lunedì 3 marzo 2014

Questo è tempo di Dio. Che aspettiamo?



Di seguito il testo dell'omelia pronunciata da mons. Alberto Tanasini(*) nella cattedrale di Chiavari in occasione del funerale della scrittrice e poetessa Elena Bono. Per testi e commenti sulla sua opera vedi articoli infra.

*

A Sua Eminenza il Card. Velasio De Paolis, nativo come Elena di Sonnino, agli eccellentissimi Mons. A.M. Careggio e Mons. Giulio Sanguineti, ai signori Sindaci e alle Autorità, a tutti voi, cari amici presenti il mio saluto e il mio ringraziamento per avere voluto essere partecipi di questa celebrazione con la quale accompagniamo Elena Bono a quella Casa del Padre alla quale ha indirizzato tutta la sua vita.
Assieme rinnoviamo le condoglianze ai suoi familiari, ma ritengo che con la nostra presenza orante, ricca di affetti e ricordi vogliamo affermare il grande valore di questa figura di donna, di letterata, di combattente, di credente (il grande valore, dicevo) per la comunità ecclesiale e per quella civile, per Chiavari e ben oltre i confini di Chiavari; vogliamo finalmente rompere quell’incomprensibile silenzio che ha avvolto una voce così alta; 
silenzio da lei accettato pur nella consapevolezza di avere molto da dire agli uomini nella forma dell’arte, servizio alla bellezza; 
silenzio che l’ha seguita fino alla corsia di ospedale dove si è spenta l’altra sera.
Leggo una breve lettera che Elena volle indirizzarmi il 31 dicembre scorso: “Caro mons. Vescovo, ho ricevuto dalle mani del carissimo mons. Isetti lo scapolare francescano con il quale mi presenterò a Dio quando mi chiamerà, giacché il nostro patrono San Francesco fu colui che venne abbracciato  da Gesù Crocifisso, che staccò un braccio dalla croce per stringere a sé Francesco, “alter Cristus”. Cara Eccellenza, mi tenga presente nella S. Messa quotidiana. Anch’io La ricordo nelle mie povere preghiere. Elena Bono”.
Scrive di un gesto all’apparenza semplice ma per lei causa di gioia tanto grande da volerla condividere con il suo Vescovo, perché gesto che porta al cuore della spiritualità di Elena Bono. Spiritualità Francescana. 
Come si gloriava di essere “terziaria” dell’Ordine di San Francesco! Lo fa ben sentire in un’altra lettera scritta alla sorella Leonella, che volle inviare anche a me “ …Tu francescana terziaria, io francescana terziaria, papà e mamma francescani terziari anche loro ….” e lo ha ripetuto anche nell’intervista pubblicata dall’Osservatore Romano, proprio la mattina del giorno in cui, al tramonto il Signore l’avrebbe chiamata a sé. 
Francescana nella semplicità del nascondimento (dice: “quando sento dire “autore, autore”, lo ripeto cento volte: io sono solo un amanuense”), ma anche francescana nel ricercare il volto dell’uomo, i suoi sentimenti, e francescana nel cantare la bellezza della vita sulle orme del primo, santo, poeta italiano. 
Francescana soprattutto nell’amore appassionato per Cristo. Non è senza significato che nella sua lettera Elena parli di Cristo crocifisso che si stacca dalla croce per abbracciare Francesco: tutta l’ espressione poetica di Elena è segnata dalla Passione di Cristo Gesù. 
In quella figura del Cristo coronato di spine e flagellato che senza parlare passa davanti alla “moglie del procuratore”, Elena adombra una visione che passa sotto i suoi stessi occhi e la segna, la tormenta, la affascina con la sua carica di amore sofferente. 
Deve esprimerla nella poesia, deve ricostruirla nel romanzo, deve farne oggetto di contemplazione mistica. 
Ma anche quando canta la sofferenza dell’uomo, quando tratta di temi civili come le figure della Resistenza, a lei tanto care, Elena vede riprodursi nell’uomo la Passione di Cristo che dà la vita per i fratelli; nello stesso tempo vede rinnovarsi la morte di Adamo.
Abbiamo ascoltato la Sacra Scrittura: il grido di Giobbe, uomo sofferente che afferma la certa speranza: “Il mio Redentore è vivo. Io vedrò Dio. Io stesso lo vedrò”. Poi l’affermazione di fede di Paolo: “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita”.
Infine la crocefissione raccontata dal Vangelo di Giovanni, con Maria e le donne sotto la Croce di Gesù.
Penso Elena a lungo sotto la Croce, la leggo meditare sulla morte di Adamo, anzi scriverne come “sotto dettatura”. Così ella racconta di Adamo ormai adagiato sulla fredda terra: “… e in mezzo alle tenebre ecco gli apparvero i rami dell’albero caldi di sole; allora qualcosa si agitò in lui come un impulso a salire e posarsi sui rami”. L’albero della croce, l’albero della vita: “così in Cristo tutti riceveranno la vita”.
Tutti gli eventi umani, quanti la vasta cultura e il desiderio di sapere le hanno fatto conoscere, passano sotto la Croce e da lì sono valutati, perché, come lei stessa diceva in una intervista, non solo c’è la vita eterna, ma tutta la vita è eterna.
Accogliendo i doni che Elena ci ha fatto e ci lascia in eredità, ascoltiamo proprio nella luce della vita così compresa, con tutto il suo valore, ascoltiamo un suo canto: è esortazione che sento molto attuale, per tutti, specie per i giovani che Elena ha tanto amato, nella scuola, nei campi di battaglia per la libertà, nelle stanze accoglienti della sua casa:
Finite di piangere su di voi e sopra i morti.
Finite di ballare sulle tombe.
Non vi accorgete che a noi è chiesto più
che ai figli di ogni altro tempo?
Ora bisogna ricreare il mondo
in ciascuno di noi
o finiremo.
Ricordarci la nostra somiglianza con Dio
e indurre Dio a ricordarla.
Ora bisogna avere tanta forza
da imporre al cuore la speranza,
amore più che umano agli umani,
volontà di vita per tutti.
Non è tempo di lutti
né di follie.
Questo è tempo di Dio.
Che aspettiamo?
Quale segno? Quale miracolo?
Eppure abbiamo visto crocefisso
in migliaia di corpi
Gesù Cristo.
(Da “Poesie – Opera omnia”)
Il 16 Gennaio scorso Elena ha inviato questa poesia, “Il tempo di Dio”, al Papa Francesco quale espressione significativa della sua opera che ha voluto cantare tanti martiri della fede e della libertà. 
Noi l’abbiamo letta quale invito ad affrontare anche il tempo nel quale Elena ci lascia, il nostro tempo, con speranza, a “ricreare il mondo in ciascuno di noi” perché è “tempo di Dio”.
* Vescovo di Chiavari

