca rifugio e lavoro a nord, a Torrelaguna. Qui conosce la sua futura sposa, Maria Toribia, anch’ella contadina. Isidoro ha una grande fede. È analfabeta ma conosce le cose di Dio e sa pregare. Ogni mattina, all’alba, va alla Messa. Ma soprattutto durante la giornata, mentre è al lavoro, spesso si apparta per raccogliersi in preghiera. I suo compagni di lavoro lo accusano di essere una scansafatiche. Anche il padrone, Juan de Vargas, inizia a sospettare di lui, ma poi si accorge che alla sera il lavoro di Isidoro è bello che compiuto. Alla fine si convince che qualcosa di misterioso aiuta Isidoro nel suo lavoro. Iniziano ad avvenire anche miracoli nelle sue proprietà. Ben presto Isidoro diventa il suo uomo di fiducia e inizia a guadagnare di più, ma lui e la moglie (dichiarata beata nel XVIII secolo) decidono di continuare a vivere come sempre e il di più lo donano ai poveri. Isidoro muore nel 1130. Alla sua morte la sua fama era pari a quella di El Cid Campeador. Fu canonizzato da Papa Gregorio XV il 25 maggio del 1622.
Il segreto del “benessere”
Torniamo ai nostri ragionamenti. Cosa colpisce di ciò che abbiamo letto? Ovviamente il fatto che sant’Isidoro ogni tanto interrompeva il lavoro per raccogliersi in preghiera. Veniva accusato perché, secondo una logica tipicamente umana, per raccogliersi in preghiera occorre del tempo e questo tempo ovviamente veniva tolto al lavoro, con la preoccupazione che quello che non fosse riuscito a fare lui sarebbe stato sulle spalle di altri. E invece, a fine giornata, ciò che riusciva a mietere sant’Isidoro era molto più abbondante di ciò che erano riusciti a mietere gli altri.
Mi viene da pensare all’attuale crisi economica, reale o sedicente (a volte mi viene la tentazione di pensarlo, ma adesso questa questione non ci interessa): da quando gli uomini hanno iniziato a pensare che i soldi sono tutto, non ci sono più soldi. Tutti si lamentano. Lamenti che molto spesso sono un’offesa all’intelligenza. Io che ho da poco passato i cinquant’anni mi ricordo molto bene (se non altro perché ne parlavano sempre) i sacrifici che hanno dovuto fare i miei nonni e i mie genitori in tempi in cui sperare a pranzo di avere la cena qualche ora dopo e a cena di avere la colazione la mattina seguente era preoccupazione tutt’altro che rara. Qui non si tratta di demonizzare pauperisticamente il denaro né di negare ingenuamente che anche in passato ci fosse chi avidamente rincorreva, costi quel che costi, ricchezze e patrimoni.
No, non si tratta di questo. Piuttosto nella nostra epoca in cui è stato fatto fuori Dio con un diffuso ateismo pratico per cui, anche se non si afferma teoricamente che Dio non esiste, si vive come se Dio non esistesse, giocoforza il denaro diventa tutto perché la vita terrena diventa il tutto. Il non potersi permettere le vacanze ai tropici o il cellulare di ultima generazione, diventa il segno di una vita che perderebbe di dignità. Non a caso molte persone che oggi si lamentano della crisi economica parlano del fatto che è una situazione che “toglie la dignità”. O disgraziati che si suicidano per questi motivi lasciano biglietti con su scritto: “non si può vivere senza dignità”. Come se non avere soldi o essere perfino costretti a mendicare fossero cose che tolgano la dignità.
Ecco il paradosso. L’uomo contemporaneo può anche trovarsi nelle condizioni di non avere soldi, ma considera i soldi come il tutto della vita. Da qui il castigo. Sì: il castigo! Avete capito bene, cari lettori. Anche la crisi economica può essere un castigo. Un castigo per far capire all’uomo che non può ridurre se stesso a consumatore o a accumulatore, che non può farsi prendere dall’ansia di produrre senza pensare a se stesso e raccogliersi in Dio per capire il mistero di se stesso. Finanche la Domenica ci hanno tolto. I centri commerciali hanno sostituito le parrocchie. Anche qui una riflessione: centri commerciali aperti sette giorni su sette, ma vendite in crisi. Prima: sei giorni su sette e vendite non in crisi.
Sant’Isidoro non la pensava così. Non era laureato alla Bocconi. Non aveva frequentato la London School of Economics. Non frequentava i salotti buoni dell’economia… Ma aveva capito bene quale fosse la vera legge del lavoro: farsi aiutare da Dio, mettere Dio al primo posto, dare credito non a un consulente finanziario ma solo a Colui che ha detto: «Cercate prima di tutto il regno di Dio, il resto vi sarà dato in aggiunta».
Fonte: www.ilgiudiziocattolico.com

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Crisi economica: magnifica opportunità?


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Chi potrebbe  definire una magnifica opportunità questa crisi economica apparentemente irrisolvibile? Un rompicapo, un paradosso, dove neanche i migliori economisti, che si fregiano di lauree e anni di docenza nelle più prestigiose università di economia, riescono non dico a mettere un po’ d’ordine, ma neanche a far intravvedere un futuro, una uscita dal tunnel.
Abbarbicati su grafici, definizioni, correlazioni pseudo-matematiche e molto stocastiche, fra spread, CDO e CDS, sembrano moderni alchimisti che parlano una lingua che nessuno o quasi capisce, ma alla fine non riescono a trovare nessun bandolo della matassa, nessuna soluzione, nessun coniglio fuori dal cilindro.
 