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«Il bene è la scelta difficile»
di Stefania Venturino
Il 26 febbraio scorso è morta a Lavagna Elena Bono, la più grande scrittrice e poetessa italiana della seconda metà del XX secolo. Emarginata dall'editoria per la sua fede cattolica. Ora vi proponiamo la testimonianza di chi le è vissuto accanto per molti anni, fino alla morte, prima come semplice amica poi come press agent.
Ho conosciuto Elena Bono negli anni ’90, quando scrivevo come cronista nella redazione genovese de “Il Giornale” e fui incaricata di intervistarla. Il primo incontro – per la verità per me folgorante - fu solo telefonico, ma ne seguirono molti altri, di persona, e con gli anni il nostro rapporto crebbe e si trasformò via via in un vero e proprio sodalizio umano e professionale.

Elena Bono, nata a Sonnino nel 1921, ha vissuto a Chiavari fin dalla sua adolescenza, dove il padre, Francesco Bono, illustre grecista e latinista, era preside del Liceo Classico. Fu durante il periodo di sfollamento della famiglia a Bertigaro, nell’entroterra ligure, che Elena incontrò colui che nel 1959 sarebbe diventato suo marito, Gian Maria Mazzini, discendente di Giuseppe Mazzini,  morto nel 2009. E fu proprio quel periodo che segnò profondamente la vita e l’intera opera letteraria di Elena Bono, che decise di diventare staffetta partigiana operando nella sesta zona operativa, sotto il comando di Aldo Gastaldi “Bisagno” (Medaglia d’Oro al valor militare).

Dopo l’8 Settembre ‘43 ella comprese l’importanza e l’urgenza di fare la sua scelta, di assumersi la sua parte di responsabilità nella storia che stava vivendo, scegliendo di lottare per la libertà. “O libertà o schiavitù”, ripeteva spesso ricordando quei momenti cruciali, e invitando specialmente i giovani a riflettere: “Il problema è quello della scelta. Il bene è la scelta difficile”.

Impossibilitata a scrivere per i postumi di un ictus e a seguito di una progressiva perdita della vista, per molti anni ancora Elena Bono ha continuato a creare nuove opere, fino a due anni prima di morire, dettando tutto a delle sue collaboratrici. Mai si lamentava della sua malattia, persino dopo che era costretta sempre a letto. “Durante il giorno – diceva – o prego o ripasso” – segno che la sua mente era sempre al lavoro, sempre presente e partecipe delle vicende del tempo, che seguiva attraverso la radio e la televisione, ma soprattutto con l’intelligenza della fede. La incontravo ormai da molti anni ogni settimana e per me era sempre un evento quasi celebrativo, mai scontato o ripetitivo, consapevole come ero di avere avuto il “privilegio”, e la responsabilità, di trovarmi di fronte ad una persona di raro talento letterario e di straordinaria cultura; soprattutto una donna che, fino all’ultimo, ha lottato per testimoniare il valore e la dignità della vita anche nel letto della malattia e della vecchiaia, riattualizzando quotidianamente il suo impegno e la sua ricerca di senso, confrontandosi con Colui che, di questo senso, ne è l’incarnazione assoluta ed eterna: Gesù Cristo e il Suo Vangelo.

Dall’ascolto della Sacra Scrittura, e dalla frequentazione quotidiana alla Santa Messa, che ha praticato per la gran parte della sua vita (negli anni della malattia riceveva spesso l’Eucaristia a casa),  Elena Bono ha imparato ed effettivamente ha conosciuto il valore sacro della Parola, facendo del recupero della sacralità della Parola una missione imprescindibile, come cristiana e come poeta. “Il vostro parlare sia sì sì, no no”: citava spesso questa esortazione di  Gesù nel Vangelo. E pur affermando di aver sempre scritto “sotto una strana dettatura”, rispondendo con la poesia alla chiamata di amore di Cristo, la ricerca stilistica e linguistica è sempre stata per la Bono una impresa difficile ed estenuante, nella volontà di dover essere assolutamente fedele all’ispirazione ricevuta, senza nulla aggiungere di suo, per suo compiacimento o vanagloria.

“Nella poesia è come nella scultura – diceva: non si tratta tanto di aggiungere quanto di togliere parole”. E portava l’esempio del grande e da lei amatissimo Michelangelo, spiegando che come in un blocco di marmo è già presente la forma che lo scultore dovrà saper tirare fuori, così è con le parole: occorre trovare quelle giuste e necessarie, non una di più non una di meno. 
Nonostante la malattia, che ne limitò sempre più pesantemente l’autonomia, Elena Bono è sempre rimasta la coraggiosa ragazza della Resistenza: dopo la morte di tanti suoi compagni di scuola, caduti per la libertà, ha continuato per loro ed in loro memoria a combattere, scrivendo memorabili poesie (è stata definita “poetessa della Resistenza”) e soprattutto la trilogia nota come “Uomo e Superuomo”, che racconta la guerra vista dalla parte dei tedeschi (la complessa stesura narrativa, che ha l’estensione di un gande romanzo classico, è raccontata da Fanuel Nuti, personaggio narratore e traduttore di un diario di un soldato tedesco da lui ritrovato, personaggio quindi che si pone dentro e fuori la lunga storia narrata, che abbraccia un ventennio, dal 1921 al 1940).

Il grande comandante “Bisagno” (giovane uomo di fede limpida e decisa, cui venne attribuito il titolo di “primo partigiano d’Italia”), ma anche Giannotto Bado, Cesare Crosa di Vergagni, Gianpaolo Grosso, Cesare Talassano: tutti i loro ritratti, piccoli, incorniciati, appesi nella sua camera da letto, sono sempre stati con lei, più vivi che mai nel suo cuore e resi immortali in tante sue poesie del cosiddetto filone resistenziale, prima fra tutte “Vengono i giorni”. Elena Bono ha scritto in modo particolare pensando ai giovani: li ha sempre amati, e loro l’hanno sempre capito, ricambiandola.

L’invito e l’esempio che Elena Bono ci lascia è quello di guardarsi dentro per sconfiggere il male che si annida innanzitutto in noi, comprendere quale sia la nostra responsabilità e la nostra parte nella storia, prendersi ognuno sulle spalle il peso che gli tocca e costruire, edificare la propria coscienza e la civiltà del proprio tempo, cercando sempre il Bene e la Verità che soli conducono alla vera libertà. Incurante dell’età e della malattia, Elena ha continuato sempre ad essere una combattente. Con la forza della fede che nasce dalla riconoscenza della scoperta dell’amore di Dio, nel segno della Croce, Elena Bono ha resistito con fierezza, pazienza e spirito di sopportazione rari contro ogni tentazione di nichilismo e di scoraggiamento, per affermare e testimoniare la dignità e il valore dell’esistenza e di ogni persona, senza mai giudicare ma con gli occhi dell’anima sempre bene aperti : “Tutto era così semplice / chiudere gli occhi e guardare” – dice in uno dei suoi versi più celebrati, scritti proprio all’indomani dell’8 Settembre.

Non si lamentava mai, o quasi, del proprio stato di salute, attenta come era a verificare in ogni momento quanto la sua vita fosse o meno in sintonia con la Volontà divina, disposta a patire in espiazione dei suoi e degli altrui peccati: “La cosa importante, alla fin fine, è salvarsi l’anima” – ripeteva.  Fino a non molto tempo fa, quando ancora riusciva a stare seduta in poltrona, riceveva a casa amici, studiosi, studenti, estimatori, giornalisti, artisti interessati a conoscerla perché appassionati della sua opera. E tutti si sono sempre sentiti bene accolti, altrettanto considerati e stimati. Spesso le opere letterarie e artistiche, quanto più sono grandi, tanto più superano in grandezza i loro stessi autori; ma nel caso della Bono non era così e chi la incontrava ne conservava un ricordo tanto indelebile quanto fertile, nella consapevolezza di aver avuto il privilegio di incontrare un testimone vibrante della nostra cultura e storia contemporanee. Ancora di recente le ho rivolto alcune domande riguardo alla sua opera. Ecco cosa mi ha risposto:
So che è difficile per un autore dire se e quale opera ami di più rispetto alle altre, perché ogni opera d’arte è come un “figlio”. Tuttavia, quali senti più intimamente tua?“Morte di Adamo”. Per me è un assoluto. Sta per conto suo. Nasce da una visione che ebbi in un momento estremamente drammatico, in cui mi trovavo in pericolo di vita per una appendicite mal operata che era degenerata in peritonite. Riuscivo a nutrirmi solo con un grissino e una tazza di tè al giorno. Una sera vidi un uomo voltato di spalle, insanguinato, dietro ad una grata. Pensai: “Quest’uomo ha molto sofferto”. Si voltò e mi guardò. Lo riconobbi: era Gesù! Il suo sguardo, che mai ho dimenticato, era pieno di amore e di dolore nello stesso tempo. Mi sentii infinitamente amata. Da quella visione nacque tutto: non solo “Morte di Adamo”, ma tutta la mia opera letteraria. Il sogno che la moglie di Pilato, Claudia Serena, racconta ne “La moglie del Procuratore” è il mio sogno. Come diceva qualcuno: “Il vero scrittore è quello di un libro solo”. Io, in tutta la mia opera, ho raccontato la Passione di Cristo che si rinnova nella storia, dei singoli e dei popoli. Lo sguardo di Gesù flagellato, così pieno di amore e di dolore nello stesso tempo, è l’incontro fondamentale che ha dato senso e unità alla mia vita personale e artistica.
Ricordo che una volta mi hai raccontato che “Morte di Adamo” nacque mentre stavi ascoltando della musica ungherese in camera tua.Sì. Andò proprio così. Stavo ascoltando un disco di musica ungherese quando all’improvviso si fece un silenzio tremendo, un silenzio assoluto. Le rivelazioni più importanti avvengono sempre nel silenzio assoluto. E da quel silenzio udii distintamente queste parole: “Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo ritornò alla terra”. Presi il primo foglio che trovai e scrissi quanto avevo udito. Poi corsi da mio padre e gli dissi:” Papà, guarda cosa mi è successo! Dissi proprio così: guarda cosa mi è successo”. Mio padre lesse e poi disse: “Povera figlia mia!”. Aveva compreso meglio di me in quel momento il dono che avevo ricevuto ma anche il prezzo che avrei dovuto pagare per coltivarlo ed essergli fedele.
Il tema che forse mi ha più colpita nel racconto breve ma densissimo di Morte di Adamo è forse quello della nostalgia, nostalgia di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. Tu lo ritieni un tema centrale del racconto?Beh, “Morte di Adamo” parla della Creazione, del peccato originale, della morte di Adamo, di Eva, madre di tuti i viventi perduti dopo il peccato, e del ritrovamento, nella profezia della Croce di Gesù, l’Albero della Vita. Quanto alla nostalgia di Dio e dell’uomo, già Seneca, nelle “Lettere a Lucillo” scriveva: “C’è un Dio in noi. Chi sia non lo so, però è in noi”.
E’ stata quindi la Fede, il tuo essere cristiana, ad averti sempre dato la forza per affrontare e superare tutte le battaglie e le difficoltà che hai incontrato nella tua vita, compresa la tua attuale infermità che ti impedisce di vedere e di scrivere ancora autonomamente?La forza per combattere la battaglia della vita l’ho trovata proprio nella Fede. Ho cercato di essere fedele alla mia chiamata di poetessa, di essere una scrittrice fedele alla “Parola” e ai personaggi che mi venivano a trovare. Sapevo che Gesù mi era apparso quella notte e mi aveva guardata facendomi sentire infinitamente amata. E Gli ho risposto con la mia opera di scrittrice. 
L’avvenire sembra davvero particolarmente gravido di incertezze, economiche, sociali, ambientali, valoriali. Che invito ti senti di fare ai giovani?A ognuno è stato dato di discernere il bene dal male. Siamo responsabili delle nostre scelte, che sono un dovere. Il problema è quello della necessità della scelta: il bene è la scelta difficile. Come dice Gesù nel Vangelo: chi vuole la salvezza deve entrare per la porta stretta. 
Nella nuova edizione digitale di Morte di Adamo Elena Bono ha voluto inserire non solo  alcune sue annotazioni inedite sui singoli racconti ma anche la poesia Tempo di Dio. Scritta subito dopo la fine della guerra, contiene versi potenti, che valgono e ci interpellano oggi come allora:
…“Non è tempo di lutti / né di follie. / Questo è tempo di Dio. / Che aspettiamo? / Quale segno? / Quale miracolo? /…