Questa crisi economica che, a pensarci bene, è tutta un paradosso: con la tecnologia agli apici, nella storia dell’umanità, con i processi industriali e l’automazione a livelli mai visti prima, con i progressi nella scienza, nella medicina, nell’informatica, dovremmo essere nel migliore dei mondi possibili. E invece negozi con scaffali pieni di merci invendute, e contemporaneamente una povertà sempre più dilagante, una disoccupazione sempre più diffusa, destinata ad aumentare ancora. E aziende che chiudono, cessano le partite IVA, e chi ha un lavoro nel pubblico impiego, se solo fino a qualche anno fa si sentiva quasi di serie B, ora se lo tiene ben stretto, felice di appartenere (ancora per quanto?) ad una specie protetta. Per non fare il confronto con i nostri genitori: infatti la generazione che ci ha preceduto riusciva a mettere da parte qualcosa, e a comprare casa con un solo lavoratore per famiglia, qui se non si lavora in due si fatica ad arrivare a fine mese.
 
Ma noi cristiani siamo quelli del paradosso. Fin dall’inizio, seguaci di un Uno che viene messo a morte con il più infamante dei supplizi, segno di una totale disfatta del progetto di Dio, se letta con i parametri umani. Noi siamo fatti così. Possiamo dire che noi possediamo una chiave di lettura diversa. Con quali lenti guardare allora la crisi di questi tempi? Perchè definirla una magnifica opportunità? Certo, se fossimo calvinisti, solo il successo negli affari ci potrebbe confermare l’Amore e la predilezione di Dio per noi: ma non lo siamo, siamo cattolici, ben consci che l’Amore e la predilezione di Dio non hanno risparmiato il supplizio all’amatissimo Figlio ma neanche sofferenze e persecuzione a tanti santi, a riprova che “non sempre” (eufemisticamente) i disegni le aspirazioni e la visione di Dio coincidono con i nostri. Non voglio qui sostenere la tesi che spesso si sente dire: che l’oro si tempra col fuoco, e che la sofferenza è un segno evidente di predilezione (Dio corregge chi ama): credo invece che questa crisi sia una vera e propria opportunità di cambiamento, di risveglio, di presa di coscienza che stanno diventando ormai improcrastinabili.
 
John Perkins, autore del famoso “Confessioni di un sicario dell’economia”, chiese ad una conferenza: “quale fatto grave successe l’11 settembre 2001?” e il pubblico, ovviamente, rispose che c’era stato l’attacco alle torri gemelle, quello cha causò la morte di 2.500 persone all’interno delle twin towers. Allora lui insistette: “No, qualcosa di molto più grave!” E di fronte alla titubanza del pubblico, disse: “L’11 Settembre 2001 sono morte 30.000 persone di fame, nel mondo. E anche il 12, il 13, il 14 settembre…”.Touchè.
È evidente che troppo spesso ci concentriamo sui nostri problemi, piccoli, contingenti, a volte passeggeri, e non riusciamo ad innalzare lo sguardo. Come possiamo preoccuparci della crisi di un sistema economico che permette (anzi costringe) che 30.000 persone muoiano ogni giorno per la fame? Che gli stati, soprattutto quelli del terzo mondo ma non solo, siano sopraffatti da debiti impagabili sempre maggiori, e le tasse che si pagano vadano quasi esclusivamente  pagare gli interessi su questi debiti? Dobbiamo proprio disperarci, e combattere per mantenere lo status quo, lottare per non far morire un sistema che si fregia delle proprie conquiste tecnologiche, ma non sa come smettere di sporcare e inquinare il pianeta, e lascerà in eredità ai propri figli un modo più sporco, più inquinato, più velenoso? Come possiamo insomma farci portabandiera di questo sistema ed essere tristi se questo modello di società è in crisi?
 
Forse, a forza di guardare nel nostro piccolo orticello, in cerca di qualche verme da mangiare, abbiamo dimenticato le sconfinate praterie del cielo che Dio ci ha destinato. Ecco allora, nell’infinita intelligenza di Dio, una opportunità magnifica: una sberla, una secchiata d’acqua fredda in faccia, qualcosa che, insomma, anche a costo di farci un po’ male (San Paolo sulla via di Damasco era rimasto cieco, mica una robetta da niente… però quanto avrà benedetto e ringraziato, col senno di poi, per quello schiaffo?) ci riporti a ripensare alla nostra vita, alle nostre priorità, ai valori veri. E a riscoprire la solidarietà, tanto per cominciare; e passando di atto in atto, di piccolo gesto in piccolo gesto, a rigettare le basi per una società basata sulla condivisione al posto della competizione; sulla collaborazione piuttosto che sulla divisione; sulla compassione per gli altri piuttosto che l’attenzione per sè stessi.
 
Perchè, in fin dei conti, la vera scoperta che dobbiamo fare, è che siamo tutti uno, e non esiste il bene individuale: il bene o è condiviso, comune, universale, o, semplicemente, non è.
 
 
Alberto Medici   ingannati.it