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Elena Bono: «Scrivo quello che Dio mi detta»
di Giovanni Fighera

Tanti sono i casi letterari nella letteratura del Novecento. Poeti e romanzieri dimenticati, soprattutto donne, come Ada Negri o il Premio Nobel Grazia Deledda (ricorreva nel 2013 il centenario della pubblicazione di Canne al vento). «È un fatto che quella che riteniamo la scrittrice italiana più importante della seconda metà del XX secolo sia da quasi quarant’anni emarginata dalla cosiddetta grande editoria». Così scrive il critico Giovanni Casoli in Novecento Letterario Italiano ed Europeo (2002) su Elena Bono. Poetessa, autrice di romanzi e di opere drammaturgiche, ha conseguito numerosi Premi letterari tra cui il Premio «Vallombrosa» (per la poesia religiosa), il Premio «Dante Alighier – Cultura ligure», il Premio «Universo Donna», il Premio del Consiglio Organizzativo Mondiale Arte e Cultura a Città del Messico. Imminenti sono la pubblicazione in e-book del suo capolavoro Morte di Adamo e l’inizio delle riprese di un film sulla sua vita, la cui sceneggiatura è stata scritta dalla regista, critica d’arte e gallerista Gabriella Bairo Puccetti. Possiamo considerare anche Elena Bono un vero e proprio caso letterario. Ci auguriamo che la sua opera possa essere conosciuta e apprezzata da un vasto pubblico. 
L’abbiamo intervistata grazie alla collaborazione di Stefania Venturini che la conosce dal 1990, è sua amica e dal 2009 è diventata suo press agent. Accanto alle risposte di Elena Bono (molto sintetiche, perché le condizioni di salute non le consentono di parlare troppo) abbiamo, per l’appunto, riportato in corsivo il commento e qualche racconto di Stefania Venturini.

Che cosa ti senti di dire, di raccomandare, di ricordare ad un bambino, ad un adolescente, ad un adulto di oggi riguardo alla vita e alla felicità?Come si fa ad un bambino: un bambino è un bambino. Quanto agli adolescenti e agli adulti: ognuno ha le sue esperienze.
Elena non ha avuto figli, e forse questo non le rende facile pensare a come parlare ad un bambino. Tuttavia lei è stata una bambina particolare: fin da molto piccola sentiva il richiamo dell’infinito. E non a caso il suo legame intimo e spirituale con Giacomo Leopardi è fortissimo. Aveva solo tre anni quando coi genitori, da Sonnino, andò a Recanati, dove il padre, Francesco Bono, insigne grecista e latinista, era preside del Liceo Classico Leopardi. Appena arrivata nel centro del paese col taxi, fu fatta scendere e per qualche istante rimase sola fra la macchina, la portiera ed il muro del palazzo dove sarebbe andata ad abitare. Fu presa da una specie di sgomento e realizzò: “Ma io sono sola!”. Sperimentò la solitudine cosmica a soli tre anni! Suo papà la portava con sé nello studio che fu del Leopardi. Elena si metteva sotto il busto del poeta e si sentiva inondare dalla sue lacrime. Coi giovani, invece, Elena ha sempre avuto un bellissimo rapporto: lei li ha sempre amati, e loro amano lei, ancora oggi. A loro Elena ha dedicato la sua opera. E in molti lo hanno capito. E chi l’ha letta non l’ha mai più dimenticata. A qualcuno ha letteralmente salvato la vita. Morte di Adamo, soprattutto, è stato ed è un libro che ha scosso profondamente tante coscienze.
Che cos'è per te la poesia? Che cos'è l'urgenza di raccontare e di ricordare? Io scrivo sotto una misteriosa dettatura: è sempre stato così.
Tutto è cominciato quando Elena, appena finita la guerra, stava seduta nel suo salotto mentre ascoltava musica ungherese. Ad un certo punto, lei racconta, si fece un grande silenzio, un silenzio assoluto, difficile da descrivere. E udì distintamente le parole : “Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta anni di vita, Adamo tornò alla terra”. Prese il primo foglio e penna che trovò e iniziò a scrivere. Era l’inizio di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro assoluto Morte di Adamo. Finito di scrivere andò da suo padre e gli disse: “Papà, guarda cosa mi è successo!”. E lui dopo aver letto le disse: “Povera figlia mia”.
È questa urgenza che ha mosso i tuoi primi passi nella poesia? O è altro?Io non ho fatto che scrivere quello che mi veniva dettato: ho risposto ad una chiamata. (Familiaris Consortio)
Elena racconta che ebbe la conferma di questa chiamata a Roma, quando andò a confessarsi con un padre gesuita, p. Copello. Entrò in Chiesa quando ormai stava per chiudere. Ma in confessionale c’era un Padre. Elena stava meditando di entrare in convento, nell’ordine delle Brigidine. Ne parlò al confessore e lui, dopo un lungo silenzio, le disse: “No figlia mia. Sai che quello che devi fare non potresti farlo in Convento”. E da allora Elena non poté più sottrarsi alla sua vocazione di scrittrice, tutta dedicata a restituire alla parola non solo la dignità e il senso, ma la sua sacralità. Perché, dice sempre, “il Verbo si è fatto carne”. Pertanto, chi profana la parola, profana Dio. Profana la vita. Profana l’uomo.
Ami particolarmente il teatro. Perché? 
Io lo facevo fin da bambina coi pupazzetti che ritagliavo dal Corriere dei Piccoli.
Che cosa intendi raccontare dell'uomo attraverso il teatro e attraverso la storia? Che rapporto c’è tra storia e teatro?Tutta la storia è un teatro. Se avessimo un apparecchio adatto potremmo vederlo dal principio del mondo.
C'è una poesia a cui sei particolarmente affezionata e che rispecchia più fedelmente la tua persona, il tuo cuore, le tue domande, le tue aspettative? Tempo di Dio.
Elena la scrisse poco dopo la fine della guerra. E fu profetica. Tutto il tema della lotta per la libertà contro la schiavitù dell’uomo, Elena lo ha sviluppato poi con la trilogia “uomo e superuomo”, scritta nell’arco di un trentennio e che si snoda dagli anni ‘20 fino agli anni 1958. Tempo di Dio si può, a mio parere, collegare perfettamente a Invito a palazzo (una poesia che, per la sua ricchezza, potrebbe persino diventare un film!….: il linguaggio è quello dell’oriente, ma i contenuti sono cristiani. Come dice Elena: “Ho ricondotto l’oriente all’occidente”. Lei che, da giovanissima, era stata attratta dalla mistica orientale, poi ne prese le distanze e rinnegò quel periodo. La vita non va verso il nulla e non è frutto del caso, ma va verso l’incontro definitivo con Dio che è Padre! E la storia è il luogo delle nostre scelte, della nostra responsabilità per il bene o per il male, per la libertà o per la schiavitù: il “risveglio alla storia” (come dice Elena) avvenne proprio l’8 settembre 1943, quando Elena vide, nella stazione di Chiavari, una vecchietta scagliarsi contro due soldati SS chiedendo conto dei soldati italiani feriti che erano ricoverati nelle colonie di Chiavari. Il coraggio di quella anziana donna la richiamò all’esigenza di dover fare la propria parte e di prendere posizione. Elena, sfollata a Bertigaro, sulle alture di Chiavari, fu staffetta nella sesta zona operativa comandata dal primo partigiano d’Italia Aldo Gastaldi “Bisagno”). 
Ci puoi parlare delle «Stanze per Rinaldo Simonetti, "Cucciolo"»?Rinaldo Simonetti (ragazzo fucilato per la libertà nei boschi di Calvari dove era nato pochi anni prima). Scrisse a suo padre e a sua madre: «Vendicheranno il mio nome». A me è toccato. Io non l’ho conosciuto. (Questa poesia è forse fra le più alte della resistenza. Ha fatto commuovere infinite volte le tante persone che l’hanno letta (io ancora non riesco a leggerla senza piangere: e non so quante volte l’ho letta! Eppure….). Ugo Gregoretti, in occasione di una sua visita a Chiavari, la lesse ad una conferenza e, ad un certo punto, gli venne un nodo alla gola e dovette fermarsi un po’ prima di proseguire (ero presente anche io)).
Che cos'è il tempo di Dio? Quando arriva? Arriva per ognuno quando il Signore vuole. Mio padre mi portava in Chiesa e mi indicava la Via Crucis. E io piangevo.
Come vedi tu il panorama della poesia, dell'arte e della letteratura contemporanee?Senza Dio.
Che cosa diresti ad uno studente che oggi volesse intraprendere la strada delle lettere, della poesia e della scrittura in una società e in una cultura in cui l'orizzonte economico sembra dominare ed escludere le altre prospettive?Quello che disse a me mio padre: «Povera figlia mia!».

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Alcuni scritti di Elena Bono
da Tracce N.7, Luglio/Agosto 2013
Quando mi hai ferita?
Quando mi hai ferita?
Forse ero ancora nel seno di mia madre
o forse solo nei tuoi pensieri.
Tu mi amasti da sempre.
Io non ho che un piccolo tempo da darti
ed un piccolo amore.
Ma mi perdo nel tuo,
questo mare che brucia
e di sé si alimenta.
Allorché mi feristi
io non sapevo
quanto il tuo amore facesse male.
Ed è questo che vuoi,
soltanto questo in cambio dell'infinito amore: che io soffra l'amor tuo,
che me lo porti come piaga profonda
e non la curi.


(da E. Bono, Poesie - Opera omnia, sezione: Tempo di Dio, Le Mani, 2007, pag. 83)



Scarica i testi dei due racconti:

  • Un brano da <em><strong>La moglie del procuratore</strong></em> (da Elena Bono, <em>Morte di Adamo</em>, ed. Emme, 1988, pp. 297-301) Un brano da La moglie del procuratore (da Elena Bono, Morte di Adamo, ed. Emme, 1988, pp. 297-301) (80,23 KB)
  • <em><strong>Piccolo Abi</strong></em> (da Elena Bono, <em>Morte di Adamo</em>, ed. Emme, 1988, pp. 7-30) Piccolo Abi (da Elena Bono, Morte di Adamo, ed. Emme, 1988, pp. 7-30)
    (184,41 KB)

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Elena Bono: Padri e paternità

Autore: Rod, Anna Maria e Marchitti, Francesco
Fonte: CulturaCattolica.it


"Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare". Padri e paternità in Elena Bono
E' un'unica e sola tensione quella che corre fra due testi distanti nel tempo, il più antico"Morte di Adamo" e il recente "Una valigia di cuoio nero", quella che fa di Elena Bono, ai più sconosciuta, una delle più grandi scrittrici italiane dei nostri giorni, capace di uno sguardo profondo e penetrante, di cui le sue stesse parole, scelte come titolo, danno ragione. (1)
Come lampi nella notte, i due racconti della Bono, fotografano la condizione esistenziale dell'uomo, dell'uomo di sempre, fragile e peccatore, dell'uomo moderno, annientato dalle ideologie eppure vibrante di speranza e desiderio di redenzione.
La nostra riflessione, e ci perdoni l'autrice se non rispettiamo la genesi cronologica della sua produzione, da "Una valigia di cuoio nero" risale spiritualmente verso "Morte di Adamo", verso quell'origine che ricomponga l'unità perduta.

Una valigia di cuoio nero
Densa e magmatica, materia incandescente, la narrazione de "Una valigia di cuoio nero" sviscera gli inquieti interrogativi dell'uomo contemporaneo: quale il rapporto tra il cosmo ed il frammento? quale il possibile significato degli oggetti che ci circondano, delle persone, anche le più familiari? e la ragione perché fallisce, impotente davanti agli orrori del nostro tempo, incapace a conoscere e a dirigere rettamente l'azione umana e a discernere con chiarezza i confini del male e del bene?
Questi sono forse i temi più interessanti del racconto, una lucida ed acuta lettura, a tratti sconvolgente, della crisi dell'uomo occidentale frantumato e dissolto dalle ideologie del Novecento. In questa trama densa e complessa, balza agli occhi il drammatico rapporto padre-figlio, contestato, anzi già tramontato nel nichilismo novecentesco che elimina ogni traccia di padri e di paternità.
La narrazione si dipana per spire profonde in un sapiente e raffinato gioco ad incastri, a scatole cinesi, fino a che tutto si svela e viene alla luce.
Gli episodi sono narrati dal protagonista, Kurt, in una lunga lettera-monologo al fratello Günter, via via svelandosi come un gomitolo che si dipani a fatica; alla fine i diversi tasselli prendono ordine e disegnano la mappa dell'orrore: la tragedia della Germania dilaniata dalla seconda guerra mondiale, la scelta di Tycho, l'unico figlio di Kurt, fervente sostenitore dell'aberrante ideologia nazista, il lento ma inesorabile tramonto della famiglia dei "Giudici", antenati prossimi e remoti del protagonista, l'imminente suicidio di Kurt, incapace a sostenere e a dare un significato a tanta distruzione personale e storica.
La memoria di Kurt riannoda gli avvenimenti che lo hanno visto padre fallito e figlio di un padre volterriano, il cui orgoglio per la chiarezza razionalistica permetteva alle figlie di essere educate in un collegio di suore cattoliche, ma nel contempo svuotava con metodico stillicidio la fede della moglie. Kurt, tra le righe del suo ultimo scritto, confessa al fratello una lacerante mancanza di senso per tutto ciò che avviene ed è avvenuto, nonché una nostalgia per il Bene e i grandi valori dell'antichità, tanto cercati negli studi classici ma mai trovati e una nostalgia per il Padre, che l'educazione del padre terreno ha voluto con fredda determinazione cancellare.
Evanescenti e paradossalmente telluriche le figure femminili.
Gerda, la moglie, amata per i bellissimi occhi color zaffiro, ma presto allontanata spiritualmente per le eccessive diversità di carattere, interessi e sentimenti (peraltro la donna stessa si isolerà dalla famiglia quando scopre di avere sangue ebreo nelle vene). Venuto meno il patto nuziale prende piede, sempre di più, la connivenza madre-figlio, in una lotta serrata e astiosa contro il padre, contro i padri-padroni della famiglia dei Giudici.
Accanto alla moglie campeggia la madre di Kurt, Maman: nobile ed altera, fredda e distaccata, il cui formalismo religioso diventa àncora, inutile, per sopravvivere in un contesto familiare velatamente ostile alla fede ed alla Chiesa. Con Gerda è responsabile delle scelte del nipote Tycho, lo protegge nelle intemperanze infantili e appoggia la sua fuga in "collegio", un segreto seminarium delle SS. Totenkopf.
Vacue ed inconsistenti le due sorelle di Kurt e Günter, Marion e Amélie: avide, viziose, pronte ad arraffare e a spartirsi i resti della grande ricchezza della famiglia alla morte della madre.

Nanette e Tycho
L'unica presenza femminile, dolce e solare, quasi donna-angelo dantesca è Nanette, figlia di Günter, amata da Tycho durante una estate.
La piccola Nanette, ora sposa e madre in un paese lontano, appare quasi subito nei flash-back dell'io narrante. La fanciulla è orfana e indifesa, poiché l'integerrimo Günter, abbandonato dalla moglie, ne cancella anche la memoria nella vita familiare, occupandosi dei figli in modo pragmatico e distaccato. Nanette si lega allora in modo particolare a zio Kurt, lo cerca, ne fa il suo confidente ("…Zio mio, zio mio, sarò un po' più felice di mia madre nel matrimonio? un po' meno infelice?…"), fino ad assurgere a elemento cardine della vicenda. Kurt ricorda alcuni episodi dell'infanzia del figlio e dei nipoti: il tentativo di Tycho di bruciare Nanette dopo la cremazione delle spoglie del nonno, Tycho che dà fuoco ad uno scoiattolino amato da Nanette…fino all'estate in cui sboccia l'amore tra i due, giunti ormai oltre l'età dell'adolescenza: "…(Nanette) Volava giù per il gran prato inglese, cosa d'aria e di luce; il muovere leggero delle braccia la rendeva più alata….Io sentii, Günter, ripercuotersi in me, quasi un effetto di consonanza, il colpo breve e eterno ricevuto da Tycho a quella bianca apparizione: un vestitino corto da tennis con cinturina d'oro… Rabbrividii come se avesse parlato un angelo… Bianca nel grande verde, e portatrice di salvezza. Così semplice e sciolta nella vestina corta da tennis, eppure così "simile ad una sacra immagine cui per segreta volontà degli Dei sia legato il destino di una città" (ndr. Citazione tratta dalla "Ifigenia" di Goethe, in uno stretto rapporto che il protagonista intuisce tra il destino di Nanette e dell'eroina classica). Con un unico sguardo era discesa nella buia prigione dove Tycho giaceva addormentato, fatto pietra dal Male…Dalle sue labbra, Günter, parlò Qualcuno, quella stessa Presenza cui appartenevano gli occhi severi e tuttavia misericordiosi. Della nostra Nanette rimaneva in quegli occhi la "fiducia infantile", tanto potente nel ricacciare il Male…". Quello fu un amore che "…riempiva l'anima di timore e tremore… quell'illudente amore, eppure vero nella sua forza d'esorcismo…".
Infatti tutto finisce, come bolla di sapone, a causa dell'imminente partenza di Günter e dei suoi figli per le Americhe. Tale notizia "…fu l'unico istante di tutta una vita, l'unico in cui (Tycho) si aggrappò con l'anima a me e fummo insieme, mio figlio ed io…"; da quell'istante però la faccia di Tycho ha un raggrinzimento strano, una strana risata gli deforma il volto, agghiacciando il cuore di chi lo sente, mentre matura l'idea di arruolarsi nelle SS.
Ma è nella luce di Nanette che si comprende, solo a questo punto, l'oscurità che avvolge Tycho, oscurità che da sempre lo ha caratterizzato.
Fin dalle prime pagine del romanzo la presenza di Tycho è accompagnata da segni di morte: la sua camera è la tana, la sua divisa da SS è nera ed è custodita, come preziosa reliquia in una valigia di cuoio nero, che spande un odore forte ed acre e contiene ben altri orrori; le azioni che lo vedono protagonista dell'ultimo tragico incontro con suo padre avvengono di notte, durante un bombardamento aereo che distrugge parte dell'antica abitazione. Tycho è il ragno, la belva che arriva e divora, l'incarnazione stessa del Male perpetrato con fredda e calcolata determinazione.
Fin dalla sua nascita Kurt percepisce la presenza del figlio con angoscia "…sentivo la mia anima farsi simile a un pozzo e in quel pozzo montare acque nerissime di spavento e angoscia… vederne il fondo e quale fosse l'animale morto che imputridiva tutta quell'acqua e la rendeva così simile all'acqua di una fogna…".
La memoria di Kurt dipana via via la matassa degli anni di Tycho fino all'oggi del loro ultimo incontro. Il giovane è sdraiato sul divano della sala, in veste nera da camera; ha gli occhi chiusi ma non dorme, parla come in stato di trance e, a sua volta, riannoda fatti e anni passati in un crescendo di accuse e farneticanti discorsi. Kurt, interpellato con insistente e sferzante sarcasmo come bone paterhumanissime pateroptime pater, non sa dire una parola, impietrito ascolta l'agghiacciante disamina del figlio e le sue folli, quanto reali argomentazioni sull'"ordine nuovo" che si verrà a creare e sull'uomo nuovo che sta per essere partorito dall'ideologia nazista.

Padri e paternità
Un importante tassello in questa concitata narrazione, tanto difficile da esaurire nella nostra breve presentazione, è la persona di Stolz, proprio a metà del romanzo. Il vecchio e sgraziato Stolz, custode della biblioteca di cui Kurt è il direttore, lo stesso giorno in cui Tycho è arrivato gettando ombre di angoscia attorno a sé, chiede di parlare al suo superiore. Con fatica cerca di mettere in ordine pensieri e parole, tanto che il sudore gli inonda la fronte e gli cola per la criniera grigia e i basettoni con i quali vorrebbe assomigliare a Francesco Giuseppe. Stolz lamenta la mancanza di un ordine certo, sociale e politico, a cui riferirsi, di un'incertezza e vacuità in cui tutto è permesso, persino accedere alla cultura, diventata ormai risciacquatura della sapienza. Con voce catarrosa, nella lenta parlata austriaca, con un aspetto di vecchione invernale, Stolz, arriva in breve al cuore delle sue argomentazioni: "…non c'è più gerarchia… Stolz ha servito sotto l'Imperatore, quello vero, apostolico e sacro Imperatore! Allora si sapeva chi comandava e chi obbediva. Ora si sa soltanto chi bastona. Bastona sì, ma non comanda veramente. Chi gliel'ha data a questi l'investitura, la sacra investitura?… nessuno di questi tempi può star bene, in una società così… decapitata, Stolz… e"i vuol dire senza più un padre, vero? Senza più un padre in cielo né quaggiù in terra, perché i padri non sono più padri, non ci si vede la faccia di Dio in trasparenza. Mio padre, povero ciabattino, curvo e storto era per noi figli la figura di Dio. Tal quale l'Imperatore sul suo trono: sempre figura di Dio. E perciò tra gli stenti e poche croste di pane, eravamo tranquilli, senza paure, sotto l'ala del Padre, mi spiego? Adesso siamo tutti disperati, inseguiti come Caino, non tanto perché abbiamo ucciso Abele, ma perché abbiamo perduto il Padre…".

Morte di Adamo
Sulle note limpide e accorate che sprigionano dalle parole di Stolz, quasi dantesca risalita dagli inferi dell'orrore umano verso una possibile redenzione e salvezza, è il secondo testo delle nostra riflessione "Morte di Adamo". (2)
Il racconto è tra i più impressionanti della Bono per ambientazione e narrazione, come mistica visione il Mistero si svela e prende inaspettata forma nelle parole. Emilio Cecchi così commenta: "Ciò che soprattutto colpisce è il fatto della scrittura estremamente composita e, al medesimo tempo, capace delle più strane, labili evocazioni…e una violenza espressiva, al cui confronto certe immagini di Altdorfer e di Grünewald possono sembrare degli zuccherini…".
Fin dalle prime battute incombe sul lettore un senso di oscuro presentimento: in un tempo impreciso, all'inizio di tutti i tempi umani, in un luogo arcano, alla presenza di nove patriarchi e di una sconfinata moltitudine di uomini ed animali avviene la morte di Adamo, il ritorno di Adamo alla terra: "…una moltitudine buia che ondeggiava e brusiva come fa l'erba dei pascoli quando le nere mandre del cielo strisciano in corsa sull'altopiano, con immenso muggito…". Tempo sospeso, in attesa di un evento, in attesa di un incontro… "dentro la tenda, accanto a Adamo, c'era Eva. E dentro Adamo, Dio…".
Il nodo stretto, il nucleo tematico di tutta la serie dei racconti, quella origine che dà ragione di tutto lo svolgimento è qui, in questo altamente drammatico scontro-incontro Dio-uomo, Padre-figlio, Figlio-figli.
Adamo nell'agonia della morte sente la voce di Dio, "Dove sei?", e cerca di nascondersi "nudo e insanguinato", ma urta contro un corpo, il corpo martoriato di Abele, dalla cui gola forata continua ad uscire sangue.
"Chi ha fatto questo?" incalza Dio, "ma la bocca di Adamo era chiusa alla verità e Dio voleva aprirla. Allora cominciò la lotta di Dio con Adamo", la lotta per il riconoscimento di una paternità tradita ed una figliolanza perduta.
Il cuore di Adamo è gonfio di una angoscia che urla a Dio dalla profondità delle sue fibre "Perché mi hai creato?" ed in questo incalzare di domande a cui fa eco il silenzio, i due contendenti, il Creatore e la creatura, giungono al dialogo, nel doloroso ricordo dei giorni sereni trascorsi nell'Eden, del loro passeggiare insieme al tramonto del giorno, tra profumi notturni e freschezza di piante. Ma ora "…essi erano nemici legati l'un l'altro dalle necessità della lotta, anche se grande era la pietà nel cuore di Dio e grande il rimorso nel cuore di Adamo…".
All'improvviso dalla gola forata di Abele, oltre allo sgorgare del sangue, sgorga anche un canto "…Ecco il tuo agnello, Dio, pastore dei cieli…". Adamo in un frangente rivede il figlio mentre offriva doni a Dio; allora il suo volto era raggiante e su di esso riverberava la bellezza del Creatore, e per questo era da Lui prediletto, ma nello stesso momento Adamo vede il volto disperato di Caino: "…così la bocca di Adamo si aprì alla verità e gridò: con la mano di Caino il mio peccato ha ucciso Abele, mio figlio…".
Prende così forma il dramma di Adamo: la ribellione a Dio, al Padre diventa incapacità di essere padre a sua volta, fino al desiderio di annullare quel figlio che riflette con luminosa chiarezza la Bellezza originaria; è il peccato di Adamo che arma la mano di Caino, permettendo così all'orgoglio di devastare la fratellanza.
"…Ed ecco il mio cuore (ndr. dice Adamo) si è riempito di tumulto: hanno urlato il mio peccato e la mia umiliazione, gioia e furioso amore, desiderio di morte e volontà di distruggere la tua traccia. Lo grido innanzi a Te: non volevo uccidere Abele, ma Dio. Ah perché sei tornato nel figlio dell'uomo?"
I figli e i discendenti assistono il morente, ma non avvertono il dramma della lotta, solo Eva, madre di tutti i viventi, e qui certamente anche figura di Maria, comprende la vertiginosa importanza di questi frangenti, chiede che il vecchio Adamo venga portato sotto il grande albero, nato da un ramo strappato dal giardino dell'Eden e trafugato nella precipitosa corsa verso la terra d'esilio. Sotto quell'albero Eva si riposava "…quando il frutto del ventre pesava come un peccato triste senza perdono; e sempre all'aereo mormorare dei rami una sconosciuta speranza l'adombrava, che l'induceva a lacrimare; così mentre il sonno veniva sui suoi occhi, le sembrava di portare nel ventre nient'altro che quella speranza…".
E' proprio su questa speranza, intuita come profondo desiderio che si chiude il racconto e getta luce sul futuro di una possibile ricomposizione dell'armonia perduta: Dio promette il Figlio, un figlio che, come Abele innocente, verrà ucciso dalla cattiveria dei suoi fratelli.
"…Adamo, chiamò Dio, ascolta ciò che dice il Signore. Dio dice: darò nelle tue mani mio figlio, l'agnello di Dio senza peccato; in Lui la mia somiglianza con te sarà rinnovata per sempre. Dio e Adamo in Lui saranno uno solo. Tu l'ucciderai, nuovo Abele, servendoti dell'albero (ndr. l'albero sotto cui Adamo è portato per morire), me l'offrirai in sacrificio e mangerai la sua carne e berrai il sangue suo. Egli prenderà sopra di sé i tuoi peccati e in Lui farò giustizia del pianto e del sangue. Starà come segno di pace tra noi, speranza per te ed i tuoi figli fino all'estrema generazione… e il cuore di Adamo, tremando, ebbe compassione di Dio…".

Note
(1) Nata a Sonnino nel 1921, figlia di un noto studioso di letteratura classica, si trasferisce ancora adolescente in Liguria e lì vive oggi in una solitudine che non dà ragione alla grandezza delle sue opere e alla sua profonda sensibilità.
Scrittrice dalle molteplici sfaccettature, in questi lunghi anni, ha dato alla luce raccolte di poesia, come "I galli notturni" (1952), "Alzati Orfeo" (1958), opere di teatro, tra cui "Ippolito" (1954, rappresentato da Emma Grammatica a Roma nel '57), "La testa del profeta" (1965, che ebbe anche rappresentazioni radiofoniche) e ha curato la traduzione per Garzanti di "Edipo re, Edipo a Colono" e "Antigone" di Sofocle (1977). Tra le opere di narrativa abbiamo già citato la serie dei racconti "Morte di Adamo" (Garzanti 1957, EmmeE 1988), il romanzo "Come un fiume, come un sogno" (1985), primo volume della trilogia "Uomo e Superuomo", di cui i racconti de "Una valigia di cuoio nero" (1998) costituiscono il secondo volume. Giovanni Casoli, in "Novecento letterario ed europeo. Antologia e testi scelti", Roma, Città Nuova, 2002, ha scritto una lunga ed interessante presentazione della nostra autrice.

(2) Scritti nel lontano 1956 (editi da Garzanti) e ristampati dopo trent'anni nel 1987, i racconti di "Morte di Adamo" seguono, con forza di visione, gli ultimi momenti della vita di Gesù, dall'ultima cena fino alla resurrezione e alla diffusione del cristianesimo a Roma caput mundi.

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